Università Cattolica del Sacro Cuore

Ancora non sappiamo a che prezzi comprano effettivamente le Pubbliche Amministrazioni

di Giulio Gottardo e Stefano Olivari

5 marzo 2021

Nel 2020, a causa della crisi Covid, non sono ancora stati pubblicati i documenti di monitoraggio sul processo di razionalizzazione degli acquisti della Pubblica Amministrazione (PA). Inoltre, anche se questi documenti fossero pubblicati, la trasparenza sugli acquisti intermedi delle PA rimarrebbe insufficiente. Infatti, proprio gli acquisti che avvengono al di fuori del raggio d’azione delle centrali di acquisto (come Consip) non sono registrati adeguatamente, in quanto è impossibile conoscere i prezzi unitari di acquisto. Questa mancanza di trasparenza rende difficile determinare quali sono le categorie merceologiche e gli enti interessati da maggiori sprechi.

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Negli ultimi vent’anni gli acquisti delle Pubbliche Amministrazioni italiane, sia centrali che locali, sono stati oggetto di un programma di razionalizzazione tramite accentramento. Con la riforma del 2014 si sono potenziati gli enti incaricati di intermediare gli acquisti delle pubblica amministrazione (PA), tra cui Consip e una trentina di altri “Soggetti Aggregatori” per lo più operanti a livello regionale. La ratio della riforma è livellare – possibilmente a ribasso – il costo degli acquisti di beni e servizi delle PA tramite acquisti centralizzati.

Fino al 2019, il Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF) ha redatto annualmente una Relazione al Parlamento e una Rilevazione in collaborazione con l’ISTAT, per monitorare l’andamento di questo programma di razionalizzazione degli acquisti. Da quasi due anni però non sono disponibili aggiornamenti, a causa dei ritardi dovuti alla crisi Covid.

In ogni caso, questi documenti, seppur informativi, non erano esaustivi, dato che la Relazione riguardava quasi esclusivamente l’operato di Consip,[1] mentre la Rilevazione era un’indagine a campione che confrontava i prezzi solo di alcune merceologie in base alla modalità di acquisto. Questo non consentiva di verificare se i prezzi fossero davvero omogenei sul territorio nazionale.

Occorre ricordare in proposito che la riforma del 2014 prevedeva anche la creazione di una banca dati di degli acquisti della PA e l’elaborazione dei cosiddetti “prezzi di riferimento”, ovvero di prezzi unitari indicativi per le forniture “a maggiore  impatto  in  termini  di  costo” non intermediate dai Soggetti Aggregatori.[2] Questi prezzi di riferimento dovevano essere calcolati sulla base della distribuzione dei prezzi d’acquisto effettivi, basandosi naturalmente su quelli relativamente più bassi. L’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC), di conseguenza, ha istituito la Banca Dati Nazionale dei Contratti Pubblici e ha elaborato alcuni prezzi di riferimento. Questi però coprono solo 5 prodotti in ambito sanitario e le risme di carta.[3] Uno dei motivi per cui è difficile coprire un numero maggiore di prodotti è che la banca dati registra sì gli acquisti effettuati dalle varie PA, ma non contiene informazioni circa le quantità acquistate, rendendo quindi impossibile ricavare delle indicazioni di massima sui prezzi unitari. Certamente il calcolo sarebbe complesso in ogni caso, perché occorre tener conto di una moltitudine di fattori che differenziano un “prodotto” da un altro (per esempio i servizi accessori e il contesto della contrattazione). Detto questo, arricchire la banca dati dei contratti pubblici con informazioni di massima sui prezzi unitari e, in base a questi, allargare le categorie per cui sono elaborati i prezzi di riferimento potrebbe costituire sia una fonte di recupero diretto di alcuni sprechi, sia un disincentivo delle pratiche dannose da parte delle PA in questo ambito. In possesso di questi dati, infatti, sarebbe possibile individuare più rapidamente gli ambiti di spesa e le forniture più “sospette” agendo di conseguenza, ad esempio con dei controlli, oppure ampliando il raggio d’azione delle centrali d’acquisto.


[2] D.l. n. 66, 2014.

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