Il Green Deal europeo
di Beatrice Bonini e Giampaolo Galli
28 febbraio 2020
Gli obiettivi che la Commissione Europea si è posta con il Green Deal sono molto ambiziosi. In questa nota cerchiamo di capire da dove vengono gli oltre 1.000 miliardi che sono previsti come parte del piano e quali effetti potrebbero avere sulla crescita economica. Molto dipende dalla “tassonomia”, cioè dall’elenco delle attività e dei settori che verranno considerati verdi, ossia compatibili con gli obiettivi ambientale. Molto dipende anche dall’esito del difficile negoziato in corso sul bilancio europeo dei prossimi sette anni.
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La nuova Commissione Europea guidata da Ursula Von Der Leyen ha messo al centro della propria azione la questione del cambiamento climatico, visto come una necessità imprescindibile alla luce delle analisi scientifiche, ma anche come uno strumento per il rilancio dell’economia europea. L’obiettivo, estremamente ambizioso, è quello di azzerare le emissioni nette di gas serra entro il 2050 e a questo fine la Commissione ha annunciato che renderà più stringenti gli obiettivi di riduzione delle emissioni per il prossimo decennio. Uno strumento essenziale per raggiungere gli obiettivi è il “Sustainable Europe Investment Plan” che prevede di mobilitare, tramite il budget dell’UE e altri strumenti associati ad esso, almeno 1.000 miliardi di euro in investimenti sostenibili, sia pubblici che privati, nell’arco dei prossimi 10 anni.[1] Secondo la Commissione, questo piano è solo una parte, circa un terzo, di ciò che sarebbe necessario per conseguire l’obiettivo delle neutralità climatica. Per ora non è stata formulata alcuna ipotesi su come possano essere mobilitati i restanti due terzi. In questa nota ci soffermiamo perciò sugli oltre 1.000 miliardi di cui trattano i documenti della Commissione e cerchiamo di capire in cosa consista effettivamente il “Green New Deal”, da dove vengano risorse tanto ingenti – si noti che l’intero bilancio europeo per il prossimo settennio è nell’ordine di poco più di mille miliardi – e quali effetti potranno avere sulla crescita economica.
Il piano di investimenti: cosa c’è di nuovo
In base al documento pubblicato dalla Commissione il 14 gennaio scorso, il finanziamento previsto per la transizione “verde” sarà costituito dal 25 per cento del budget UE, dal 30 per cento delle garanzie del programma InvestEU (cioè la nuova versione del piano dell’ex presidente della Commissione, Junker) e da risorse messe a disposizione dalla Banca Europea per gli Investimenti (BEI), che dovrebbe diventare una sorta di “Banca Europea del clima”. In aggiunta a queste tre principali fonti, vi saranno il cofinanziamento nazionale dei singoli stati membri attraverso i Fondi strutturali e d’investimento europei (ESIF), investimenti pubblici e privati, e i fondi dell’Emission Trading System – il sistema di concessioni di emissioni di gas serra dell’UE, parte integrante delle politiche europee di carbon pricing.[2]
Tutte queste non sono risorse stanziate ex novo, ma sono essenzialmente delle riconversioni di fondi preesistenti a cui viene data una finalizzazione “verde”. La Tavola 1 mostra una sintesi delle varie componenti del finanziamento.
Tav. 1: European Green Deal Investment Plan
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(previsioni per il periodo 2021-2030)
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Componenti
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Valore del fondo (in miliardi di euro)1
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Percentuale di riconversione verso tematiche climatiche e ambientali
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Ammontare del finanziamento (in miliardi di euro)
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Budget EU1
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2.012
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25%
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503
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Co-finanziamento nazionale da European Structural Investment Fund (ESIF)2
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114
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100%
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114
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Programma InvestEU3
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929
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30%
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279
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Just Transition Mechanism4
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143
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100%
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143
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Emission Trading Systems5
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25
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100%
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25
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TOTALE
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1.064
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1 ll Bilancio UE riguarda i sette anni dal 2021 al 2027: la Commissione ha qui fatto una estrapolazione ai 10 anni fino al 2030.
