Moneta e inflazione

I tassi d’interesse della BCE, confronti internazionali e con gli anni ’70

23 gennaio 2023

Intermedio

I tassi d’interesse della BCE, confronti internazionali e con gli anni ’70

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Malgrado gli aumenti degli ultimi mesi (più 2,5 per cento da luglio 2022) la BCE rimane una delle banche centrali con i tassi di interesse nominali e reali più bassi al mondo. Quasi tutti i paesi avanzati (Norvegia, Australia, Corea del Sud, Regno Unito, Israele, Canada e Stati Uniti) hanno un’inflazione simile o più bassa di quella dell’Eurozona e tassi di policy più alti. Ciò testimonia la prudenza con cui fino ad ora si è mossa la BCE. Tuttavia, la lezione degli anni ’70 ci dice in modo inequivoco che le banche centrali non possono rimanere inerti di fronte ad un aumento dell’inflazione come quello che si sta registrando negli ultimi mesi. Il rischio dell’inerzia è che le aspettative inflazionistiche si radichino nei comportamenti degli operatori economici e che alla fine siano necessarie azioni antinflazionistiche più drastiche che causerebbero una recessione più profonda di quella che si sarebbe avuta con politiche più tempestive. L’indipendenza della banca centrale, una conquista degli ultimi decenni, certo non impedisce che gli economisti, i commentatori e anche i politici discutano dell’appropriatezza delle scelte della banca centrale. Le audizioni della BCE presso il Parlamento Europeo sono state concepite proprio per far sì che essa risponda delle proprie scelte. È però evidente che le esternazioni dei membri del governo devono essere particolarmente caute e non devono dar luogo al sospetto che si voglia sottomettere la BCE ai voleri di questo o quel governo.

La nota è stata ripresa da Repubblica in questo articolo del 21 gennaio 2023.

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Gli attuali tassi d’interesse nominali e reali nel mondo

Malgrado gli aumenti degli ultimi mesi (più 2,5 per cento da luglio 2022) la BCE rimane una delle banche centrali con i tassi di interesse nominali più bassi al mondo. Il tasso sulle operazioni di rifinanziamento principali è salito da 0 a 2,5 per cento, mentre il tasso di policy più importante, quello sui depositi delle banche presso la BCE, è aumentato nello stesso periodo da un valore negativo di -0,5 per cento al 2 per cento. Solo Giappone, Svizzera e Danimarca si collocano al di sotto della BCE con il Giappone unico paese ad avere ancora un tasso di policy negativo, invariato dal 2016 (Tav. 1). Quasi tutti i paesi avanzati (Norvegia, Australia, Corea del Sud, Regno Unito, Israele, Canada e Stati Uniti) hanno un’inflazione simile o più bassa di quella dell’Eurozona e tassi di policy più alti. Diverso è il caso di paesi come Polonia e Ungheria che hanno tassi nominali molto più alti (rispettivamente del 6,75 e 13 per cento) a fronte, però, di un tasso di inflazione notevolmente più elevato (rispettivamente del 16,6 e 24,5 per cento).

Delle 27 banche centrali considerate nella Tav. 1, 22 hanno aumentato i propri tassi d’interesse nel corso del 2022 (segno che l’inflazione è un fenomeno globale), 2 li hanno lasciati invariati e solamente 3 banche centrali (Cina, Turchia e Russia) li hanno ridotti.

Questi confronti non considerano i diversi tassi di inflazione nei vari paesi. Tenendone conto si possono calcolare diverse misure del tasso di interesse reale; nell’ultima colonna della Tav. 1 si considera il tasso di interesse reale calcolato come differenza tra il tasso d’interesse nominale e il tasso di inflazione registrato negli ultimi 12 mesi.

Considerando questa metrica, il tasso reale della BCE è pari a -6,7 per cento, uno dei valori più bassi fra tutti i paesi avanzati. In questi paesi, infatti, i tassi di interesse reali sono più alti, in molti casi di vari punti rispetto all’Eurozona.[1] Solo in Danimarca, Svezia e Regno Unito i tassi reali sono leggermente più negativi rispetto all’Eurozona; in Italia, invece, considerando il tasso di inflazione raggiunto il dicembre scorso intorno al 12 per cento, si ottengono tassi reali pari al -9,1 per cento. Valori ancora più bassi si registrano in paesi con tassi di inflazione anomali dal 17 per cento della Polonia al 95 per cento dell’Argentina. Particolarmente istruttivo è il caso della Turchia in cui il governo ha più volte licenziato i vertici della Banca Centrale al fine di imporre una linea di bassi tassi di interesse; la conseguenza è stata un deprezzamento della lira turca del 27 per cento (in un anno, rispetto al dollaro) e un tasso di inflazione che ha sfiorato il 100 per cento. L’alta inflazione ha aggravato le tensioni sociali del paese, tanto che a inizio anno il Presidente Erdogan ha dovuto annunciare che nel 2023 “la bolla inflazionistica verrà sradicata”, un annuncio a cui pochi hanno creduto dato che non è chiaro come si intenda perseguire l’obiettivo.[2]

