Università Cattolica del Sacro Cuore

Il bilancio dell'Unione Europea assorbe così tante risorse?

di Alessandro Caiumi

17 maggio 2019

Quanto è grande il bilancio dell’Unione Europea? Dove finiscono le spese? E quanto costa la burocrazia della Commissione e delle altre istituzioni? Questa nota risponde a questa e ad altre ricorrenti domande, evidenziando che spese e entrate dell’UE sono molto basse rispetto al totale della spesa pubblica europea. Il bilancio UE è minuscolo perché poche spese ed entrate sono decentrate a Bruxelles, il che impedisce all’Unione di svolgere una rilevante azione di politica anticiclica e strutturale. Inoltre, le spese amministrative dell’UE sono relativamente basse rispetto a quelle degli Stati Membri. Esistono anche in questo caso sprechi, ma le cifre citate da alcuni politici sono spesso fuorvianti.

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Il bilancio annuale dell’UE è piccolo, circa l’1 per cento del reddito nazionale lordo (RNL) complessivo dei 28 Stati Membri, con un leggero calo negli anni più recenti.[1] Le spese non possono superare le entrate: l’Unione Europea non può fare deficit, ossia indebitarsi, ma deve gestire un bilancio in pareggio, o in leggero surplus. Per una programmazione più efficace, i bilanci annuali sono inseriti in un Quadro Finanziario Pluriennale (QFP), che fissa vincoli di spesa per sette anni (il settennio in corso copre il periodo 2014-2020). Piuttosto che le previsioni per l’intero periodo, per semplicità consideriamo la composizione di entrate e spese effettive nel 2017.

1. Le entrate

Le entrate dell’UE nel 2017 ammontavano a 139 miliardi di euro. Le principali fonti di entrata, dette anche risorse proprie, sono tre:

Il gettito IVA (16,9 miliardi nel 2017, il 12,2 per cento del totale). Gli Stati Membri corrispondono un’aliquota dello 0,3 per cento applicata alla base imponibile nazionale. Il peso di questa risorsa si è gradualmente ridotto, passando dal 60 per cento del totale delle entrate nel 1988 al 14 per cento nel 2017 (Figura 1).[2]
I dazi doganali sulle importazioni al di fuori dell’UE (20,5 miliardi, il 14,7 per cento del totale). Ogni mese i dazi devono essere resi disponibili alla Commissione, pena il pagamento di interessi, tranne un 20 per cento trattenuto a fronte di spese di riscossione. Questi fondi hanno sempre rappresentato una quota tra il 10 e il 18 per cento delle entrate totali.
Le contribuzioni degli Stati Membri (78,6 miliardi, il 56,5 per cento del totale). Utilizzate per colmare il divario tra spese programmate ed entrate dalle prime due fonti (e dalle fonti minori, vedi oltre), queste risorse residuali sono allocate tra paesi in base al RNL.[3] Le contribuzioni degli Stati Membri hanno aumentato la loro importanza rispetto all’inizio degli anni 2000.

Alle risorse proprie si aggiungono alcune voci minori, come per esempio le multe pagate all’UE e le eccedenze di bilancio non spese negli anni precedenti. Nel 2017 queste risorse hanno ammontato a circa 23 miliardi, un valore particolarmente elevato in quell’anno.

A partire dal 2014 il totale delle entrate rapportato al RNL europeo è calato, scendendo sotto all’1 per cento, dopo anni di crescita.