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2 Fanno parte dei Fondi Strutturali e di Investimento Europeo i seguenti fondi: il Fondo Europeo di Sviluppo Regionale (FESR), il Fondo Sociale Europeo (FSE), il Fondo di Coesione (FC), il Fondo Europeo Agricolo per lo Sviluppo Rurale (FEASR) e il Fondo Europeo per gli Affari Marittimi e la Pesca (FEAMP).
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3 Si tratta della continuazione di ciò che sino ad ora è stato chiamato “piano Juncker”.
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4 Si veda il testo.
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5 L'Unione Europea vende all'asta le concessioni per l’emissione di certi quantitativi di anidride carbonica, il cui ricavato costituisce un’entrata per l'UE.
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I grandi investimenti proposti non sono dunque aggiuntivi rispetto ai precedenti piani, ma sono altre tipologie di investimento ottenute grazie al riorientamento di fondi già esistenti e inizialmente pensati per altri obiettivi. Nella Tavola 2, con riferimento al budget UE, vengono elencati i principali programmi e le quote riorientate alla finalità “verde”. Come si vede, verrebbero reindirizzati agli obiettivi del Green Deal il 30 per cento dei Fondi di Coesione e del Fondo di Sviluppo Regionale, il 40 per cento della PAC (Politica Agricola Comune), il 60 per cento dei fondi per le infrastrutture (il cosiddetto Connecting Europe), ecc. Si noti che questa allocazione di fondi non è esaustiva e non consente di ricostruire il quadro completo per arrivare ai 503 miliardi del budget UE parte dello European Green Deal Investment Plan.
Tav. 2: Percentuale di riconversione dei principali programmi associati al budget UE
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Componente
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Percentuale di riconversione verso tematiche climatiche e ambientali
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Fondi di Coesione
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30%
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Fondo Europeo di Sviluppo Regionale
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30%
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Politica Agricola Comune1
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40%
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Horizon Europe2
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35%
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LIFE Programme
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60%
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Connecting Europe
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60%
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1 Tutti i trasferimenti di denaro saranno condizionali a requisiti ambientali e climatici più stringenti.
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2 Oltre a questo, si dovrebbe aggiungere all'attuale budget di 1,35 miliardi di Horizon 2020 la richiesta di un ulteriore miliardo finalizzato a obiettivi climatici.
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Manca ancora una definizione delle politiche che concretamente verranno finanziate, o, al contrario, de-finanziate e disincentivate. Questo punto è ovviamente cruciale e al momento è pressoché impossibile dire se il riorientamento del bilancio sarà coerente con gli obiettivi dichiarati; si possono solo fare delle ipotesi circa gli effetti sulla crescita economica. Va anche detto che solo quando saranno chiare le politiche si potrà capire quali gruppi sociali ne trarranno vantaggio e quali, al contrario, verranno sfavoriti: data l’estrema ambizione del piano, si può solo immaginare che gli interessi penalizzati saranno tanti e si organizzeranno per far sentire la loro voce.
Attualmente, la Commissione sta discutendo della “tassonomia”, ossia un elenco di attività o settori che potranno essere considerati in linea con gli obiettivi ambientali. Si tratterebbe di un primo passo importante per arrivare poi a definire le politiche. Sarà infatti la tassonomia che verrà definita a stabilire quali politiche di investimento potranno essere definite “green” e quindi rientrare nel perimetro del Green Deal. Attualmente, il primo accordo di massima raggiunto da Parlamento, Commissione e Consiglio europeo chiarisce che il “bollino green” sarà garantito alle attività che presenteranno alcune caratteristiche come l’uso sostenibile e la protezione dell’acqua e delle risorse del mare, la prevenzione e il controllo dell’inquinamento, la mitigazione del cambiamento climatico ecc. Insomma, il dibattito è appena iniziato e ancora le prime disposizioni sono estremamente generiche: solo quando si capirà quali settori e quali attività rientreranno nell’ambito del Green Deal si capirà chi verrà impattato maggiormente dal nuovo piano. Quello che è certo, è che la discussione sulla tassonomia verde è destinata a giocare un ruolo fondamentale, e che le conclusioni che verranno tratte avranno conseguenze molto pesanti.
