Il Carbon pricing durante il Covid-19: un confronto internazionale
di Salvatore Liaci
4 giugno 2021
Durante la crisi pandemica, e per ridurne i costi per la finanza pubblica, alcuni paesi hanno introdotto (o incrementato) tasse sulle emissioni di CO2 o misure equivalenti (carbon taxation). Questo va nella direzione raccomandata da tutte le organizzazioni internazionali per mitigare il riscaldamento globale. I paesi OCSE e G20 restano comunque distanti dalla tassazione necessaria per raggiungere gli obiettivi degli Accordi di Parigi. Inoltre, i paesi responsabili della maggior parte delle emissioni, come Cina e Stati Uniti, restano indietro rispetto all’Europa. Quindi, ulteriori sforzi sono necessari per realizzare la decarbonizzazione nel 2050.
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Per sostenere i costi della crisi Covid per la finanza pubblica, piuttosto che ricorrere esclusivamente al deficit, alcuni paesi tra la seconda metà del 2020 e il 2021 hanno preso misure per aumentare le entrate, anche attraverso forme di “carbon pricing”, che disincentivano l’uso di combustibili inquinanti.[1] Il termine “carbon pricing” include:[2]
- carbon taxes, direttamente legate al contenuto di CO2 nei combustibili fossili;
- Emissions Trading Systems (ETS), nei quali le imprese devono acquistare un “permesso” per ogni tonnellata di CO2 emessa, rimanendo entro una certa soglia per non ricevere sanzioni. Nel sistema europeo i permessi sono acquistati dagli Stati membri tramite asta, con una parte assegnata gratuitamente, o dalle imprese che ne hanno in eccesso.[3]
I Paesi Bassi hanno introdotto una carbon tax, crescente nel tempo, sui settori dell'energia elettrica e dell'industria: da 30 euro/tCO2 nel 2021 a 125 euro nel 2030. Anche il Lussemburgo l’ha introdotta, con 30 euro/tCO2 entro il 2023. L’Irlanda, che già l’aveva adottata, ne ha aumentato il costo sino a 33,50 euro e prevede di raggiungere 100 euro nel 2030. La Danimarca ha inserito nel piano di rilancio una riforma per aumentare la carbon tax e renderla uniforme su tutte le fonti inquinati.
La Germania ha introdotto un ETS nazionale, che affianca quello comunitario con alcune differenze:
- colpisce le emissioni del trasporto e del riscaldamento degli edifici, mentre il sistema europeo copre i settori dell’energia elettrica e dell’industria;
- le imprese inizialmente possono comprare i permessi dallo Stato a un prezzo fissato ex-ante (da 25 euro/tCO2 nel 2021 a 55 euro nel 2025, con l’introduzione delle aste l’anno successivo), mentre nell’ETS comunitario il prezzo è determinato dal mercato;
- non sono previste assegnazioni gratuite.[4]
Il paese più inquinante, la Cina, ha introdotto un ETS nazionale. Inizialmente coprirà il settore dell’energia elettrica, responsabile del 30 per cento delle emissioni, e poi l’industria. Tuttavia, i permessi saranno assegnati gratuitamente e solo in un secondo momento, non specificato, verranno introdotte le aste.
Il quadro attuale nei paesi OCSE e G20
Tali misure vanno nel complesso nella direzione giusta ma, a livello globale, il carbon pricing resta inadeguato.
Ricordiamo che raggiungere gli obiettivi degli Accordi di Parigi nel 2030, ossia contenere il riscaldamento globale a 1,5-2°C, richiederebbe oggi un Effective Carbon Rate (ECR, il prezzo complessivo per ogni tonnellata di CO2) di 60 euro. Entro il 2030 dovrebbe poi essere di 120 euro per realizzare la decarbonizzazione nel 2050.[5]
Il Carbon Pricing Score (CPS) dell’OCSE misura l’ECR di un paese rispetto a tali obiettivi. Il 100 per cento indica che tutte le emissioni sono prezzate al livello benchmark, mentre con lo zero per cento non sono tassate. Al 2018 i paesi OCSE e G20, responsabili per l’80 per cento delle emissioni globali, raggiungevano un CPS del 19 per cento rispetto all’obiettivo dei 60 euro. In più, esistono importanti divergenze tra i paesi. I primi dieci hanno un CPS medio del 58 per cento, con un aumento di 11 punti dal 2012. Al contrario, i peggiori dieci raggiungono in media un CPS del 13 per cento, senza alcun miglioramento (Tav. 1).
