Come noto, la caduta dei tassi di natalità e l’aumento dell’aspettativa di vita stanno determinando il progressivo invecchiamento della popolazione e il suo declino in termini assoluti. Secondo le stime del Working Group on Ageing istituito presso la Commissione Europea, in assenza di nuove immigrazioni (al netto delle emigrazioni) e pur assumendo un considerevole aumento dei tassi di fertilità, l’Italia perderà oltre 10 milioni di abitanti ogni quarto di secolo; la popolazione scenderà quindi sotto i 50 milioni nel 2050 e sotto i 30 milioni nel 2100. Se si volesse mantenere costante la popolazione al livello attuale, bisognerebbe quindi attrarre un numero di immigrati netti pari ad almeno 10 milioni entro il 2050 e oltre 30 milioni entro il 2100, quando i nuovi immigrati supererebbero la popolazione “autoctona”. Un obiettivo forse più realistico è quello di calibrare i flussi in modo da evitare che continui a diminuire il rapporto fra la popolazione in età di lavoro e il totale della popolazione, il che dovrebbe consentire di salvaguardare la sostenibilità del sistema di welfare. In questo caso sarebbe richiesto un maggior numero di immigrati nei prossimi anni (fino a 13,5 milioni nel 2050) e una stabilizzazione negli anni successivi. In tal caso il rapporto fra nuovi immigrati e popolazione totale continuerebbe a salire, fino al 35% nel 2100, ma rimarrebbe distante dalla soglia del 50%. In termini di flussi annuali, e assumendo che ogni anno emigrino 150mila individui, sarebbe necessario fornire 380mila permessi ogni anno entro il 2035 e 450mila entro il 2050.
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Dopo aver raggiunto il picco nel 2014, con 60,8 milioni di residenti, la popolazione italiana ha iniziato a contrarsi e nel 2024 contava poco meno di 59 milioni. Dal 2000 al 2024 l’indice di vecchiaia, cioè il rapporto tra residenti con almeno 65 anni e quelli con meno di 15, è passato da 1,2 a 2: cioè sono oggi presenti due over 65 per ogni under 15. Tale squilibrio tra vecchie e nuove generazioni è dovuto alla combinazione dell’aumento della longevità e da un forte calo della natalità, diminuita da oltre un milione di nascite nel 1964 a 370 mila nel 2024. L’età media, nel frattempo, si è portata a 46,4 anni e ciò colloca l’Italia, subito dopo il Giappone, tra i Paesi in cui è più intensa la transizione demografica, insieme a Portogallo, Grecia, Spagna e Germania.
Secondo le proiezioni 2023 del Working Group on Ageing (WGA), istituito presso la Commissione Europea, in assenza di nuove immigrazioni nette (ossia al netto delle emigrazioni) la popolazione italiana dovrebbe ridursi ulteriormente fino a 55,3 milioni entro il 2035, a 49,4 milioni entro il 2050, fino a più che dimezzarsi entro il 2100, arrivando a 28,2, ossia il valore raggiunto all’indomani dell’unità d’Italia. Ciò avverrebbe malgrado un rilevante aumento del tasso di fertilità, da 1,24 figli per donna del 2023 a 1,37 nel 2025 e a 1,56 nel 2100.[1]
Le proiezioni del WGA 2023 non contengono dettagli per le singole regioni, tuttavia l’analogo scenario mediano elaborato dall’Istat, che al netto delle migrazioni segue un andamento simile a quello del WGA, indica che lo spopolamento investe tutto il territorio ma con differenze fra Nord, Centro e Mezzogiorno, dove l’intensità del fenomeno sarà maggiore.