I possibili effetti economici e sociali del Green Deal
Quanto agli effetti sulla crescita, di solito si afferma che per avere effetti positivi occorre che gli investimenti siano aggiuntivi. Ad esempio, in tutta la letteratura sullo sviluppo regionale si afferma che gli investimenti per lo sviluppo devono essere aggiuntivi rispetto agli investimenti ordinari. Se invece sono sostitutivi, si dice di solito che l’effetto sulla crescita è nullo. Usando lo stesso criterio di giudizio, si sarebbe indotti a concludere che l’effetto degli investimenti verdi sia pressoché pari a zero. Guardando però le cose più da vicino non è detto che ciò sia sempre vero, dal momento che i nuovi investimenti potrebbero essere più produttivi di quelli che si sono fatti fino ad ora.
Secondo una lettura ottimista, il Green Deal potrebbe agire da stimolo alla crescita, un po' come accadde con il grande ciclo dei beni di consumo durevoli che spinse lo sviluppo dell’Italia e di tanti altri paesi nei primi decenni del dopoguerra: nuovi prodotti – come lavatrici, televisioni e automobili – hanno attivato una domanda di massa e dunque lo sviluppo di nuove imprese e di nuovi settori produttivi. Non c’è dubbio peraltro che già oggi stiamo assistendo ad un grande sviluppo dei settori verdi – energie rinnovabili e prodotti a maggiore efficienza energetica, soprattutto per l’edilizia – cui corrisponde una domanda crescente di prodotti finanziari verdi da parte degli investitori istituzionali e dei risparmiatori. Fa parte di questa lettura ottimistica l’idea che il Green Deal sia strettamente legato all’altro asse strategico di sviluppo individuato dalla Commissione, ossia la digitalizzazione. In questa visione, il nesso con la digitalizzazione è cruciale dal momento che dalle nuove tecnologie è lecito attendersi notevoli aumenti della produttività delle nostre economie. Per fare un esempio, si potrebbe immaginare che i fondi della PAC vengano utilizzati per l’attivazione di tecnologie digitali in agricoltura, che in concreto potrebbe significare l’acquisto di sensori (Internet of Things) che siano in grado di ottimizzare l’utilizzo di acqua, di fertilizzanti, di anticrittogamici ecc. Ad esempio, consideriamo l’utilizzo dei pesticidi nell’agricoltura. Come è noto, attualmente, gli antiparassitari vengono distribuiti sui campi in maniera estensiva, addirittura in certi casi con elicotteri, senza una valutazione puntuale delle quantità realmente necessarie. In tante zone d’Italia si è riscontrato per questo un calo del numero delle api, insetti fondamentali per l’equilibrio dell’ecosistema, con conseguenze negative sulla produttività dell’agricoltura stessa. È qui che potrebbe entrare in gioco il binomio tra trasformazione digitale e transizione ecologica: una proposta, ad esempio, potrebbe essere quella di utilizzare dei droni in grado di individuare le zone dei campi che realmente necessitano di essere trattate con pesticidi, in modo da ottimizzarne l’utilizzo evitando, allo stesso tempo, effetti collaterali negativi sull’equilibrio della natura.
Secondo una lettura meno ottimista, il reindirizzamento in senso “verde” delle risorse rappresenta un vincolo aggiuntivo, che rende più difficile conseguire gli obiettivi che ci si è prefissati con i diversi programmi UE. Ad esempio, si può supporre che oggi i fondi regionali siano utilizzati per finanziare i progetti che si ritiene possano avere il massimo impatto in termini di riduzione dei divari di sviluppo. Naturalmente questo avviene già oggi fra mille difficoltà sia di ordine tecnico (è molto difficile valutare quali siano gli investimenti più efficienti) sia di ordine politico e burocratico. L’argomento dei pessimisti è che, alle tante difficoltà oggi esistenti, se ne aggiungerebbe un'altra, legata all’esigenza di stabilire se un dato investimento può essere classificato come “verde” in base alla nuova tassonomia green. Più in generale, l’intuizione economica è che mettendo un vincolo aggiuntivo alla massimizzazione della crescita economica (quale risulta dalla combinazione delle forze del mercato e dalle politiche), il risultato sia subottimale. Il che non significa ovviamente che tale vincolo non sia necessario per mitigare gli effetti del riscaldamento globale. Significa però che, nel nome dell’obiettivo climatico, si sacrifica, in qualche misura, quello della crescita.
