Università Cattolica del Sacro Cuore

XIV Commissione Politiche dell’Unione europea della Camera dei Deputati

Audizione in tema di politiche dell'Unione Europea

dell'Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani

4 giugno 2020

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Vorrei ringraziarvi per questa audizione sulle politiche dell’Unione Europea. La situazione è cambiata molto rispetto al febbraio scorso quando fu circolato il Programma della Commissione Europea per il 2020 e la relativa Relazione programmatica sulla partecipazione dell’Italia all’Unione Europea. La situazione ha portato a misure e proposte molto innovative rispetto al passato e che avranno ripercussioni non solo per il 2020, ma anche per gli anni seguenti.

Per capire se la risposta delle istituzioni europee sia stata adeguata alla gravità della crisi si può considerare la questione da due punti di vista. Il primo, molto frequente anche se in gran parte inappropriato, è di confrontare la risposta europea con quella degli Stati Uniti d’America. Soprattutto nella prima fase della crisi c’è chi ha fatto notare come, ancora una volta, gli Stati Uniti si stavano muovendo più rapidamente dell’Europa, soprattutto in termini di politica di bilancio. Questo è un dato di fatto, come è un dato di fatto che l’Europa non è uno stato federale, non ha un governo federale che possa prendere decisioni esecutive e non ha un bilancio federale di dimensione neppure lontanamente paragonabile a quello degli Stati Uniti: nell’anno fiscale 2018 la spesa federale rappresentava oltre il 20 per cento del Pil americano, venti volte tanto quella del bilancio dell’Unione Europea. Quest’anno avrà un deficit di circa il 15 per cento del Pil. Viste queste differenze, non ci si può aspettare una reazione tanto rapida quanto quella statunitense dalle istituzioni non monetarie europee. Le decisioni prese dalle istituzioni europee, con l’eccezione della BCE che infatti si è mossa più rapidamente, devono essere raggiunte attraverso una faticosa mediazione e in un contesto istituzionale inevitabilmente più lento.

Il secondo punto di vista, quello secondo me più appropriato, riguarda il confronto tra la risposta data dalle istituzioni europee nella crisi presente e nelle crisi del 2008-09 e del 2011-12. Le differenze sono enormi.

Primo, nel 2008-09 i tetti su deficit e debito non furono sospesi: per quasi tutti i paesi iniziò una procedura di deficit eccessivo, anche se, a dire il vero, fu in pratica un “pro forma”. E la crisi del 2011-12 fu l’occasione per introdurre nuove e, in parte, più strette regole fiscali, anche se alcune di queste entrarono in vigore solo successivamente. In questa occasione, è stata attivata immediatamente, e quasi senza discussione, la cosiddetta “escape clause” relativa a una recessione nell’intera area, clausola che ha sospeso i tetti esistenti.

Secondo, nelle due precedenti crisi non si introdussero meccanismi di finanziamento comune di maggiori deficit pubblici. Forme di prestiti in comune furono limitati al finanziamento del MES e del suo predecessore, il FESF, ma questi enti raccoglievano finanziamenti per prestiti di emergenza a paesi che avevano perso l’accesso al mercato e che avrebbero dovuto ridurre il proprio deficit pubblico, non aumentarlo. In questa fase, si è già intervenuto con l’approvazione del meccanismo SURE per il finanziamento delle casse integrazione dei diversi paesi, con il “MES sanitario” (su cui tornerò successivamente), con il rafforzamento dei prestiti BEI e, se le proposte della Commissione saranno approvate, con il programma del Next Generation EU che comporta trasferimenti anche a fondo perduto per finanziare i deficit (anche su questo tornerò successivamente).

Terzo, la BCE è intervenuta, dopo una esitazione durata pochi giorni, con una azione molto espansiva, dichiarandosi anche pronta ad aumentare i propri interventi per importi grandi quanto necessario e per una durata estesa quanto necessario. Nonostante si tratti di interventi di natura monetaria, giustificati dai rischi deflattivi e dalla necessità di garantire il meccanismo di trasmissione della politica monetaria in tutti i paesi dell’area dell’euro, di fatto i massicci acquisti di titoli di stato, compreso di quelli italiani attraverso la Banca d’Italia, facilitano in modo decisivo il finanziamento dei deficit pubblici. Quest’anno gli acquisti di titoli di stato italiani da parte della BCE dovrebbero ammontare a circa 170 miliardi, circa il 10 per cento del Pil italiano. Nella crisi del 2011-12 la BCE cambiò decisamente il proprio approccio solo nel luglio 2012 con il famoso “whatever it takes” di Mario Draghi.