Lo scenario WGA prevede che la classe di individui di 20-67 anni, ossia quella delle persone in età di lavoro, si riduca in termini relativi rispetto alla popolazione: dal 62% del 2023, al 58% nel 2035, fino al 52% nel 2050. Risalirebbe poi leggermente, fino al 59%, nella seconda metà del secolo. La conseguenza è un ispessimento relativo della fascia più anziana, a cui concorrerà soprattutto il transito delle folte generazioni degli anni del baby boom (nati negli anni ‘60 e prima metà dei ‘70) alle età senili. Anche negli scenari più favorevoli contemplati dagli istituti statistici, è dunque atteso che la popolazione italiana si riduca e diventi sensibilmente più anziana. Ciò pone almeno due problemi:
- quello dello spopolamento di per sé;
- la sostenibilità della spesa pubblica per il welfare.
Nel prosieguo ricapitoliamo i numeri di ingressi regolari necessari a far fronte a questi due problemi.
Cosa serve per compensare il calo demografico
Per valutare il fabbisogno di immigrati (fermo restando l’effetto positivo di un aumento della fertilità tutt’altro che scontato) consideriamo ancora lo scenario senza migrazioni (o con migrazioni positive ma equivalenti in entrata e in uscita). La Fig. 1 mostra il livello della popolazione autoctona fino al 2100. Usiamo il termine popolazione “autoctona” per indicare il totale della popolazione legalmente residente, inclusiva delle persone che sono immigrate in passato e fino ad oggi. La curva blu si riferisce alle ipotesi baseline circa i tassi di fertilità futuri: crescenti dall’1,24 odierno all’1,56 nel 2100. La curva ocra riporta l’andamento atteso partendo da ipotesi meno favorevoli sulla fertilità.[2] Come si vede, la differenza fra i due scenari è molto modesta nei primi anni della simulazione, cresce fino a circa 1,8 milioni di individui nel 2050 e a 3,8 milioni nel 2100.
Nel primo caso, rispetto al 2023, la popolazione italiana dovrebbe perdere 3,7 milioni di individui entro il 2035, 9,6 milioni entro il 2050 e 30,8 entro il 2010. In linea di principio, possiamo compensare queste perdite con un numero netto di immigrati di uguale entità, il che comporterebbe che verso la fine del secolo i nuovi immigrati (e i loro figli e nipoti) superino la popolazione autoctona, rappresentando quindi oltre il 50% della popolazione totale.
In termini di flussi annuali, per compensare la perdita di 3,7 milioni di individui entro il 2035, servirebbero circa 290mila immigrati netti l’anno; per compensare il declino previsto fino al 2050 tale flusso dovrebbe crescere fino a 344mila unità. Nello scenario con bassa fertilità, invece, gli immigrati netti annui necessari a conservare i 59 milioni di abitanti presenti nel 2023 salirebbero a 356mila fino al 2035 e a 407mila fino al 2050. Si noti che questa stima tiene conto solo implicitamente della dinamica demografica propria delle coorti aggiuntive di immigrati, che potranno contribuire alla natalità del Paese. In generale, quanto più alta sarà la natalità della nuova popolazione di immigrati tanto meno sarà necessario attrarre nuovi immigrati nei periodi successivi per contrastare il declino demografico.
Per passare dal numero netto di immigrati necessari a quello lordo, cioè che tenga conto anche degli individui che emigrano dal Paese, consideriamo le previsioni demografiche dell’Istat, le quali stimano una media di 140mila emigrati annui fino al 2035. In termini lordi, quindi, i flussi annui di immigrati necessari a mantenere la popolazione al livello del 2023 dovrebbero essere di 440mila fino al 2035 (496mila sotto l’ipotesi di minore fertilità) e di 494mila fino al 2050 (547mila).
Si tratta di numeri ben più grandi di quelli contemplati dai decreti flussi 2023-2025 basati sulla Legge Bossi-Fini del 2002, i quali prevedono circa 150 mila permessi l’anno. Ovviamente, considerando le tensioni sociali collegate ai fenomeni migratori, ogni nuovo intervento che disciplini i flussi migratori non dovrebbe prescindere da riforme profonde (che esulano dal presente scritto) per consentire la migliore integrazione possibile degli immigrati nel tessuto economico e sociale del Paese.
