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175 risultati trovati

  • Previsioni UE e criticità della finanza pubblica

    Per individuare queste tendenze, l’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani ha messo a confronto il progetto di bilancio del governo per il 2024 – quando verosimilmente i conti non saranno più appesantiti da sostegni per Covid e bollette, nonché da crediti edilizi riclassificati – con il consuntivo del 2019, l’ultimo anno prima della pandemia. Il deficit 2024 è al 4,3 per cento del Pil, 2,8 punti in più del 2019 (quando era all’1,5 per cento). E ciò malgrado il fatto che già oggi il Pil abbia superato il livello del 2019. Come mai? La risposta è che è aumenta soprattutto la spesa (+2,2 punti di Pil). Dal lato delle entrate, diminuiscono i contributi sociali e l’Irpef, perché si è voluto alleggerire il carico sui redditi bassi. Un quadro che riflette ovviamente la sensibilità della maggioranza e – al di là delle battaglie di bandiera – anche di gran parte dell’opposizione, che anzi vorrebbe ancora più spesa. In queste condizioni, che per molti versi non riguardano solo l’Italia, andrebbe detto chiaro che non c’è spazio per ridurre le tasse sul ceto medio e che la lotta all’evasione e la riqualificazione della spesa non possono essere relegate ad appendici secondarie delle politiche economiche.

  • Incentivi fiscali alla natalità: troppo costosi e con esiti incerti

    Queste politiche non ebbero successo o comunque non furono sufficienti a invertire la caduta della fertilità che anzi accelerò, da 1,41 figli per donna nel 2001 a 1,16 nel 2018. Misure analoghe, più o meno costose, sono state messe in atto da molti altri Stati, perché l’inverno demografico è una preoccupazione di moltissimi Paesi, soprattutto in Asia e in Europa. La considerazione che si può fare è che, a meno di spendere cifre colossali, gli incentivi fiscali hanno scarsi effetti sulla natalità. A cosa servono dunque le politiche per la famiglia, come l’assegno unico o i congedi parentali? La risposta che dobbiamo darci è che servono per consentire alle famiglie di fare scelte libere riguardo al lavoro (specie delle donne) e ai figli. L’idea che è circolata di dare 10.000 euro per ogni figlio costerebbe circa 4 miliardi il primo anno, 8 il secondo, 12 il terzo e così via a salire. Non conviene, tanto più che l’inverno demografico si sta manifestando già ora con tutti i suoi prevedibili effetti sulla società e sull’economia: negli ultimi 4 anni, l’Italia ha perso quasi 900 mila persone in età di lavoro (20-56 anni). Né stupisce che lo scenario di riferimento del Def preveda che il rapporto debito/Pil, dopo una temporanea discesa fino al 140 per cento, già nel 2027 ricominci a salire fino al 160 per cento nel 2040 e al 180 per cento nel 2050.

  • La legge annuale per il mercato e la concorrenza 2021: a che punto siamo?

    Quello forse più importante riguarda il rinvio ad un decreto interministeriale da emanarsi entro sei mesi, che prevede la definizione dei criteri di gara, nonché dei criteri di valutazione di alcuni interventi di innovazione tecnologica. Nel nuovo testo invece, l’Autorità valuta che l’operazione di concentrazione “non ostacoli in modo significativo una concorrenza effettiva nel mercato comune o una parte sostanziale di esso, in particolare a causa della creazione o del rafforzamento di una posizione dominante”. La legislazione vigente prevede l’obbligo in capo alle imprese di notificare le operazioni di concentrazioni quando queste superino determinate soglie di fatturato nazionale: 492 milioni di euro dall’insieme delle imprese interessate all’operazione e 30 milioni di euro da almeno due delle imprese interessate. La novità consiste nel potere che viene dato all’AGCM di chiedere alle imprese di notificare l’operazione quando viene superata una sola delle due soglie dette sopra, oppure quando il fatturato mondiale di una delle imprese superi i 5 miliardi di euro. A questo fine prevede che ogni soggetto competente alla nomina istituisca una commissione tecnica (composta di personalità di indiscussa indipendenza, moralità ed elevata qualificazione professionale) per la selezione delle candidature e che tale commissione individui liste di non meno di quattro candidati per ciascuna posizione. Tra i principali punti in discussione si segnala: a) la promozione della concorrenza anche in sede di conferimento delle licenze (che viene osteggiata da coloro che detengono le attuali licenze) e b) l’utilizzo di applicazioni web che utilizzano piattaforme tecnologiche per l’interconnessione dei passeggeri e dei conducenti. Inoltre, sottolinea l’AGCM, che “il quadro normativo in essere è suscettibile di favorire condotte ostruzionistiche su base brevettuale da parte delle imprese titolari dei farmaci “originatori”, che potrebbero fare ricorso ad azioni giudiziali al solo fine di ritardare l’entrata dei genericisti sul mercato”.