Questa differenza nei tempi e nelle modalità di reazione deve senza dubbio molto alle caratteristiche della crisi attuale, una crisi non soltanto di entità anche più grave di quelle precedenti, ma causata da un fattore esogeno, sanitario, indipendente dalle azioni dei singoli paesi e del tutto inatteso. Ciononostante, la risposta, molto più solidale del passato, è di buon auspicio per i futuri sviluppi delle istituzioni europee.

Vorrei ora commentare alcuni specifici strumenti messi a disposizione. Il primo luogo il MES sanitario. È chiaro che il MES era stato creato per scopi diversi da quelli per cui si intende usarlo ora. Era stato volto a finanziare paesi che avessero bisogno di un aggiustamento relativamente rapido nelle loro politiche di bilancio (Irlanda, Portogallo, Grecia, Cipro) o nel settore bancario (Spagna). Ma usare questo canale aveva un indubbio vantaggio, quello di utilizzare una istituzione già esistente, capace di raccogliere rapidamente fondi che potevano essere utilizzati per finanziare l’emergenza, soprattutto quella sanitaria. La linea di credito messa a disposizione dei paesi comporterebbe un prestito per l’Italia di 36 miliardi a tassi quasi zero e con scadenza probabilmente decennale. Il risparmio cumulato su 10 anni sarebbe di circa 5 miliardi, quindi non irrilevante: sono 500 milioni l’anno, 9 volte più del risparmio annuo derivante, per esempio, dal taglio nel numero dei parlamentari (seppure per un periodo limitato a 10 anni). La condizionalità è limitata all’obbligo di usare i fondi per gli effetti diretti e indiretti della crisi sanitaria. L’Italia entrerebbe automaticamente in “sorveglianza rafforzata” (ex Regolamento 472/2013), ma Commissione ed Eurogruppo ci hanno assicurato che questa sarebbe limitata all’uso dei fondi per la sanità, che non ci sarebbero missioni di controllo aggiuntive e, inoltre, che non c’è intenzione di attivare la raccomandazione, possibile per i paesi in sorveglianza rafforzata, di presentare un programma di aggiustamento macroeconomico. Mi sembra ci si possa fidare. Sottolineo anche che se la Commissione volesse mettere l’Italia in sorveglianza rafforzata potrebbe farlo di sua spontanea iniziativa, sempre ex Reg. 472/2013. Non avrebbe bisogno del “cavallo di Troia” MES per farlo. Il programma con il MES durerebbe in ogni caso solo per il periodo di erogazione del prestito, un anno o poco più. Nel periodo seguente ci sarebbe una sorveglianza post-programma, ma una sorveglianza ci sarebbe in ogni caso come parte della attività della Commissione anche senza MES e non comporterebbe certo condizionalità. In conclusione, non vedo proprio ostacoli all’uso del MES sanitario. Certo, sarebbe leggermente meglio se anche altri grandi paesi lo richiedessero, in termini di possibile “stigma”, ma si tratta di una differenza tutto sommato di minor conto. E, visti i maggiori tassi di interesse che l’Italia paga sui propri prestiti, il MES sanitario sarebbe molto più vantaggioso per noi che per la Francia o per la Spagna. Credo quindi che il Parlamento dovrebbe sostenere una richiesta italiana di un prestito sanitario dal MES, qualora il governo decidesse di procedere in questa direzione.

Passiamo al Recovery Fund o, come lo si chiama ora, il piano Next Generation EU proposto dalla Commissione. Nonostante il materiale reso disponibile, alcuni aspetti non sono chiari, soprattutto l’importo esatto dei fondi che sarebbero a disposizione dell’Italia (tra i 153 e i 173 miliardi) e il meccanismo specifico con cui dovrebbe essere assicurato l’utilizzo dei fondi a disposizione dei paesi per raggiungere finalità in linea con le raccomandazioni della Commissione Europea e del Consiglio Europeo. Conosciamo però le altre principali caratteristiche della proposta e mi limiterò quindi a sottolineare tre punti.