Cosa serve per conservare la sostenibilità del welfare
Al fine di rendere sostenibile le misure pubbliche di welfare, più che concentrarsi sul totale della popolazione, appare necessario conservare una proporzione bilanciata di individui in età lavorativa rispetto alla popolazione totale, poiché i primi generano la ricchezza che finanzia il sistema. Nel 2023 la classe di età 20-67 anni costituiva il 62% della popolazione. Secondo lo scenario baseline del WGA, questa dovrebbe diminuire fino al 49% nel 2100. La curva azzurra nella Fig. 2 mostra il numero di immigrati necessari a conservare nel tempo il peso relativo della classe 20-67 al valore del 2023. A causa del rapido invecchiamento demografico, questa classe è destinata a contrarsi più rapidamente del volume complessivo della popolazione, e per questo motivo il numero di immigrati necessari a conservarne il peso percentuale sarebbe inizialmente più alto di quello necessario a conservare invariato il totale della popolazione. Le stime indicano quindi un fabbisogno di 4,5 milioni di immigrati netti entro il 2035 e di 13,5 milioni entro il 2050. In termini di fabbisogno annuo, i flussi netti richiesti sarebbero di 350mila immigrati fino al 2035 e di 480mila entro il 2050. Si noti che, a causa dell’attuale sbilanciamento verso le classi di età più anziane, destinato ad accentuarsi nel prossimo futuro, per conservare gli individui in età lavorativa la popolazione dovrebbe crescere fino a 63,6 milioni di individui nel 2045 (curva ocra) per poi iniziare a contrarsi fino a 38 milioni nel 2100. Oltre il 2045, il declino della classe autoctona 20-67 dovrebbe proseguire di pari passo con il volume dell’intera popolazione, di conseguenza il fabbisogno di immigrati dovrebbe stabilizzarsi poco sopra i 10 milioni fino al 2100, il che consente di limitare il rapporto fra nuovi immigrati netti e popolazione totale entro il 35%, ben lontano dalla soglia del 50%.
La Fig. 3 mostra l’andamento demografico atteso e l’immigrazione netta necessaria sotto le ipotesi di minore fertilità. Le differenze sono molto contenute. Vale però la pena di notare che per alcuni decenni i nuovi immigrati in rapporto alla popolazione sono minori che nello scenario base perché i nuovi nati (che devono essere mantenuti dalla classe dei lavoratori) sono un numero inferiore, mentre la dimensione della classe 20-67 rimane pressoché invariata. Solo verso la fine del secolo, la minore natalità obbligherebbe ad aumentare, fino al 40% circa, il numero di immigrati rispetto alla popolazione autoctona. Simmetricamente, un aumento della fertilità avrebbe effetti modesti per molti decenni e solo verso la fine del secolo consentirebbe di ridurre il numero degli immigrati.
Oltre all’equilibrio demografico tra la classe dei lavoratori e le classi dove si concentrano i percettori delle misure di welfare, un ulteriore elemento in grado di favorire la sostenibilità del sistema sono i guadagni di produttività. In principio, tanto più efficienti saranno i processi produttivi di domani e tanto più sarà possibile limitare gli effetti negativi di una contrazione della base di lavoratori per la sostenibilità del welfare. E la produttività dipende anzitutto dalle tecnologie adottate e dal capitale umano disponibile. Per questa ragione la transizione demografica verso cui corre l’Italia impone sia di ripensare la gestione dei flussi migratori che di investire nella ricerca, nel trasferimento tecnologico e nella formazione.
La gestione del fenomeno fino ad ora
La disciplina dell’immigrazione e le norme sulla condizione dello straniero sono contenute nel “Testo unico sull’immigrazione” (D. Lgs. 286/1998). Esso dispone che la politica migratoria sia normata attraverso il documento programmatico triennale e il decreto annuale sui flussi.