  • Il catastrofismo degli economisti e il dovere di rappresentare la realtà

    Ma ormai i giochi sono fatti ed è bene che gli economisti spieghino chiaramente a chi governa qual è la realtà. Titolo: “Meritocrazia e Crescita”), Lorenzo Codogno ed io ci proponiamo di allertare gli italiani e di dire che in molti ambiti occorrono cambi di passo sostanziali rispetto ad oggi. Fra il 1995 e il 2019 il divario cumulato nella crescita del Pil è stato di 32,1 punti percentuali rispetto alla Francia, 23,7 rispetto alla Germania, 29,5 rispetto alla media dell’Eurozona, 64,5 rispetto agli Stati Uniti. Nella classifica del Pil pro capite delle 280 regioni europee, Piemonte, Lombardia e Veneto vent’anni fa erano vicine ai primi posti: nel 2019 avevano erano scese all’84°, 36° e 68° posto rispettivamente, al di sotto di quasi tutte le principali regioni dell’Europa Occidentale. Uno di questi è (o è stato) l’avanzo primario, ma senza crescita non basta a ridurre il rapporto debito/Pil. Le imprese manifatturiere che esportano sono un altro punto di forza, ma non bastano a trainare un paese di 60 milioni di abitanti. E se si guarda agli indicatori di imprenditorialità e innovazione si scopre una verità che fa male, ma che va detta: davanti a noi, ci sono quasi tutti gli altri paesi avanzati. Negli anni ’70 e ’80 l’Italia è cresciuta con le due droghe delle svalutazioni e del debito pubblico; negli anni ’90 avrebbe dovuto diventare quella che in Europa viene chiamata “un’economia aperta basata sulla conoscenza”.

  • Incertezza sui numeri, riforme e investimenti fumosi. L’UE chiederà chiarimenti

    L’andamento tendenziale del deficit nei prossimi anni è molto al di sotto di quanto stimato nel Def di aprile e di questo non è data spiegazione alcuna» dice Giampaolo Galli, direttore dell’Osservatorio sui conti pubblici italiani dell’Università Cattolica. Sia per la rivalutazione Istat del Pil che riduce anche i rapporti di deficit e debito. Quanto agli anni prossimi, colpisce l’andamento del deficit tendenziale a legislazione vigente, ossia quello che si avrebbe senza fare politiche. In termini assoluti parliamo di un “tesoretto” da 9 miliardi per il prossimo anno, poi 15,5 miliardi nel 2026 e 25,6 miliardi nel 2027, come calcola la Corte dei Conti. Sia Bankitalia che l’Ufficio parlamentare di bilancio in audizione hanno mostrato perplessità sulla strutturalità delle maggiori entrate tributarie su cui scommette il governo.». Ma così può sballare tutta la curva di correzione dei conti espressa nel PSB? «Possibile e già nel 2025. Mi chiedo però se riusciranno a tagliare la spesa in misura sufficiente, tenendo conto che per alcuni capitoli di spesa alcune spese, in primis la sanità, nessuno ha dubbi che le risorse vadano aumentate.».

  • Raschiando il fondo del barile? La dinamica recente della tesoreria dello Stato

    Questo basso livello può riflettere il tentativo di contenere nell’immediato la crescita del debito pubblico, ma espone al rischio di dover ricorrere, in presenza di shock avversi, a emissioni di titoli concentrate nel tempo, con ripercussioni sul costo del debito. Il conto corrente di tesoreria, denominato ufficialmente “Conto disponibilità del Tesoro”, è il deposito a vista presso la Banca d’Italia tramite il quale la Pubblica Amministrazione incassa o esegue pagamenti. Nel corso del 2023 la liquidità disponibile sul conto di tesoreria è stata piuttosto bassa rispetto al passato, suggerendo una situazione di ristrettezza nei flussi di cassa dello Stato dopo l’esaurirsi degli acquisti di titoli da parte della BCE (Fig. 1). In proposito, la Fig. 2 mostra il rapporto fra il conto corrente di tesoreria nel mese di luglio di ogni anno e il livello di spesa dell’anno corrispondente. Inoltre, la quantità di risorse in conto corrente del 2023 è bassa anche mettendo a confronto la media della disponibilità dei primi sette mesi di ogni anno, come mostrato dalla Fig. 3. In generale, la scarsa disponibilità dei depositi potrebbe riflettere la necessità del governo di contenere la crescita del debito pubblico pur in presenza di un andamento relativamente debole dei conti pubblici. La minore liquidità pubblica ha però effetti indesiderabili: espone al rischio di dover ricorrere, in presenza di shock avversi, a emissioni di titoli concentrate nel tempo e quindi a un improvviso aumento dei tassi di interesse.

  • Spread, i vincoli dello scudo

    Ieri, oltre all’aumento dei tassi di interesse (da zero a 0,50 per cento), ha anche annunciato il nuovo strumento anti spread. L’aumento dei tassi d’interesse è stato più alto del previsto, ma, con un’inflazione all’8,6 per cento non si può certo parlare di eccesso di prudenza se la BCE presta soldi al tasso dello 0,5 per cento. Che vuol dire? Quando la BCE aumenta i tassi di interesse a cui presta alle banche perché l’inflazione è troppo alta vorrebbe che questo aumento fosse trasmesso a tutti i paesi senza troppe differenze. Se però, all’annuncio di un aumento di un punto percentuale dei tassi della BCE, quelli sui titoli tedeschi aumentano di un punto percentuale e quelli sui BTP aumentano di due punti percentuali, le cose si complicano soprattutto perché l’Italia, paese molto indebitato, mal digerisce un aumento dei tassi. Io penso che quello che la BCE ha annunciato è il meglio che potesse fare. Ed era inevitabile che si ponessero dei “paletti” per circoscrivere l’azione di sostegno a paesi che si stanno comportando relativamente bene. Già me lo vedo un paese che magari non si sta comportando tanto bene e che vorrebbe un intervento della BCE accusare quest’ultima di non attivare il TPI per puri motivi politici.