Quanto agli effetti sociali del Green Deal, si possono solo fare degli esempi di possibili azioni che potrebbero essere intraprese. Verosimilmente, si chiederà ai paesi di rinunciare abbastanza rapidamente alle politiche che sono classificate come dannose per l’ambiente, tra cui vi sono gli sconti sui carburanti a favore di autotrasportatori, agricoltori e pescatori. In Italia, sappiamo come questi cambiamenti siano tanto necessari quanto impopolari con le categorie interessate. I fondi europei potrebbero essere utilizzati per compensare queste categorie, nel qual caso si faciliterebbe la transizione. Ma in un mondo di risorse scarse si potrebbe anche immaginare che, ad esempio, i sussidi della PAC oggi destinati agli agricoltori vengano condizionati all’abbandono degli incentivi per l’acquisto dei carburanti da parte dei singoli paesi. In questo secondo caso, è facile immaginare le reazioni delle categorie interessate.
Il Just Transition Mechanism
L’unica innovazione nel bilancio UE proposta dalla Commissione è il Just Transition Fund (7,5 miliardi di euro tra il 2021 al 2027), che rientra in quello che la Commissione ha denominato il “Just Transition Mechanism” (JTM). Alla luce delle difficoltà registrate nel raggiungere un accordo tra i vari paesi durante gli ultimi vertici straordinari sul bilancio di lungo termine, non è attualmente scontato che questi fondi verranno effettivamente approvati e stanziati. In ogni caso, ad oggi, secondo la proposta della Commissione, il JTM implicherà complessivamente la mobilitazione di 100 miliardi di euro circa dal 2021 al 2027 (circa 143 miliardi in 10 anni). L’obiettivo del Meccanismo è quello di supportare le regioni dell’Unione che sono destinate a subire le maggiori ripercussioni dalla transizione ambientale. Infatti, sebbene il JTM conferirà fondi a tutte le regioni dell’UE, il piano garantirà un supporto specifico mirato alle regioni che, dipendendo maggiormente da fonti di energia inquinanti, subiranno il maggior impatto a livello socioeconomico. Ad esempio, il Meccanismo contribuirà a sostenere il finanziamento e la gestione della formazione dei lavoratori dei settori ad alta intensità di utilizzo dei combustibili fossili che dovranno riconvertire le loro competenze per ricollocarsi verso settori green. Oltre al supporto finanziario, e quindi ai fondi messi a disposizione, il JTM è pensato per fornire assistenza tecnica e supporto agli stati membri e agli investitori attraverso una “Just Transition Platform”. Inoltre, verrà prestata attenzione al contesto legislativo e della regolamentazione, per assicurare che questi forniscano incentivi coerenti e compatibili con gli obiettivi della trasformazione verde.
Il JTM ha tre principali fonti di finanziamento, anche detti “pilastri”: uno è, come anticipato, il Just Transition Fund (JTF). Sono inoltre previsti uno schema dedicato agli investimenti privati inserito all’interno del perimetro del progetto InvestEU (“secondo pilastro”) ed un servizio di erogazione di prestiti per il settore pubblico da parte della BEI, con il supporto del budget UE (“terzo pilastro”).
