Fisco

I passati tentativi di riforma del catasto italiano e la situazione attuale

18 marzo 2022

Intermedio

I passati tentativi di riforma del catasto italiano e la situazione attuale

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La legge delega sul fisco approvata dal governo lo scorso autunno e ora in corso di approvazione parlamentare contiene anche la riforma del catasto, con l’obiettivo di ridurre gli immobili non censiti e di aggiungere informazioni sul valore di mercato degli stessi. Gli attuali valori catastali risalgono al biennio 1988-1989. I successivi tentativi di revisione di tali valori, nel 1998, 2005, 2011, 2013 e 2014 non ebbero successo. L’attuale riforma prevede che si aggiunga alle informazioni attualmente esistenti sui beni immobili il valore catastale degli stessi. La legge però prevede che tali valori non siano usati per determinare la base imponibile per il pagamento di imposte.

* * *

La riforma del catasto (inventario dei beni immobili presenti sul territorio nazionale) è stata avviata lo scorso autunno con il disegno di legge delega per la riforma fiscale (Atto Camera 3343), approvato dal governo il 5 ottobre 2021 e ora in discussione in Parlamento. Il disegno di legge richiede al governo, per quanto concerne il catasto, di adottare norme volte a: (i) ridurre l’abusivismo edilizio, facilitando l’individuazione di immobili non censiti e (ii) “attribuire a ciascuna unità immobiliare il relativo valore patrimoniale e una rendita attualizzata in base, ove possibile, ai valori normali espressi dal mercato”, prevedendo anche meccanismi di adeguamento periodico di tali voci ai prezzi di mercato.

Rispetto alla prima finalità, l’Agenzia delle Entrate ha stimato che vi siano attualmente oltre 1,2 milioni di unità immobiliari urbane non censite in catasto.[1]

Rispetto al secondo obiettivo, le attuali rendite catastali riflettono ancora oggi la revisione effettuata tre decenni fa in base ai valori di mercato del biennio 1988-1989 (vedi paragrafo seguente) e non sono quindi correlate al valore attuale degli immobili. Conseguentemente esiste al momento una forte disparità tra valori di mercato e catastali. Esistono in proposito due questioni.

La prima riguarda il valore medio degli immobili e delle relative rendite: quelli attualmente inclusi nel catasto sono bassi rispetto a quelli di mercato. Si stima che i proprietari di circa un quarto delle case italiane avrebbero una base imponibile ai fini fiscali pari al 26 per cento del valore di mercato.[2] Inoltre, tutte le regioni italiane avrebbero un rapporto tra valore stimato di mercato e valore catastale maggiore di uno. Questo problema potrebbe essere risolto, come talvolta in passato, attraverso una rivalutazione delle rendite catastali per tutti gli immobili. Questo comporterebbe un aumento di gettito. Negli ultimi anni però una maggiore tassazione della casa è stata considerata politicamente inaccettabile (anche se potrebbe essere utilizzata per ridurre il carico fiscale sul lavoro). Questo è il motivo per cui tutte le proposte di riforma del catasto presentate negli ultimi anni prevedevano l’invarianza del gettito delle corrispondenti imposte. 

La seconda questione, quella che tali proposte cercavano di risolvere, riguarda la distribuzione del carico fiscale. Come evidenziato in un rapporto presentato in Senato da “Legautonomie Toscana” nel 2013, l’iniquità delle rendite catastali si trova anche all’interno della stessa tipologia di immobili, fra abitazioni situate in zone centrali accatastate nel secolo scorso e appartamenti realizzati recentemente in zone periferiche.[3] Può per esempio accadere che edifici anteriori al 1990, oggetto di ammodernamento e migliorie, siano valutati oggi in base a tariffe più basse di quelle che sarebbe corretto utilizzare.[4] Tutto questo porta a un trasferimento della pressione fiscale sulle fasce sociali più deboli che comprano una casa in periferia ad un prezzo al metro quadro relativamente basso, ma con una tassazione incomprensibilmente elevata.