  • Covid, serve uno scudo per l'economia

    Ma che prospettive ci sono effettivamente per una rapida ripresa? Possiamo essere ottimisti? Chiarisco: non mi riferisco a quello che serve per mettere l’Italia su un sentiero di crescita di medio termine che ci porti fuori dal pantano del ventennio pre-covid. Per cominciare, in Italia la produzione industriale è ormai tornata quasi ai livelli pre-Covid: era caduta di più del 40 per cento un anno fa, ora è solo dello 0,6 per cento più bassa di quella del febbraio 2020. Fra l’altro, in quest’area siamo tra i migliori: in Francia, Germania, Stati Uniti, Regno Unito, il rimbalzo della produzione industriale è stato inferiore, segno della flessibilità della nostra manifattura. Questo suggerisce che, in assenza di freni alla produzione, si produce: non c’è una carenza di domanda. Fra l’altro il forte aumento del risparmio nel 2020 ci dice che le famiglie italiane non hanno (ovviamente si parla di medie) una carenza di liquidità al momento. Si può quindi sperare che, ridotte le restrizioni alla produzione (chiusure, divieti di spostamenti, eccetera), anche il settore dei servizi possa riprendersi rapidamente (come peraltro confermato dalla forte crescita del nostro PIL nel terzo trimestre del 2020, prima della seconda ondata Covid). Non mi scandalizzerebbe neppure un piccolo nuovo prolungamento del blocco dei licenziamenti, anche se, ovviamente, non si può andare avanti all’infinito, anche perché attualmente tutto l’aggiustamento sul lato della produzione ricade su chi ha contratti temporanei, solitamente giovani e donne.

  • La scommessa dei conti pubblici

    Ci sono motivi per pensare che la strategia del governo Draghi possa essere valida, visti alcuni importanti mutamenti del contesto economico/politico rispetto al passato. Per cominciare, nelle stesse previsioni del governo il rapporto tra debito pubblico e Pil scende solo lentamente: anche ipotizzando tassi di crescita elevati rispetto alla nostra esperienza recente, il rapporto tornerebbe a livelli pre-Covid solo fra una decina d’anni. Ricordiamoci, in proposito, che i paesi del Nord, che hanno affrontato la crisi Covid con aumenti del debito del tutto contenuti, potrebbero vedere di buon occhio un aumento, anche consistente, dei tassi di interesse per frenare l’inflazione. Una strategia di riduzione del debito basata sulla crescita richiede che la crescita si materializzi. Sarà superato l’ostacolo? Andiamo avanti: se anche la crescita prevista dal governo si realizzasse, riassorbire il debito attraverso la crescita richiede di resistere alla tentazione di andare a spendere le maggiori entrate che derivano dalla crescita stessa. Riusciranno l’attuale governo e quelli che succederanno nei prossimi anni a resistere a tale tentazione? Tanto per cominciare, cosa accadrà in autunno quando si dovrà risolvere la questione dello “scalone pensionistico” causato dal venir meno di “quota 100”? E quanto costerà la riforma fiscale cui anche il DEF accenna? Concludo. Il punto non è se per ridurre il deficit ci voglia più crescita, su questo siamo tutti d’accordo, come siamo d’accordo sul fatto che le riforme che il governo si appresta a varare (pubblica amministrazione, giustizia, fisco, concorrenza) siano essenziali.

  • Pil, una crescita che non basta

    Ha contribuito in modo decisivo a questo miglioramento l’andamento del Pil tedesco, in ripresa nel primo trimestre e probabilmente, anche se il dato non è stato ancora formalizzato da Eurostat, anche nel secondo. Nel primo semestre del 2024 il Pil americano è aumentato a una velocità annualizzata del 2,1%, quasi il doppio della velocità dell’area dell’euro. La lettura positiva è che, nonostante l’indebolimento nel secondo trimestre, nell’ultimo anno il Pil italiano è cresciuto un po’ più di quello dell’Eurozona: abbiamo fatto lo 0,9% contro lo 0,7% dell’area. Di questo passo ci vorrà un’eternità per recuperare il divario di reddito pro capite che si è aperto nei primi vent’anni di questo secolo rispetto al resto dell’Europa. La lettura positiva, rispetto al calo dei tassi di interesse che farebbe comodo ai nostri conti pubblici, è che il tasso di crescita del Pil europeo, seppure in ripresa, appare comunque moderato: insomma, niente di eccezionale e tale da comportare un’eccessiva pressione sui prezzi. La lettura negativa è che l’attuale livello dei tassi di interesse, al contrario di quanto poteva apparire l’anno scorso, non ha impedito l’accelerazione del Pil europeo, in generale, e tedesco, in particolare. Personalmente resto del parere che la prima lettura sia più adeguata e che ci sia spazio per anticipare la riduzione dei tassi, ma la parte nordica del Board della Bce potrebbe invece preferire la seconda lettura.