Data la dimensione dell’economia europea, per la BCE il confronto più significativo è con la FED americana. Da questo emerge che i tassi della BCE sono piuttosto bassi e inferiori di 200 punti base rispetto a quelli della FED, malgrado l'inflazione registrata a dicembre 2022 sia più bassa negli Stati Uniti rispetto all'Eurozona di quasi 3 punti percentuali (6,5 per cento negli Stati Uniti e 9,2 nell’Eurozona). Inoltre, la FED ha aumentato di ben 7 volte i tassi d’interesse nel corso del 2022, di cui 4 volte di ben 75 punti base. La BCE, nello stesso periodo, ha invece aumentato i propri tassi solo 4 volte, di cui soltanto 2 volte di 75 punti base e le restanti di 50.

Le lezioni degli anni ‘70

In quasi tutti i paesi considerati, l’inflazione non raggiungeva valori tanto elevati dagli anni ’80. Come si vede dalla Tav. 2, nel 1980, all’indomani del secondo shock petrolifero successivo alla rivoluzione iraniana, in quasi tutti i paesi avanzati l’inflazione superò il 10 per cento sino ad arrivare al 21 per cento in Italia, al 18 nel Regno Unito, al 15 in Spagna, al 13 in Francia e negli Stati Uniti. Persino allora però pochissimi paesi (Sud Africa, Turchia e Brasile) registrarono tassi di interesse reali più bassi di quelli attuali della BCE; e quei pochi stavano attraversando vicende politiche epocali e registravano tassi di inflazione non invidiabili: 94 per cento la Turchia, 46 il Brasile e 14 il Sud Africa.


Se da un lato ci sono parallelismi tra gli eventi odierni e quelli degli anni ’70 e ’80, dall’altro ci sono anche notevoli differenze. Un recente articolo di Ben Bernanke, riferito al caso degli Stati Uniti, è molto utile per capire le analogie e le differenze.[3] Gli elementi di somiglianza possono essere così sintetizzati: in entrambi i casi, un lungo periodo di stabilità dei prezzi è stato seguito da un’elevata l’inflazione trainata sia dalla domanda (la spesa per la guerra del Vietnam e i programmi della Great Society alla fine degli anni ’60, le spese per il Covid oggi) che dall’ offerta (gli shock ai prezzi dei beni energetici e alimentari).   

La differenza cruciale è che negli anni ’70 qualsiasi tentativo della FED di alzare i tassi di interesse per combattere l’inflazione incontrava una forte resistenza politica a causa degli effetti collaterali negativi per il tasso di crescita dell’economia e dell’occupazione. In particolare, il Presidente Lyndon Johnson esercitò forti pressioni sulla FED affinché tenesse bassi i tassi di interesse e varò, al contempo, un aumento di tasse che avrebbe dovuto frenare l’inflazione, ma non ebbe alcun effetto. Anche Richard Nixon rese chiaro al nuovo presidente della FED che non avrebbe tollerato un rallentamento dell’economia, specialmente in prossimità delle elezioni del 1972. Inoltre, annunciò il blocco temporaneo di tutti i prezzi e i salari negli Stati Uniti il 13 agosto 1971, lo stesso giorno in cui fu sospesa la convertibilità del dollaro in oro (segnando, di fatto, la fine del regime di Bretton Woods). La mossa di Nixon fu accolta molto bene da Wall Street e fu considerata un successo politico. Diede, però, il via a una fase di grande instabilità del sistema finanziario internazionale e non ebbe l’effetto desiderato di calmierare, se non temporaneamente, l’inflazione che superò il 10 per cento nel 1974.

Negli anni successivi, in assenza di una politica monetaria che la contrastasse, l’inflazione si radicò nelle aspettative e nei comportamenti di imprese e lavoratori, raggiungendo un massimo del 13 per cento nel 1980. Solo allora l’inflazione fu frenata da quella che fu un vero e proprio cambio di regime da parte della FED guidata da Paul Volcker. I tassi di policy passarono così dal 10 al 21 per cento in meno di due anni.

La conseguenza dell’aver agito con grande ritardo fu una profonda recessione negli Stati Uniti che si propagò rapidamente nel resto del mondo. Inoltre, i tassi d’interesse reali raggiunsero valori elevatissimi che portarono ad un forte aumento dei debiti pubblici e privati in molti paesi, inclusa l’Italia.

A differenza di allora, e forse per via dell’esperienza maturata, oggi la FED (ma lo stesso si può dire della BCE) gode di un elevato grado di indipendenza e ha il consenso necessario per contrastare l’inflazione sin dall’inizio. Questo fa sì che le aspettative inflazionistiche per famiglie e imprese rimangano sostanzialmente ancorate al livello desiderato dalle banche centrali (in prossimità del 2 per cento). Ciò emerge sia dalle differenze di rendimento fra i titoli nominali e quelli indicizzati all’inflazione sia dai sondaggi presso gli operatori (Tav. 3).