Il primo riguarda proprio le raccomandazioni della Commissione Europea e del Consiglio Europeo che dovrebbero essere la base per le azioni da finanziare con le risorse messe a disposizione. Queste sono le cosiddette “country-specific recommendations” pubblicate come parte del Semestre Europeo. L’Italia dovrebbe, oltre alle misure introdotte per affrontare gli effetti immediati della crisi: “anticipare i progetti di investimento pubblici maturi e promuovere gli investimenti privati per favorire la ripresa economica; concentrare gli investimenti sulla transizione verde e digitale, in particolare su una produzione e un uso puliti ed efficienti dell'energia, su ricerca e innovazione, sul trasporto pubblico sostenibile, sulla gestione dei rifiuti e delle risorse idriche e su un'infrastruttura digitale rafforzata per garantire la fornitura di servizi essenziali; migliorare l'efficienza del sistema giudiziario e il funzionamento della pubblica amministrazione”. Mi sembrano tutte cose condivisibili. Occorre utilizzare le risorse rese disponibili dall’Europa per progetti strutturali che comportino, prevalentemente, esborsi “una tantum” visto che le risorse sono disponibili soltanto per un periodo limitato di tempo. Utilizzare tali risorse per un taglio permanente della tassazione mi sembra inappropriato.

Il secondo punto riguarda il vantaggio che deriva all’Italia da queste risorse. Ho detto ormai da diverse settimane che la differenza tra risorse rese disponibili sotto forma di prestiti e risorse disponibili come trasferimenti a fondo perduto è meno forte di quanto si potrebbe pensare, in un sistema chiuso come l’Unione Europea. I prestiti vanno restituiti, i trasferimenti a fondo perduto no, in teoria. Ma in pratica tutti i paesi dovrebbero effettuare trasferimenti verso l’Unione in modo da consentire a questa di rimborsare i prestiti a sua volta contratti. Per paesi più colpiti dalla pandemia come il nostro, ci sarebbe comunque un vantaggio nell’avere trasferimenti piuttosto che prestiti (i trasferimenti verso l’Italia sarebbero proporzionali all’impatto della crisi, mentre i trasferimenti verso l’Unione Europea avverrebbero in base alla quota di Pil italiano), ma il vantaggio sarebbe meno forte di quanto si potrebbe pensare. La Commissione peraltro propone che le risorse per ripagare il prestito contratto vengano, almeno in parte, da tasse europee, quindi non richiedendo un completo trasferimento dai paesi verso l’Unione negli anni del ripagamento del prestito da questa contratto. Tali tasse potrebbero comunque ricadere sui residenti dei vari paesi, compreso l’Italia. Ripeto, questa compartecipazione al pagamento dei prestiti era inevitabile a meno di trasferire risorse all’Italia e di chiedere ai contribuenti tedeschi di rimborsare il prestito contratto dalla UE. Resta comunque il fatto, valido sia per i prestiti che per i trasferimenti, che l’Italia beneficerebbe di risorse che sono rese disponibili all’Italia a un tasso (esplicito nel caso dei prestiti o implicito nel caso dei trasferimenti) ben più basso di quello a cui lo stato italiano prende attualmente a prestito. Da qui un elemento di solidarietà, comunque importante. Inoltre, per la parte relativa ai trasferimenti, il debito pubblico italiano non aumenterebbe dal punto di vista contabile, il che rappresenta un vantaggio per un paese ad alto debito.

Il terzo punto riguarda le implicazioni della proposta dal punto di vista istituzionale. Il piano proposto è considerato “una tantum” e quindi non comporta un cambiamento strutturale nel ruolo del bilancio europeo. Quest’ultimo non può formalmente finanziarsi in deficit e l’emissione di titoli verrebbe effettuata attraverso la cosiddetta “headroom” pari allo 0,6 per cento del Pil europeo. Ciononostante, nella sostanza, si tratterebbe di un ampliamento, seppure temporaneo, del bilancio europeo finanziato in deficit. In questo senso, la proposta sarebbe un passo, ancorché di limitate proporzioni, nel colmare un vuoto che attualmente esiste nell’architettura dell’Unione Economica e Monetaria, ossia l’assenza di un bilancio europeo di sufficienti dimensioni che possa svolgere, in via permanente, un ruolo anticiclico. Il rafforzamento del bilancio dell’Unione Europea è sempre stato una richiesta di chi voleva un assetto istituzionale europeo più equilibrato rispetto a quello attuale.

In conclusione, la proposta della Commissione Europea è di grande importanza e merita il sostegno del governo e del Parlamento italiano.

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