  • La visione c'è, ora va tradotta in progetti

    In quanto tale si presta ad essere giudicato da più punti di vista ed è comprensibile che le diverse forze politiche e sociali, nonché gli studiosi, si concentrino sulle cose che non vanno bene al fine di intervenire per correggerle. Molti hanno criticato il piano per via di una governance che sembra prefigurare una struttura parallela che prescinde o forse si aggiunge a quella delle varie amministrazioni competenti. Altri si sono soffermati sulla mancanza di concretezza di molte delle azioni strategiche del piano e sul fatto che altri paesi sono più avanti dell’Italia nella predisposizione dei singoli progetti operativi da sottoporre alla Commissione. La visione è essenziale perché su di essa di costruisce il consenso politico che è necessario per l’attuazione del piano, specie laddove esso prevede, come chiede la Commissione all’Italia, riforme di grande spessore come quella della Pubblica Amministrazione e della giustizia. Si dirà che sono tutte cose note e scritte molte volte, e che manca il vero valore aggiunto, ovvero i piani concreti. Tuttavia, la visione è importante, anche se –a scanso di equivoci– va detto che la visione è condizione necessaria ma non sufficiente per il successo del piano. Occorre che ci sia davvero il consenso politico nel Paese e che al vertice ci sia un personale politico, tecnico e amministrativo che si identifichi in quella visione, sappia tradurla in progetti e sia capace affrontare con successo la sfida della loro realizzazione.

  • Al bivio dell'inflazione

    Inevitabile però che, con la pubblicazione nel corso della mattinata dei dati sull’inflazione per l’Italia e per l’area dell’euro, le domande dei media per chi lasciava la Banca d’Italia si siano concentrate sull’andamento dei prezzi e sulle politiche economiche per contenerla o per contenerne gli effetti. Nel nostro paese, il tasso d’inflazione a 12 mesi (ossia l’aumento dei prezzi al consumo tra il maggio 2021 e il maggio 2022) è salito al 6,9 per cento, riprendendo il sentiero di crescita interrotto ad aprile dal taglio delle accise sui carburanti. Nel solo mese di maggio l’aumento dei prezzi è stato dello 0,9 per cento, il che significa una velocità annualizzata di oltre l’11 per cento. Ma la cosa forse più preoccupante è che l’aumento dei prezzi è stato alto anche al netto dei prezzi dei prodotti energetici e degli alimentati: la cosiddetta “core inflation” o inflazione di fondo, è balzata dal 2,4 per cento dei dodici mesi terminanti ad aprile al 3,3 per cento di maggio. Ora, si potrebbe sostenere che l’aumento dei prezzi delle materie prime, iniziato nel corso del 2021, è stato influenzato dal comportamento delle politiche di bilancio e fiscali di tutti i paesi del mondo, anche se, indubbiamente, altri fattori (compresi quelli di natura geopolitica) sono stati rilevanti. In uno dei suoi ultimi interventi pubblici Christine Lagarde, presidente della BCE, aveva già suggerito che la BCE avrebbe potuto rivedere la propria politica di tassi di interesse nel corso dell’estate. Guardando in avanti, è probabile che una maggiore selettività sia necessaria, anche perché l’aumento dei tassi di interesse nella zona euro, reso comunque necessario dall’elevata inflazione, colpirà in modo più intenso il bilancio di stati, come il nostro, che sono altamente indebitati.

  • Il miraggio del calo dei debiti

    Questo lascia esposta l’Italia al rischio che un evento sfavorevole causi una fuga degli investitori dal mercato dei nostri titoli di Stato. C’è un altro problema: queste previsioni assumono che dopo il 2024 il governo non confermi i tagli temporanei di imposte e contributi sociali inclusi nell’ultima legge di bilancio, che ammontano a 14 miliardi (lo 0,7 per cento del Pil). La cosa che ci ha aiutato molto a partire al 2015 è che una quota crescente del nostro debito è in mano alla BCE, o, meglio, alla Banca d’Italia che è parte del sistema delle banche centrali europee. Questo dà più stabilita al nostro debito rispetto a dieci anni fa. La brutta notizia è che questa quota si sta riducendo per la fine delle operazioni della BCE a sostegno al mercato dei titoli di Stato. L’altra cosa che aiuta è la leggera crescita nella quota di titoli di Stato detenuti dalle famiglie italiane che, si spera, sarebbero restie a venderli in periodi di tensione. La crisi del 2011 fu causata dal contagio della crisi greca, compresa la percezione che la ristrutturazione del debito pubblico fosse ormai cosa accettabile nell’area dell’euro, grazie anche alle improvvide dichiarazioni di Merkel e Sarkozy a Daeuville a fine 2010. Più probabile è che continueremo a pagare il nostro alto debito pubblico con uno spread più elevato, il che comunque assorbirà risorse utili per far crescere l’Italia.