 

 

2. Le uscite

Nel 2017, le uscite dell’UE assommavano a 137,4 miliardi di euro (la lieve discrepanza tra entrate e uscite è dovuta alla inevitabile prudenza nell’esecuzione delle spese per evitare un deficit). Le principali categorie di spesa sono:[4]

La politica agricola comune (PAC) e altre spese a sostegno dell’agricoltura e dell’ambiente (56,7 miliardi nel 2017), suddivise in interventi per l’agricoltura finanziati tramite il Fondo Agricolo Europeo di Garanzia (FEAGA, 44,7 miliardi), per lo sviluppo rurale tramite il Fondo Agricolo Europeo per lo Sviluppo Rurale (FEASR, 11,1 miliardi), per il sostegno alle attività di pesca (0,5 miliardi, tramite soprattutto il Fondo Europeo per gli Affari Marittimi e la Pesca, FEAMP), per l’ambiente ed il clima tramite il programma LIFE (0,3 miliardi), ed altri progetti (Figura 2). In particolare, FEAGA e FEASR finanziano i due pilastri della PAC.

  • La coesione economica, sociale e territoriale (35,7 miliardi), volta a ridurre le disparità socio-economiche tra diverse regioni. Gli interventi operano attraverso i fondi strutturali e d’investimento (fondi SIE), quali il Fondo Europeo di Sviluppo Regionale (FESR), il Fondo Sociale Europeo (FSE) e il Fondo di Coesione (FC).[5]
  • La competitività (21,4 miliardi), finalizzata a promuovere la ricerca e la crescita.[6]
  • La politica estera (9,8 miliardi), che comprende aiuti umanitari e sostegno ai paesi candidati o potenziali candidati.
  • L’amministrazione (9,7 miliardi), che include i costi operativi delle istituzioni UE.
  • La sicurezza (2,9 miliardi), per gli interventi in materia di immigrazione, di protezione delle frontiere e di affari interni.

Le uscite includono, inoltre, i cosiddetti Strumenti speciali, che comprendono per esempio gli aiuti in caso di catastrofi o le operazioni di gestione delle crisi nell’UE o in stati terzi. La quota della spesa per la competitività è quasi triplicata tra 2007 e 2017, mentre sono calate le spese per politiche di coesione e di sostegno all’agricoltura e all’ambiente (Figura 3).

Nel seguito ci concentriamo sulla PAC e sulla politica di coesione, che insieme rappresentavano due terzi delle spese nel 2017, e sulle spese amministrative, spesso al centro del dibattito pubblico.

2.1 La Politica Agricola Comune

La PAC, che rappresentava il 40,6 per cento delle spese nel 2017, opera tramite tre strumenti: i pagamenti diretti agli agricoltori, le misure di mercato (ossia meccanismi che disciplinano produzione e commercio dei prodotti agricoli, come per esempio i prezzi d’acquisto garantiti) e le misure per lo sviluppo rurale.[7] Poiché le zone rurali sono di solito meno sviluppate della media, la politica di coesione va spesso a beneficio dell’agricoltura (vedi oltre).

In termini quantitativi, il supporto dell’UE all’agricoltura si colloca in una posizione mediana nel contesto dei paesi OCSE, al di sotto degli Stati Uniti (Figura 4).[8] L’efficacia della PAC è però un tema controverso. Circa l’80 per cento dei pagamenti diretti è destinato a solo un 20 per cento degli agricoltori ed esistono notevoli difficoltà nel calcolo del reddito complessivo di questi ultimi, fondamentale per giustificare la natura degli interventi.[9] Inoltre, alcune analisi rilevano che le politiche dell’UE avrebbero avuto un effetto modesto sulla produttività agricola. Queste analisi evidenziano però anche vari effetti positivi: una riduzione nel divario tra i prezzi dei prodotti UE e quelli esterni, una minore esposizione alla volatilità dei prezzi dei mercati agricoli esterni, e la chiusura della forbice tra redditi nel settore agricolo e quelli in altri settori.[10] Più in generale, però la mancanza d’indicatori mirati e la scarsa qualità d’informazioni trasmesse da parte degli Stati Membri rendono difficile valutare l’impatto della PAC.