Per finanziare queste attività, la Commissione propone di istituire il fondo da 7,5 miliardi di euro che sarebbe aggiuntivo rispetto al prossimo budget UE. Il fondo sarà dunque coperto da una nuova proposta legislativa presentata parallelamente allo European Green Deal Investment Plan (EGDIP). Ogni stato membro dovrà poi integrare i fondi ricevuti attraverso il JTF, utilizzando il Fondo Europeo di Sviluppo Regionale (FESR) o il Fondo Sociale Europeo “plus” (FSE+) con una cifra che va da un minimo di 1,5 ad un massimo di 3 euro per ogni euro ricevuto, e con la possibilità di ulteriori cofinanziamenti attraverso fondi nazionali. In totale, la Commissione prevede di mobilitare fondi per circa 30-50 miliardi tra il 2021 e il 2027. Per il secondo pilastro, ossia un programma dedicato all’interno del perimetro del piano InvestEU, si prevede di mobilitare dai 30 ai 45 miliardi di investimenti privati, coperti da 1,8 miliardi di garanzie provenienti appunto dal programma InvestEU. Infine, il contributo e supporto della BEI nel concedere prestiti al settore pubblico dovrebbe mobilitare dai 25 ai 30 miliardi di euro. Di questi, 1,5 verranno dal budget europeo, mentre la BEI metterà 10 miliardi a carico del proprio bilancio.
Il Just Transition Fund: una distribuzione iniqua?
I criteri per la distribuzione dei fondi del JTF sono stati determinati con l’obiettivo di mitigare l’impatto socioeconomico della transizione nelle regioni e nei settori maggiormente colpiti a causa della massiccia dipendenza dai combustibili fossili. La Commissione ha infatti stabilito le regole per l’allocazione del JTF in base ad indicatori economici e sociali che riflettono il legame tra economia e prodotti inquinanti. A ricevere più fondi saranno dunque i paesi con maggiori emissioni di CO2 da parte del settore industriale e con un alto livello di occupazione nei settori che producono e utilizzano il carbone. Dopo aver applicato questi principali criteri, la quota nazionale dell’allocazione aumenta o diminuisce in funzione della differenza tra il Reddito Nazionale Lordo pro capite del paese membro e quello medio europeo. C’è inoltre un limite massimo per le risorse ricevibili nel complesso per paese, pari a 2 miliardi di euro, ed un limite minimo per l’intensità dell’aiuto, misurato in termini di fondi ricevuti per abitante, fissato a 6 euro a persona.[3] La Tavola 3 riporta le previsioni di allocazione del JTM risultate dall’applicazione dei criteri appena elencati.
Dalla Tavola 3 (nella prima colonna) si nota che la ripartizione dei fondi del JTF tra i vari paesi è molto eterogenea. Coerentemente con i criteri di allocazione, i paesi con alti tassi di emissioni di anidride carbonica, come Polonia e Germania, ricevono quote molto alte del JTF (rispettivamente 2.000 e 877 miliardi), mentre paesi come Italia e Francia, con minori tassi di emissioni e con bassi livelli di occupazione in industrie inquinanti, avranno allocazioni ben modeste (pari a, rispettivamente, 364 e 402 milioni). Simili confronti possono essere fatti analizzando la seconda e terza colonna, che riportano, rispettivamente, il finanziamento del JTF inclusivo dei contributi nazionali dovuti a fronte delle politiche di coesione dell’Unione e delle regole del JTF già spiegate sopra e la stima degli investimenti mobilizzati in toto dal JTM. Nuovamente, si può notare che l’intero programma JTM avrà un peso molto diverso tra paese e paese.