  • Il Meccanismo europeo di stabilità

    Avendo adottato questa narrativa, è ovvio che il governo Meloni abbia difficoltà ad approvare la riforma, non nascondendo anche il proposito di utilizzare la propria approvazione come merce di scambio per ottenere migliori condizioni su altri dossier europei, a cominciare dalla riforma del Patto di Stabilità ora in discussione. Tale fenomeno era sostenuto dall’idea che l’incapacità di rispondere alla crisi e l’incremento dei tassi di interesse avrebbero alla fine spinto i Paesi al di fuori dell’aria monetaria al fine di recuperare competitività tramite una forte svalutazione della moneta nazionale. I mercati finanziari sono naturalmente in grado di anticipare questi effetti, creando le premesse, in presenza di uno shock improvviso, per una crisi di fiducia che può mettere in discussione la stessa capacità di sopravvivenza dell’Unione monetaria. Per evitare questi effetti e rafforzare la stabilità dell’area, un’alternativa è quella di costituire un Fondo, finanziato da tutti i Paesi appartenenti all’Unione, che in caso di difficoltà sia pronto a elargire prestiti a tassi di favore al Paese in questione. Il Mes è dunque una sorta di co-assicurazione tra i Paesi dell’area dell’euro, particolarmente a vantaggio di quelli finanziariamente più fragili e che garantisce, nel caso di un’improvvisa crisi di fiducia e della perdita di accesso ai mercati finanziari, che un Paese non verrà lasciato solo dai suoi partner. In dettaglio, il Mes viene istituito nel 2012 come un organismo permanente in sostituzione di due strumenti transitori di stabilizzazione finanziaria: il Meccanismo europeo di stabilizzazione finanziaria (Mesf) e il Fondo europeo di stabilità finanziaria (Fesf), introdotti nel 2010. La condizionalità varia a seconda della natura dello strumento utilizzato, configurandosi come un programma di aggiustamento macroeconomico nel caso dei prestiti, mentre è meno stringente nel caso delle linee di credito precauzionali destinate ai Paesi colpiti da shock avversi pur essendo in condizioni economiche e finanziarie sane.

  • Più spese e più evasione, conti pubblici a rischio

    L’inflazione, che erode i titoli di Stato, aiuta il rapporto tra debito e Pil. * * * Che succede ai nostri conti pubblici? Su questo giornale ieri Paolo Savona è tornato a segnalare l’elevatezza del nostro debito pubblico. In parte questo era previsto nel Documento di Economia e Finanza (Def) dello scorso aprile e non comporta necessariamente che l’obiettivo di deficit (4,5 per cento del Pil nel 2023) sarà mancato. Ci sono varie ragioni per cui il fabbisogno può essere più alto del deficit anche se il Def non è troppo trasparente su tali ragioni (chi vuole approfondire può leggere la nota “Conti pubblici a rischio?” pubblicata di recente sul sito dell’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani). Inoltre, il fabbisogno nella prima parte di quest’anno è ancora gonfiato dalla coda dei programmi di aiuto anti-caro bollette e dai crediti di imposta edilizi, cui è stato ora posto freno. Le entrate dello Stato non sembrano andare particolarmente bene, anche più di quanto possa essere spiegato proprio dall’andamento dei crediti di imposta edilizi, il che suggerisce un possibile aumento dell’evasione fiscale, soprattutto per l’IVA come notato qualche giorno fa da Federico Fubini. Occorre aggiungere che la spesa per interessi prevista per il 2023 appare molto bassa non solo rispetto al 2022 e al 2024, ma anche alle previsioni della legge di bilancio, cosa che ho fatto notare in un paio di miei interventi parlamentari, senza mai ricevere una chiara risposta. E i mercati finanziari, quelli cui in ultima analisi spetta il giudizio finale, visto che sono loro che comprano (anche ora molto più delle famiglie italiane) i nostri titoli di Stato? Preoccupa il fatto che la BCE non stia rinnovando tutti i titoli italiani in scadenza.

  • Il governo così è al capolinea, meglio andare al voto in autunno

    All’epoca sostenni anch’io che sarebbe stato auspicabile che il governo andasse avanti fino a primavera 2023 data la necessità di portare avanti importanti riforme. Ma, e questo è il secondo motivo, mi sembra che i partiti che sostengono il governo non stiano prestando la necessaria collaborazione. L’anomalia più evidente è il ruolo sproporzionato del Movimento 5 Stelle che, nei prossimi mesi, sarà sempre più propenso a muoversi per recuperare consensi, piuttosto che sostenere vere riforme. Certo, le circostanze sono cambiate: l’inflazione (che crea incertezza) è aumentata e il sostegno dato dalla BCE al mercato dei titoli di stato è sceso. Ma, a parte il fatto che anche in quest’area i partiti della coalizione hanno idee molto diverse, sembra ormai che il conflitto si stia (purtroppo) cronicizzando e che potremmo dover aspettare a lungo prima di vederne la conclusione. Ma questa regola, che fra l’altro è insensata perché un cittadino che cambia lavoro non perde i contributi versati nel lavoro precedente, potrebbe essere eliminata. Ribadisco: il governo sta facendo quello che può dati i vincoli di una coalizione che, già poco omogenea, appare sempre più disunita, con alcuni partiti che ormai sono intenzionati più a posizionarsi per le prossime elezioni che a sostenere il lavoro di Draghi.