Anche a livello europeo è stata segnalata la necessità di riformare il catasto: nel luglio 2019 il Consiglio Europeo, nell’ambito delle raccomandazioni e pareri sulle politiche economiche, occupazionali e di bilancio degli Stati Membri per il 2019, raccomandava all’Italia di riformare i valori catastali obsoleti.[5]

In questa nota ripercorriamo i vari tentativi, purtroppo falliti, di aggiornare il valore degli immobili ai prezzi di mercato intrapresi negli ultimi decenni.

Il catasto italiano dalla riforma nel 1990

Il decreto del 20 gennaio 1990 di quello che allora era il Ministero delle Finanza (ora confluito nel Ministero dell’Economia e delle Finanze), guidato da Rino Formica, ministro del sesto governo Andreotti, autorizzava l’amministrazione del catasto (lo riportiamo per esteso vista che quella fu l’ultima volta in cui il tentativo ebbe successo) a:

“… procedere alla revisione delle tariffe d'estimo delle unità immobiliari urbane a destinazione ordinaria, che verranno stabilite sulla base del valore unitario di mercato, ordinariamente ritraibile. […] Il valore unitario di mercato da porre a base per la determinazione delle tariffe nonché per le rendite catastali delle   unità immobiliari a destinazione speciale o particolare, sarà determinato come media dei valori riscontrati nel biennio 1988-1989.” [6]

Da allora il catasto non è più stato aggiornato rispetto ai prezzi di mercato, se non per variazioni minori. È rimasto anche fisso il numero delle classi per ciascuna categoria catastale e, di fatto, i differenziali delle tariffe tra le diverse classi.[7]

Nel 1997 i valori catastali vennero rivalutati del 5 per cento senza però cambiarne la posizione relativa.[8] Il successivo DPR 138 del 1998 prevedeva una nuova serie di revisioni, solo in parte applicate.[9]

Un nuovo tentativo di cambiare le rendite catastali venne effettuato dal governo Berlusconi, con la legge finanziaria per il 2005. In particolare, venne data ai comuni la facoltà di richiedere all’Agenzia del Territorio la parziale revisione del classamento delle unità immobiliari in una determinata microzona. La revisione, modificando la categoria e la classe degli immobili, avrebbe comportato anche la variazione della rendita catastale.[10] Tuttavia, pochi comuni si presero la responsabilità politica di richiedere variazioni che avrebbero comportato un aumento della base imponibile: solo 17 su 8000 comuni. Tra questi erano inclusi Roma e Milano, ma, tutto sommato, le variazioni coinvolsero solo 327.649 unità immobiliari urbane su un totale quasi 66 milioni censiti nelle categorie catastali con attribuzione di
rendita.[11]

Nel 2012 il Governo Monti, con il disegno di legge delega n.5291 del 2012, provò ad avviare un’ennesima revisione del catasto.[12] Tra le principali misure previste c’erano il passaggio dal “vano” al metro quadro per valutare la dimensione degli immobili, la determinazione del valore patrimoniale di questi sulla base del valore di mercato, tenendo conto della posizione e delle caratteristiche edilizie e l’aggiornamento periodico dei valori patrimoniali e delle rendite immobiliari.[13] La delega prevedeva esplicitamente l’invarianza del gettito delle varie imposte la cui base imponibile sarebbe stata  modificata dalla riforma: l’obiettivo era quindi redistribuire il carico impositivo sugli immobili, non aumentarlo.

Il disegno di legge fu approvato dalla Camera ma non dal Senato e decadde con la fine della legislatura. Venne ripreso, in forma simile, dal disegno di legge 282 del 2013 con il Governo Letta, che però non fu approvato prima della caduta del governo.[14] La sostanza delle misure sul catasto venne però introdotta nuovamente nell’articolo 2 nel disegno di legge delega per la riforma del fisco (legge 11 marzo 2014, n.23) approvato dal Governo Renzi (la parte della legge relativa alla riforma del catasto venne poi approvata solo per aspetti minori), prevedendo sempre l’invarianza del carico impositivo. Le parti relative all’introduzione nel catasto di valori di mercato nella valutazione degli immobili non vennero però attuate.[15]

La recente legge delega approvata dal Consiglio dei Ministri il 5 ottobre scorso, per quanto riguarda il catasto, ha come obiettivo principale l’appropriato classamento degli immobili e l’attribuzione per ogni immobile, entro il primo gennaio 2026, di un valore patrimoniale e una rendita attualizzata sulla base dei valori di mercato.