Tuttavia, la PAC ha compiuto importanti progressi nel ridurre il proprio impatto distorsivo sui mercati. La stima degli aiuti ai produttori (i PSE, un indicatore del sostegno pubblico al settore) in percentuale di ricavi agricoli lordi è calata da quasi il 40 per cento a fine anni 80 all’attuale poco meno del 20 per cento, così come sono calate le misure più distorsive per la competizione all’interno dei PSE (dalla quasi totalità dei PSE stessi a poco più del 20 per cento).

 2.2 La politica di coesione

Gli interventi in materia di coesione sono gestiti con accordi di partenariato tra Commissione Europea e Stati Membri e garantiscono entità di assistenza differenti per diversi livelli di sviluppo: nel settennato 2014-2020, le regioni definite “meno sviluppate” (con Pil inferiore al 75 per cento della media UE) hanno diritto a 185,4 miliardi di euro, le cosiddette “regioni in transizione” (con Pil tra il 75 e il 90 per cento della media UE) ricevono 35,7 miliardi, mentre le regioni “più sviluppate” (con Pil superiore al 90 per cento della media UE) possono contare su 55,8 miliardi.

Gli studi sull’efficacia di questa politica hanno prodotto risultati discordanti. Nel 2012, una prima analisi non ha trovato prove significative circa l’incisività delle politiche di coesione.[11] Nel 2015, una rassegna di studi econometrici precedenti ha concluso che la maggior parte di questi trova effetti positivi, seppur limitati, dei fondi, nonostante ampie differenze permangano tra gli studi.[12]

Molti tra i principali elementi di criticità non sono però da ascrivere a responsabilità delle istituzioni europee. Sarebbe importante innanzitutto che gli Stati Membri limitassero le pressioni politiche per aumentare i fondi loro assegnati, in modo tale che i fondi di coesione fossero effettivamente concentrati nelle regioni più svantaggiate. Inoltre, è emersa l’evidenza che gli interventi co-finanziati dalle UE e dagli Stati Membri potrebbero sostituire investimenti che sarebbero altrimenti stati finanziati interamente con risorse interne, senza quindi un aumento complessivo degli investimenti. Un altro ostacolo è l’avvio a rilento nella spesa effettiva delle risorse assegnate. L’Italia per esempio, che dopo la Polonia riceve la quantità più ingente di fondi strutturali (circa 75 miliardi), è tra i paesi più lenti a spendere questi fondi, con solo il 23 per cento di fondi spesi a fine 2018 sul totale di quelli resi disponibili dal QFP, ben al di sotto della media UE (Figura 5). Tale partenza genera un’eccesiva accumulazione di fondi da spendere alla fine del periodo, con rischio di scegliere frettolosamente investimenti di bassa qualità.[13]

2.3 Le spese di amministrazione

Le spese amministrative ammontavano a 9,7 miliardi nel 2017, circa il 7 per cento del bilancio dell’UE. Del totale di 9,7 miliardi, 3,6 miliardi vanno alla Commissione, 1,9 miliardi al Parlamento, 1,8 miliardi ai pensionati delle istituzioni europee, 0,2 miliardi alle scuole europee, mentre i restanti 2,2 miliardi sono stati destinati al Consiglio Europeo, alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, alla Corte dei Conti Europea e ad altre istituzioni (per esempio il Comitato Economico e Sociale e il Comitato delle Regioni).[14]

I costi amministrativi della UE non sembrano particolarmente elevati rispetto a quelli di altre amministrazioni centrali. Un buon indicatore in proposito è dato dal rapporto tra spese amministrative e spese totali gestite (Figura 6): l’UE si colloca ben al di sotto di altri paesi, nonostante il proprio dato tenga in considerazione anche voci di spesa non incluse per le controparti.[15]

Ciò detto, per quanto modesto nel contesto del bilancio, il mantenimento di due sedi parlamentari (a Bruxelles e Strasburgo) rappresenta un inutile spreco dal punto di vista operativo.[16] Nel 2014, un’analisi della Corte dei conti europea stimava che la chiusura della sede di Strasburgo avrebbe comportato risparmi per 114 milioni annui.[17]

Confronti internazionali

Quanto è grande il bilancio della UE rispetto a quello degli stati federali, la forma più decentrata di unione politica nazionale? La spesa del bilancio centrale degli stati federali sul totale delle spese delle amministrazioni pubbliche (“general government”, ossia del governo centrale e delle amministrazioni locali) è di circa il 53 per cento. Il bilancio dell’Unione Europea è, come abbiamo visto, circa il 2 per cento della spesa pubblica dell’area degli Stati Membri (Figura 7).