  • Debito pubblico, macigno per l’Italia fra tre anni 100 punti più dei tedeschi

    Il primo è quello dei paesi che hanno portato il deficit nel 2020 a livelli ben superiori al 10 per cento del Pil. Sono quattro: Israele, Regno Unito, Giappone e Stati Uniti. Nel biennio, il FMI prevede un aumento del debito pubblico di 9 punti percentuali per la media di Finlandia, Germania e Olanda, contro 21 punti percentuali in media per Francia, Italia, Grecia e Spagna, che già partivano con un debito più alto. Cosa accadrà, per esempio, al debito pubblico italiano rispetto a quello tedesco? Il divario tra debito italiano e tedesco, già sui massimi storici nel 2019 (75 punti percentuali) raggiungerebbe i 92 punti percentuali nel 2024 (62 per cento per la Germania contro 154 per cento per l’Italia). Questa divaricazione tra paesi del Nord e paesi del Sud nell’andamento del debito pubblico renderà molto difficile trovare un accordo su come le regole del patto di stabilità dovranno essere modificate e su quando debbano rientrare in vigore. Ma il vero problema è che le enormi differenze nel livello di debito pubblico tra i paesi dell’area euro li rende diversamente vulnerabili a un aumento dei tassi di interesse causato da una futura impennata dell’inflazione media dell’area (l’obiettivo dell’azione della BCE). Se l’inflazione aumentasse, soprattutto nei paesi che, come la Germania, sembrano avviarsi verso un’uscita anticipata dalla crisi, questi paesi spingerebbero per un aumento dei tassi di interesse: non li preoccuperebbero gli effetti di tale aumento sul proprio debito pubblico, visto il suo modesto livello. È vero che l’aumento del debito pubblico nel biennio Covid è stato soprattutto nei confronti della BCE e, legalmente, delle banche nazionali (è la Banca d’Italia che compra il 90 per cento dei BTP acquistati dal sistema europeo delle banche centrali).

  • I margini sono stretti ma sarà dura fermare l’assalto alla diligenza

    La LdB si dovrà collocare entro il quadro definito dalla Nota di Aggiornamento al Documento di Economia e Finanza (NADEF) del settembre scorso. La NADEF dice anche che, senza nuove misure, il deficit sarebbe stato di 83 miliardi. Come saranno utilizzate? Lo doveva indicare il Documento Programmatico di Bilancio da inviare a Bruxelles venerdì scorso (in preparazione della LdB da mandare in Parlamento entro il 20 ottobre), ma ancora non è stato approvato. Verranno però rinnovate altre e più consistenti misure introdotte di recente: l’aumento delle spese sanitarie, gli incentivi all’efficientamento energetico (alias il prolungamento del superbonus al 110 per cento), il fondo di garanzia per le PMI e gli incentivi agli investimenti innovativi. La NADEF nomina la riforma degli ammortizzatori sociali, che di per sé dovrebbe costare parecchi miliardi, e “un primo stadio della riforma fiscale”, visto che il disegno di legge delega sul fisco, di recente approvato dal governo, ha tempi parecchi lunghi. Si spera che rientrino in questa categoria, oltre agli investimenti pubblici, anche spese per la pubblica istruzione, altrimenti mancanti e molto più rilevanti di tante delle spese sopra elencate. Cosa non dovrebbe stare nella LdB (ma probabilmente ci sarà)? La pletora di mini misure (l’assalto alla diligenza) che ha sempre caratterizzato le nostre leggi di bilancio nonostante la legge sul bilancio dello stato del 2009 ne proibisca l’inclusione.

  • La relazione fra debito pubblico e spread

    Negli ultimi mesi l’Italia è stata il Paese con il più alto spread sui titoli di Stato decennali (ovvero la differenza tra il tasso di interesse sui BTP decennali e il tasso sui corrispondenti Bund tedeschi) nell’area dell’euro (Fig. 1). Inoltre, il maggiore spread sul debito pubblico si trasmette anche ai debiti privati, in quanto una crisi del debito pubblico difficilmente lascerebbe indenni le prospettive di crescita del Paese, e quindi la stessa solvibilità del settore privato. Tra questi fattori, però, il livello del debito pubblico sembra essere dominante e per motivi ben chiari: al crescere del debito pubblico, a parità di altre condizioni, aumenta il rischio che un Paese, soprattutto in presenza di shock economici, non riesca a ripagare il debito che giunge a scadenza. Il livello di spread dei titoli di Stato decennali è infatti correlato positivamente con il livello di debito in percentuale al Pil del 2022 dei singoli Paesi (il coefficiente di correlazione è di 0,6). In particolare, l’Italia ha avuto negli ultimi mesi uno spread che sembrerebbe più alto di quello che è giustificato dal pur elevatissimo rapporto tra debito pubblico e Pil, collocandosi circa 60 punti base al di sopra della retta di regressione. Il fatto che il suo spread sia ora più basso di quello italiano viene talvolta attribuito alla più favorevole composizione del suo debito, costituito per circa tre quarti da debito nei confronti delle istituzioni europee (in primis il Mes) a seguito dell’operazione di salvataggio iniziata nel 2010. Fra l’altro la caduta dello spread per la Grecia rispetto a quello dell’Italia è abbastanza recente, il che conferma che altri fattori, piuttosto che la composizione del debito, abbiano contribuito al miglioramento nel posizionamento di questo Paese nella classifica degli spread.