Per facilitare l’approvazione della legge, invece di prevedere, come in passato, l’invarianza di gettito, la riforma prevede che le informazioni che verranno aggiunte al catasto su valore patrimoniale e rendita attualizzata “non siano utilizzate per la determinazione della base imponibile dei tributi la cui applicazione si fonda sulle risultanze catastali.”

Chi oppone la riforma ha ovviamente sollevato la domanda: “ma se queste informazioni non verranno utilizzate per fini di tassazione, perché svolgere il pesante lavoro tecnico che deriverebbe dalla riforma?” È abbastanza ovvio che la pubblicazione di tali informazioni evidenzi le distorsioni attualmente esistenti e crei il clima politico per poter poi, a un certo punto, utilizzare le nuove informazioni a fini impositivi.

Al momento della chiusura di questa nota, la legge delega sulla riforma fiscale, che comprende all’articolo 6 la riforma del catasto, è ancora in corso di approvazione in Parlamento. Quanto la riforma del catasto sia controversa è dimostrato dal fatto che il 3 marzo la commissione finanze della Camera ha passato il testo invariato dell’articolo 6 con un solo voto di maggioranza. Vedremo nei prossimi mesi cosa accadrà. Vale la pena di ricordare che, in ogni caso, l’inserimento delle nuove informazioni ha come scadenza il primo gennaio 2026. Da qui ad allora, se anche la riforma venisse approvata dal Parlamento, ci sono di mezzo una tornata di elezioni generali e, potenzialmente, quattro decreti milleproroghe.


[1] Vedi: “Statistiche Catastali 2020”, 2020, Agenzia delle Entrate, pagina 2.

[2] Vedi articolo: “Alla lotteria del Catasto gli immobili quotati un terzo del loro valore reale”, Il Sole 24 ore, 8 marzo 2022, pagina 12.

[3] Vedi: “IMU – più equità e progressività”, Legautonomie Toscana, 2013, pagina 14 e 15.

[4] Un esempio concreto, anche se relativo a un caso di abusivismo edilizio, è il seguente: la categoria catastale A/5 comprende immobili con servizi igienici esterni all’abitazione, solitamente costruiti decenni fa anche nei centri storici. È però probabile che, attraverso modifiche non registrate, tali immobili siano stati dotati di servizi igienici. Questi però in data odierna continuerebbero a godere di una rendita bassa.

[5] Vedi: Raccomandazione del Consiglio, 9 Luglio 2019.

[7] Le categorie catastali, classificate dalla lettera A alla F, vengono utilizzate per classificare gli immobili e determinare la rendita catastale. Le categorie si classificano a loro volta in classi catastali che riassumono la redditività dell’immobile.

[8] Vedi: Articolo 3, comma 48, della Legge del 23 dicembre 1996, n.662.

[9] Vedi: D.P.R. 138/98. Tra i principali provvedimenti, vennero elencate le norme tecniche per la definizione delle microzone e della superficie catastale delle unità immobiliari a destinazione ordinaria.

[10] In particolare i comuni avevano la possibilità di richiedere la revisione del classamento, se i valori delle unità immobiliari si discostano significativamente dal valore medio determinato ai fini dell’ICI.

[11] Vedi: Dossier Delega al Governo per la riforma fiscale, 26 ottobre 2021, pagina 33.

[12] Vedi: Disegno di Legge n. 5291, CAPO II, 2012, pagina 28.

[13] Si prevedeva anche la riorganizzazione delle competenze relative alle commissioni provinciali e centrali censuarie (ovvero, gli organi tecnici che hanno il compito di affiancare l’amministrazione competente nell’attività di formazione, revisione e conservazione del catasto fabbricati). Questa fu una delle misure approvate nel 2014.

Un articolo di

Francesco Bortolamai

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