Il documento programmatico, elaborato dal Governo ogni tre anni e sottoposto al parere delle Commissioni parlamentari competenti, analizza il fenomeno migratorio nel suo complesso, individua i criteri per la definizione dei flussi d’ingresso (ad esempio valutando la domanda di lavoro proveniente dalle imprese) e stabilisce le misure per l’integrazione degli stranieri regolari. Tuttavia, l’ultimo documento adottato risale al triennio 2004-2006 (emanato con il D.P.R. 13 maggio 2005). Il decreto sui flussi è invece lo strumento attuativo del documento programmatico, con cui il Governo stabilisce annualmente le quote massime di stranieri da ammettere in Italia per ragioni di lavoro. Il decreto è adottato entro il 30 novembre di ciascun anno. Qualora non sia possibile emanare il decreto (per esempio a causa dell’assenza del documento programmatico triennale), il Presidente del Consiglio può intervenire in via transitoria con proprio decreto (cd. decreto sui flussi transitorio) a patto che non si superino le quote stabilite nell’ultimo decreto (ordinario o transitorio).
Come mostrato nella Figura 4, le quote dei decreti flussi sono diminuite costantemente dal 2010, quando ammontavano a circa 180mila unità, fino a raggiungere un minimo di circa 30mila unità nel 2020. Per questo motivo, il D.L. 130/2020 ha abrogato la disposizione che limitava il superamento delle quote fissate dal decreto precedente. A seguito di questa modifica, le quote sono tornate a crescere a partire dal 2021. L’ultimo decreto flussi (D.L. 20/2023) rappresenta una svolta in positivo: in deroga alla disciplina ordinaria, ha stabilito per la prima volta quote per il triennio 2023-2025 per un totale di: i) 136.000 unità (cumulando lavoratori stagionali e non) per l'anno 2023; ii) 151.000 unità per l'anno 2024; iii) 165.000 unità per l'anno 2025. Si tratta di incrementi notevoli, anche se ancora lontani dal fabbisogno nazionale annuo stimato sopra: 450mila ingressi lordi fino al 2035.[3]
Uno dei probabili motivi per la mancata emanazione di decreti flussi ordinari è stata la difficoltà nel controllo dell’immigrazione irregolare e le tensioni sociali che nascono da questo fenomeno. Negli ultimi anni, la migrazione irregolare ha assunto un peso crescente: secondo i dati del Ministero dell’Interno, negli ultimi 10 anni, sono stati registrati più di un milione di ingressi irregolari (Fig. 5). Di conseguenza, pur a fronte di una significativa riduzione delle quote previste dai decreti flussi, la popolazione straniera residente in Italia è comunque cresciuta dal 2000 a oggi. Il tasso di crescita medio annuo, tuttavia, si è drasticamente ridotto: dal 9,9% registrato tra il 2000 e il 2014 si è passati allo 0,8% nell’ultimo decennio (Fig. 6).
In conclusione, a fronte di un necessario contenimento dell’immigrazione irregolare, occorre aumentare notevolmente i numeri degli ingressi regolari.
[1] Si noti che l’aumento prospettato del tasso di fertilità, seppur contenuto rispetto al valore necessario (2,1) per garantire il mantenimento dei livelli della popolazione, implicherebbe un’inversione della tendenza negativa registrata sin dal 2010, quando il numero medio di figli per donna era 1,44. Sul fronte del sostegno alla natalità in Italia, si veda la nostra precedente nota “La spesa pubblica per la natalità resta bassa”, 29 maggio 2025.
[2] Lo scenario WGA-bassa fertilità prevede che il tasso di fertilità rimanga attorno a 1,24 nel 2100.
[3] Per i dettagli sulla composizione dei flussi di immigrazione e la loro rilevanza per la nostra forza lavoro si veda la nostra precedente nota: “L’immigrazione regolare in Italia”, 1° aprile 2022.