  • E alla fine arriva la procedura di infrazione

    Una volta attivata, la procedura richiede che il Paese si impegni a correggere il disavanzo, adottando azioni significative entro sei mesi, ma con un percorso di aggiustamento che dura generalmente più anni, in media tra i 3 e i 5 anni, a seconda della gravità della violazione. L’evidenza empirica mostra come generalmente i mercati reagiscano peggiorando il merito di rischio del debito di un Paese messo sotto procedura, richiedendo cioè il pagamento di interessi più alti (un maggior spread) per acquistarne i titoli, rendendo dunque ancor più necessario il processo di aggiustamento. L’intreccio di nuove e vecchie regole Ma che significa in pratica la procedura di infrazione? La Commissione non ha ancora proposto al Consiglio (che deve approvarlo) il processo di aggiustamento che un Paese in procedura dovrà seguire per rientrare dal deficit. Proprio per aiutare i singoli stati nella formulazione del Piano, il 21 giugno la Commissione presenterà delle “traiettorie di riferimento” per l’evoluzione futura della spesa primaria “netta” (cioè, al netto degli interessi e di eventuali incrementi discrezionali delle entrate) che ciascun Paese dovrebbe seguire nei prossimi anni per conseguire l’obiettivo. Che potrà in parte discostarsi dalle traiettorie indicate sulla base di accordi presi durante un “dialogo tecnico” tra Paese e Commissione, purché le eventuali variazioni siano giustificate sul piano economico (per esempio, sulla base di stime di crescita futura diverse da quelle della Commissione). Tutto quello che si può dire con certezza per il momento è che la procedura di infrazione (per norma di legge) richiede un aggiustamento di “almeno lo 0,5 per cento del deficit strutturale” all’anno, cioè circa 10 miliardi per l’Italia. È dunque molto probabile che la Commissione introduca la correzione dovuta alla procedura di infrazione nelle traiettorie di riferimento proposte a ciascun Paese, lasciando al successivo dialogo tecnico bilaterale la definizione esatta del livello di aggiustamento previsto nei prossimi anni nell’ambito del Piano.

  • SSN, manca il dibattito su come spendere le risorse

    Aspetto sul quale tutti sono preoccupati”, afferma il docente di Scienza delle Finanze, secondo cui “non è discutendo se la spesa in termini reali, scontando l’inflazione, sia più o meno quella del passato che risolviamo i problemi”. “Posto che nessuno sarebbe contrario ad aumentare la spesa per la sanità pubblica, il tema è da dove si recuperano le risorse”, aggiunge “convinto che dovremmo attivare processi di revisione della spesa che ci consentano di spendere meglio”. Non è discutendo se la spesa in termini reali, scontando l’inflazione, sia più o meno quella del passato che risolviamo i problemi. Quello che mi sembra continui a mancare è il dibattito su cosa si vuole davvero fare con le risorse che abbiamo”. Vengono chieste più risorse per salvare il Servizio sanitario nazionale… La prima questione che viene posta è quella del sottofinanziamento al Ssn, al quale si prevede di destinare il 6,2% del Pil nel 2025, una percentuale inferiore a quella destinata alla sanità da altri Paesi europei come Francia e Germania. I medici di base accettano la sfida di essere i protagonisti della sanità territoriale e sono pronti a popolare le Case della comunità? Nell’appello si afferma che “l’autonomia differenziata rischia di ampliare il divario tra Nord e Sud d’Italia in termini di diritto alla salute”. Per come è stata disegnata nelle ultime versioni del decreto, rischi che il Paese si disgreghi sembrano non vedersene, alla luce del fatto che la partita finanziaria è fortemente influenzata dall’assenza di qualsiasi imposta a livello locale e i soldi continuerà a darli lo Stato centrale.

  • Carenza di medici di base in Italia: un confronto europeo e nazionale

    Inoltre, esistono notevoli differenze tra regioni: in quelle del Nord i medici di base hanno un carico di assistiti più elevato di quelle del Sud. Guardando in avanti, il numero di medici di base che andrà in pensione nei prossimi 7 anni eccede quello in entrata: pur considerando ulteriori 900 borse annuali per la formazione dei medici di medicina generale, dovremmo perdere tra i 9.200 e 12.400 medici di base dal 2022 al 2028. Contesto europeo Con 1.408 abitanti per medico di base nel 2019, l’Italia si attesta leggermente al di sotto della media europea (1.430), la quale però è influenzata negativamente da un alto valore di questo indice nei paesi dell’Est Europa. Il deficit di medici di base al Nord ha portato a richieste di maggior finanziamento per borse di studio per completare il percorso formativo dei medici di base e di anticipare la fine del corso di formazione per la specializzazione in medicina generale. Il dato differisce dal rapporto tra popolazione e numero di medici di base riportato nella sezione precedente perché i bambini residenti sono assistiti da pediatri e non dai medici di base e perché alcuni residenti potrebbero non aver scelto un medico di base. La stima del numero di nuovi medici di base ogni anno è ottenuta, ad esempio per il 2020, dalla moltiplicazione dei nati nel 1994 (che entreranno quindi nella professione medica nel 2020) per 0,14 per cento (il rapporto costante tra nuovi medici di base e nuovi nati). La stima del numero di medici di base in uscita è ottenuta dalla moltiplicazione, ad esempio sempre per il 2020, dalla moltiplicazione dei nati ne 1952 (che andranno in pensione all’età di 68 anni nel 2020) per 0,14 per cento Fonte dati: Ista, Miur, ALMALAUREA Un articolo di Luca Favero Download SCARICA IL PDF.

  • Quanti sono i soldi per la sanità?