Un’altra importante differenza tra gli anni ’70 e oggi riguarda il dibattitto sulle cause dell’inflazione. Negli anni ’70, la convinzione diffusa era che, essendo l’inflazione generata principalmente dal lato dell’offerta, non potesse essere combattuta tramite una politica monetaria restrittiva. Naturalmente è vero che la politica monetaria non può fare nulla per ridurre il costo dell’energia o per risolvere i rallentamenti e le interruzioni nelle catene di approvvigionamento. Tuttavia, nel corso del tempo, è prevalsa la convinzione che la politica monetaria debba agire tempestivamente riducendo la domanda al livello compatibile con la minore offerta e per evitare che si destabilizzino le aspettative inflazionistiche.

Cosa ha imparato l’Italia dagli anni ‘70

Molte di queste considerazioni, relative al ruolo della banca centrale, si applicano anche all’Italia. Si ricorderà che negli anni ’70, in Italia come negli Stati Uniti, prevaleva l’idea secondo la quale la banca centrale dovesse assecondare le politiche dei governi. L’espressione più nota di questa impostazione la si deve a Guido Carli, allora governatore della Banca d’Italia, che nelle Considerazioni Finali sul 1971 disse: "Ci poniamo l'interrogativo se la Banca d'Italia potrebbe rifiutare il finanziamento del disavanzo del settore pubblico astenendosi dall'esercitare la facoltà attribuita dalla legge di acquistare titoli di Stato. Il rifiuto porrebbe lo Stato nella impossibilità di pagare stipendi ai pubblici dipendenti e le pensioni. Avrebbe l'apparenza di un atto di politica monetaria; nella sostanza sarebbe un atto sedizioso, al quale seguirebbe la paralisi delle istituzioni". Dunque, per Guido Carli, come per gran parte della cultura economica del tempo, l’indipendenza della banca centrale poteva addirittura sfociare in atti definibili come “sediziosi”. 

Come noto, le cose cambiarono radicalmente a partire dagli anni ’80: l’Italia non voleva più essere il paese dell’inflazione e delle continue svalutazioni del cambio perché ciò era considerato nocivo per la crescita economica e per la coesione sociale.[4] Si spiegano così molte scelte cruciali di politica economica: l’adesione, nel 1979, al Sistema Monetario Europeo, il divorzio fra la Banca d’Italia e il Tesoro nel 1981, e successivamente, fra il 1983 e il 1984,  il lodo Scotti e il cosiddetto decreto di San Valentino, con cui governo e parti sociali si impegnarono a ridurre rapidamente l’inflazione. In questo contesto, la Banca d’Italia poté operare con una maggiore indipendenza di quella consentita dal divorzio.[5]

In conclusione, oggi è più che lecito discutere della velocità con cui si muovono le diverse banche centrali, nonché dei modi con cui comunicano le loro azioni e le loro intenzioni. Ma è difficile dubitare dell’esigenza di attuare politiche monetarie di contrasto all’inflazione. Alla luce dei dati esposti in questa nota è anche molto difficile dire che la BCE sia stata fino ad ora particolarmente aggressiva; al contrario, i tassi di policy nell’Eurozona, valutati sia in termini nominali sia al netto dell’inflazione, sono fra i più bassi al mondo.

Un’ultima considerazione riguarda il rapporto fra la BCE e i governi. L’indipendenza della banca centrale, una conquista degli ultimi decenni, non impedisce che gli economisti, i commentatori e anche i politici discutano dell’appropriatezza delle scelte della banca centrale. Infatti, le audizioni della BCE presso il Parlamento Europeo sono stare concepite proprio per far sì che essa risponda delle proprie scelte. È però evidente che le esternazioni dei membri del governo devono essere particolarmente caute e non devono dar luogo al sospetto che si voglia sottomettere la BCE ai voleri di questo o quel governo.

 

[1] Si vedano: Israele (-1,55 per cento), Corea del Sud (-1,75 per cento), Svizzera (-1,8 per cento), Canada (-2,25 per cento), Norvegia (-3,15 per cento), Nuova Zelanda (-4 per cento) e Australia (-4,7 per cento).

[2] Per maggiori dettagli vedasi: L'inflazione turca cala bruscamente, in sostegno a Erdogan, Nektaria Stamouli, Politico, 3 gennaio 2023.

[3] Per maggiori dettagli vedasi: L’inflazione non tornerà ai livelli degli anni ‘70, Ben S. Bernanke, New York Times, 14 giugno 2022.

[4] Si veda: Il divorzio fra Banca d’Italia e Tesoro: teorie sovraniste e realtà, Giampaolo Galli, Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani, 25 novembre 2018.

[5] Ad esempio, fino al 1992, il potere di fissare il tasso di sconto rimase formalmente nelle mani del governo; nella pratica le decisioni furono quasi sempre concordate con la Banca d’Italia.

Un articolo di

Giampaolo Galli, Francesco Scinetti e Nicoletta Scutifero

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