Tav. 3: Allocazione del Just Transition Mechanism
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(valori in milioni di euro)
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Paese Membro
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Allocazione proposta per il JTF (a prezzi del 2018)
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Stima del finanziamento totale secondo il Pilastro 1 (a prezzi del 2018)1
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Stima attesa degli investimenti mobilizzati per il JTM - Pilastro 1, 2, 3 (a prezzi correnti)2
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Austria
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53
|
331
|
867
|
Belgio
|
68
|
311
|
989
|
Bulgaria
|
458
|
1.710
|
6.205
|
Cipro
|
36
|
163
|
518
|
Croazia
|
66
|
235
|
879
|
Danimarca
|
35
|
217
|
569
|
Estonia
|
125
|
569
|
1.811
|
Finlandia
|
165
|
749
|
2.383
|
Francia
|
402
|
1.825
|
5.807
|
Germania
|
877
|
4.614
|
13.387
|
Grecia
|
294
|
1.049
|
3.923
|
Irlanda
|
30
|
187
|
490
|
Italia
|
364
|
1.301
|
4.868
|
Lettonia
|
68
|
242
|
906
|
Lituania
|
97
|
345
|
1.292
|
Lussemburgo
|
4
|
23
|
59
|
Malta
|
8
|
37
|
119
|
Paesi Bassi
|
220
|
1.045
|
3.174
|
Polonia
|
2.000
|
7.692
|
27.344
|
Portogallo
|
79
|
283
|
1.058
|
Repubblica Ceca
|
581
|
2.074
|
7.761
|
Romania
|
757
|
2.704
|
10.116
|
Slovacchia
|
162
|
580
|
2.170
|
Slovenia
|
92
|
327
|
1.223
|
Spagna
|
307
|
1.397
|
4.445
|
Svezia
|
61
|
380
|
995
|
Ungheria
|
92
|
330
|
1.234
|
TOTALE
|
7.501
|
30.720
|
104.592
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1 Include i contributi nazionali richiesti dalla politica di coesione e il trasferimento minimo (da 1.5 a 3 euro) dal Fondo Europeo per lo Sviluppo Regionale (FESR) e/o il Fondo Sociale Europeo Plus (FSE+) per ogni euro proveniente dal JTM.
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2 Riflette il finanziamento minimo totale del JTF e degli investimenti da mobilizzare sotto i Pilastri 1, 2 e 3 in prezzi nominali. La ripartizione per paesi è il risultato di una stima indicativa.
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Nel dibattito che si è sviluppato su questa proposta della Commissione, i paesi come l’Italia, che nel passato sono stati fra i più virtuosi, fanno notare che questo approccio potrebbe generare un problema di azzardo morale perché verrebbero premiati i paesi che hanno fatto meno negli ultimi anni per ridurre le emissioni inquinanti. D’altro canto, si può capire che la Commissione voglia compensare le popolazioni delle regioni che più soffriranno in conseguenza del programma che viene messo in atto da oggi in poi.
Le sfide che ci attendono
Messe da parte le questioni relative all’allocazione delle risorse tra paesi, ciò che sicuramente dominerà il dibattito pubblico nei prossimi mesi riguarderà le politiche concrete e le modalità di utilizzo dei fondi, che dovrebbero essere presentate già a partire da marzo e aprile. Come verranno utilizzati i fondi che sono stati riorientatati verso il Green Deal? Quali progetti verranno finanziati e quali invece definanziati? Inevitabilmente emergeranno gli interessi contrastanti, ed è in quel momento che si capirà se esiste la vera volontà dei governi di perseguire gli obiettivi di un’economia più pulita. Probabilmente investire anche in politiche e strategie di sensibilizzazione potrebbe essere un buon punto di partenza per rafforzare la consapevolezza della società civile sull’urgenza di certe prese di posizione, ma soprattutto, sulle concrete azioni che dovranno essere messe in atto a partire dalla nostra quotidianità. Gran parte della società civile in Europa si è in realtà dimostrata interessata ai temi dell’economia verde e del riscaldamento globale: si pensi al fenomeno di Greta Thunberg e dei “Fridays for Future”, ossia gli scioperi dei giovani millennials per protestare contro l’immobilismo dei governi nell’attuazione di politiche per combattere il surriscaldamento climatico. Tuttavia, alcuni commentatori hanno sollevato dei dubbi in merito al grado di consapevolezza dei giovani circa i reali costi di una effettiva transizione ecologica. Il rischio è quello che ci sia uno scollamento tra gli ideali e la disponibilità concreta a sostenere i costi della transizione ecologica. Quello che è chiaro è che il progetto della Commissione – zero emissioni nette di gas serra entro il 2050 – ci impone di cambiare le nostre abitudini quotidiane e di ripensare radicalmente il nostro modello di produzione e sociale: la domanda è se noi, cittadini europei, siamo davvero pronti a farlo.