Esistono altre marcate differenze tra UE e federazioni. In queste ultime, infatti, i governi centrali si finanziano attraverso tasse proprie e trasferiscono risorse ai livelli più bassi di governo. Nel caso della UE è il contrario. Nonostante il limitato livello della spesa centralizzata, le tasse di pertinenza UE (dazi e quota IVA) non bastano e il bilancio europeo deve essere integrato da trasferimenti dai Paesi Membri.

La piccola dimensione del bilancio europeo riflette la difficoltà a cedere sovranità (la cui essenza è la capacità di tassare e spendere). È chiaro però che questo limita la possibilità di svolgere politiche davvero rilevanti a livello europeo, inclusa la protezione delle frontiere. È anche impossibile compiere una redistribuzione rilevante, azione che negli stati federali avviene attraverso l’accentramento di politiche di tassazione progressive. Inoltre, con un bilancio sempre in pareggio, è impossibile svolgere azioni di sostegno all’economia a livello europeo. Si noti, peraltro, che negli stati federali il deficit centrale ha un ruolo cruciale nel controbilanciare gli shock macroeconomici e nella gestione condivisa dei rischi. Tale ruolo dovrebbe essere ancora più accentuato proprio laddove sono presenti una minore mobilità del lavoro e una minore sincronizzazione del ciclo economico, come nell’Unione Europea appunto.

In conclusione, il bilancio dell’Unione Europea è di dimensioni molto modeste. Rimane dunque ampio margine per garantire all’UE strumenti adeguati e fondi più ingenti, al fine di aumentare l’integrazione, promuovere politiche di più ampio respiro e ottenere risultati più concreti.


[1] Il reddito nazionale lordo differisce leggermente dal prodotto interno lordo in quanto include anche i redditi netti generati all’estero e rimessi dai cittadini del paese in questione. I dati sono espressi in termini di RNL per coincidere esattamente con quelli riportati dalla Commissione Europea.

[2] Il crollo di questa quota riflette riforme quali l’introduzione di un tetto alla base imponibile e la riduzione dell’aliquota dovuta a partire dal 1995.

[3] Le contribuzioni sono calcolate come percentuale fissa del RNL di ciascuno stato e dipendono da previsioni che vengono gradualmente riviste. Alla luce di ciò, sono applicate delle correzioni entro quattro anni dall’anno in questione, anche in considerazione delle spese programmate, che comportano leggere variazioni della percentuale tra i diversi paesi. A queste, possono aggiungersi speciali aggiustamenti: per il periodo 2014-2020, Danimarca, Olanda e Svezia hanno ottenuto riduzioni alla propria contribuzione per 130 milioni, 695 milioni e 185 milioni di euro rispettivamente.

[4] Le voci Competitività e Coesione, comunemente incluse nella stessa macro-categoria Crescita intelligente e inclusiva, sono qui presentate separatamente.

[5] I fondi SIE includono anche il FEASR e il FEAMP afferenti alla precedente categoria di spesa.

[6] I principali programmi di spesa della categoria sono Horizon 2020, per migliorare la competitività e l’innovazione scientifica e industriale (80 miliardi), Connecting Europe Facility, per lo sviluppo di reti e connessioni nel campo dell’energia, delle telecomunicazioni e dei trasporti (22 miliardi), e Erasmus+, per la qualità dei sistemi educativi europei e la cooperazione tra scuole, università e imprese (15 miliardi).