I paesi europei, Italia compresa, raggiungono risultati migliori: in particolare, Svizzera, Lussemburgo e Norvegia hanno CPS prossimi al 70 per cento. La tassazione è più elevata sui carburanti stradali, includendo anche l’effetto delle accise. La partecipazione all’ETS comunitario permette poi di colpire, con prezzi più bassi, i combustibili utilizzati per la produzione industriale e dell’energia elettrica (prevalentemente il carbone).[6] Inoltre, quasi tutti hanno adottato la carbon tax sui diversi combustibili, a esclusione dell’Italia, e con i livelli più elevati nel Nord Europa e in Francia. La Corea del Sud, a differenza dei paesi vicini, ha raddoppiato il CPS dal 2012 grazie soprattutto all’ETS nazionale.
I paesi che tassano meno sono anche quelli che contribuiscono maggiormente alle emissioni globali: in particolare, la Cina (che raggiungerà il 38 per cento nel 2030), gli Stati Uniti, l’India e la Russia (Fig. 1). Fattori in comune sono la disponibilità e l’utilizzo del carbone, il combustibile più inquinante, che risulta un elemento di resistenza alla tassazione, come mostrato da Best e Zhang (2019).[7]
Pertanto, è fondamentale che questi paesi adottino misure più severe. La Cina con l’ETS nazionale raggiungerà un CPS del 19 per cento nel 2025 (assumendo un’ottima copertura degli emittenti e prezzi intorno a 10 euro/tCO2), ancora lontano dall’obiettivo. Il rientro degli Stati Uniti negli Accordi di Parigi e la COP26 di novembre rappresentano l’occasione per una migliore cooperazione internazionale. Parry, I. (2021) suggerisce un accordo internazionale per introdurre un prezzo minimo globale per la CO2, lasciando ai singoli paesi la flessibilità negli strumenti da utilizzare per raggiungerlo. Un prezzo uniforme ridurrebbe il rischio che le imprese si trasferiscano in paesi con politiche ambientali meno rigorose (carbon leakage) e che questi rinuncino a introdurre nuove misure mentre beneficiano degli sforzi altrui (free riding).[8]
[1] Si veda il rapporto dell’OCSE: Tax Policy Reforms 2021. Una vasta letteratura sostiene il carbon pricing come principale strumento per contrastare il riscaldamento globale. Sen e Vollebergh (2018) stimano che l’incremento di un euro per tonnellata di CO2 riduce in media le emissioni dello 0,73 per cento nel lungo periodo.
[2] Per un quadro delle misure adottate ad oggi, si veda: State and Trends of Carbon Pricing 2021, World Bank.
[3] Il modello descritto, usato nell’Unione Europea, è detto “cap and trade". Un’alternativa è il metodo “baseline and credit”, dove le imprese che riducono le emissioni oltre un certo obiettivo ricevono dei crediti. Questi possono essere venduti alle imprese che non rispettano i propri obblighi.
[4] Le assegnazioni gratuite riducono i prezzi di mercato dei permessi. Al fine di aumentarli, nell’ETS europeo è stata introdotta nel 2019 la Market Stability Reserve (MSR), per la quale se i permessi in circolazione superano una certa soglia, una parte è ritirata dal mercato.
[5] Si veda il rapporto dell’OCSE: Effective Carbon Rates, 2021.
[6] La Norvegia e l’Islanda partecipano all’ETS comunitario e il sistema della Svizzera vi è collegato.
[7] Il Brasile non dispone di riserve di carbone, ma presenta un carbon pricing minimo in tutti i settori. La Cina, oltre ad avere una rilevante riserva, è anche tra i primi importatori (prevalentemente da Australia e Indonesia).
[8] Si veda: Ian Parry, 2021. "Implementing the United States’ Domestic and International Climate Mitigation Goals: A Supportive Fiscal Policy Approach," IMF Working Papers 2021/057, International Monetary Fund.