[7] I primi due strumenti rientrano nel cosiddetto primo pilastro, finanziato dal FEAGA, mentre il terzo strumento, che costituisce il secondo pilastro, è finanziato dal FEASR. Per ottenere questi pagamenti diretti, gli agricoltori devono rispettare pratiche e regole precise per quanto concerne standard ambientali e di prodotto (condizionalità del sostegno). Gli agricoltori ricevono un “pagamento accoppiato” a seconda della specifica coltura o bestiame di cui si occupano e un “pagamento disaccoppiato” basato invece sugli ettari utilizzati.

[8] L’indicatore riportato nella figura è calcolato come il rapporto tra il supporto totale all’agricoltura (definito come somma della stima degli aiuti ai produttori, della stima del supporto ai consumatori e infine della stima del supporto di “servizio generale”, ossia del costo delle politiche che beneficiano direttamente l’agricoltura) e il Pil diviso la quota del valore aggiunto agricolo sul totale del Pil. Gli aiuti ai produttori sono definiti come il valore monetario annuale di trasferimenti lordi da consumatori e contribuenti ai produttori agricoltori, beneficiari a livello individuale, ed include il supporto al prezzo di mercato, pagamenti di bilancio e costi di introiti mancati. Si veda https://www.oecd-ilibrary.org/docserver/agr_pol-2018-en.pdf?expires=1555497484&id=id&accname=ocid56023214&checksum=D13EFCF0B218563164E23475ADAC6FB0.

[9] Si veda https://www.eca.europa.eu/Lists/ECADocuments/Briefing_paper_CAP/Briefing_paper_CAP_EN.pdf e https://ec.europa.eu/commission/sites/beta-political/files/communication-new-modern-multiannual-financial-framework_en.pdf.

[10] Si veda https://ec.europa.eu/info/sites/info/files/food-farming-fisheries/key_policies/documents/report-implementation-cmef_december2018_en.pdf e http://pubdocs.worldbank.org/en/369851513586667729/Thinking-CAP-World-Bank-Report-on-the-EU.pdf.

[11] Si veda http://bruegel.org/2012/10/the-growth-effects-of-eu-cohesion-policy-a-meta-analysis/.

[12] Si veda https://ec.europa.eu/regional_policy/sources/docgener/work/2015_02_econ_assess.pdf.

[13] Si veda https://osservatoriocpi.unicatt.it/cpi-archivio-studi-e-analisi-i-trasferimenti-finanziari-tra-italia-e-ue-chi-dice-la-verita-tra-juncker.

[14] Si veda https://publications.europa.eu/en/publication-detail/-/publication/c48c1c91-cdc8-11e8-9424-01aa75ed71a1.

[15] Il confronto è fatto rispetto agli stati federali, la cui struttura centrale è più simile a quella di enti sovranazionali come quelli della UE. Si veda, su questo e sui temi trattati nella sezione seguente, Designing a European fiscal union: Lessons from the experience of fiscal federations, edited by Carlo Cottarelli e Martine Guerguil. Routledge, 2015.

[16] La doppia sede, e i relativi spostamenti mensili da una sede all’altra delle persone coinvolte nelle sedute parlamentari, è frutto di un compromesso tra chi voleva la sede in Belgio e chi la voleva in Francia.

[17] Si veda https://www.eca.europa.eu/lists/ecadocuments/pl1407_letter/pl1407_letter_it.pdf. Questa cifra è peraltro ben inferiore al risparmio di 1 miliardo citato di recente da alcuni politici italiani, che si riferisce a un arco quinquennale e utilizza una stima annuale di risparmi (circa 200 milioni) di fonte diversa e, a nostro giudizio, meno affidabile. Si veda https://www.ilblogdellestelle.it/2019/01/chiudiamo-la-sede-del-parlamento-europeo-di-strasburgo.html.

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