    Il finanziamento per il Fondo sanitario nazionale standard Con la pubblicazione del Documento programmatico di bilancio e della legge di bilancio arrivano, puntuali, le prese di posizione sulla sanità, una materia che continua a essere politicamente rilevante. Siccome è politicamente rilevante, non sorprende che sull’argomento i politici continuino a litigare, sfruttando anche la grande confusione che si può fare con i numeri, tra finanziamento e spesa, tra allocazioni del Documento programmatico di bilancio e della legge di bilancio. La figura 1 rende chiaramente visibile il meccanismo di “accumulo” dei finanziamenti da un anno all’altro: la legge di bilancio per il 2024 aveva assegnato 136,4 miliardi di euro al Fondo del 2025, che rispetto ai 134,9 complessivi per il 2024 significa 1,5 miliardi in più. Lo stanziamento della legge di bilancio presentata dal governo per il 2025 è di 1,3 miliardi (più alto rispetto ai circa 900 milioni di euro che erano circolati nei giorni scorsi, calcolandoli sul Documento programmatico di bilancio), che porterebbero il totale a 137,7 miliardi di euro. Per avere contezza delle cifre, basti pensare che il finanziamento nel 2019, l’anno precedente il Covid, è stato di 114,4 miliardi di euro; la differenza con il 2024 è di 20 miliardi. Ristrutturare la rete dei servizi Il vero problema è però un altro e continua a rimanere inevaso nel dibattito politico, a destra come a sinistra: come spendiamo i 137,7 miliardi di euro del Fondo sanitario, che – almeno sulla carta – dovrebbero garantire i livelli essenziali di assistenza in tutte le regioni. Qualcuno ci sta pensando, sta valutando i reparti in base ai bacini di utenza come stabilito dal decreto? È da qui che si dovrebbe poi partire per una programmazione seria del personale e per tutte le scelte legate ai contratti e alla remunerazione di medici e di infermieri.

  • La spesa italiana per la difesa: quanto lontani siamo dal requisito del 2% del Pil

    Il disegno di legge di Bilancio per il 2025 prevede un aumento degli stanziamenti, ma l’Italia rimane lontana dall’obiettivo, con una spesa che è prevista salire dall’1,5% del Pil nel 2024 (con un divario rispetto al requisito di 11,2 miliardi) all’1,6% nel 2025-2027 (con un divario medio di 9,6 miliardi). Il disegno di legge di Bilancio 2025, in discussione in Parlamento, ha previsto un aumento degli stanziamenti per le spese di difesa, con l’obiettivo di avvicinarsi al requisito NATO di destinare il 2% del Pil a tali spese entro il 2028. Per arrivare alla definizione utilizzata dalla NATO per verificare il raggiungimento del sopracitato obiettivo del 2% del Pil, occorre da un lato sottrarre al bilancio del Ministero della Difesa le spese non relative alla funzione difesa e dall’altro aggiungere le spese per la difesa incluse nel bilancio di altri ministeri. La spesa per la difesa nella definizione NATO nel 2024 La spesa per la difesa dell’Italia nella definizione e nelle previsioni NATO è pari a 32 miliardi di euro nel 2024, ossia l’1,5% del Pil, ben al di sotto del requisito del 2%, nonostante l’aumento rispetto a dieci anni fa (Fig. 1). Le previsioni effettuate dal Ministero della Difesa nel Documento Programmatico Pluriennale per la Difesa 2024-2026 pubblicato nel giugno scorso indicava che, in assenza di interventi, la spesa nella definizione NATO sarebbe scesa leggermente, arrivando all’1,44% nel 2025 e 2026. La spesa NATO alla luce del disegno di legge di Bilancio 2025 Il Ministro della Difesa Guido Crosetto ha indicato che per effetto della Legge di Bilancio la spesa NATO salirebbe all’1,54% del Pil nel 2024, all’1,57% nel 2025, all’1,58% nel 2026 e all’1,61% nel 2027. Per il 2025 gli stanziamenti salgono, rispetto alla precedente Legge di Bilancio, da 28,9 miliardi a 31,3 miliardi (+2,4 miliardi); quelle per il 2026 salgono da 28,7 miliardi a 31,2 miliardi (+2,5 miliardi).

  • Le spese fiscali continuano ad aumentare

    Più di metà delle spese fiscali costa meno di 7 milioni di euro, a riprova del fatto che esiste un numero enorme di micro-interventi destinati a categorie ristrette. Questo utilizzo delle spese fiscali (1) causa una perdita di gettito prolungata nel tempo; (2) crea distorsioni e costi a carico dei contribuenti; (3) pro-capite, beneficia maggiormente i contribuenti più ricchi. Anche prima del Covid erano state presentate diverse proposte di riforma del fisco, spesso accomunate dall’intenzione di rimodulare alcune aliquote riducendo le spese fiscali (tax expenditures), cioè la lunga lista di deduzioni, detrazioni e regimi opzionali. Inoltre l’anno scorso, nonostante nel Rapporto programmatico in materia di spese fiscali il Governo dichiarasse “necessario procedere alla riduzione, semplificazione e riordino delle spese fiscali”, diversi ristori anti-crisi sono stati concepiti ed erogati sotto forma di spese fiscali, sia grandi (Superbonus 110%) sia piccole (bonus acqua potabile). Per queste ragioni la mediana del costo delle spese fiscali censite a fine 2020 è meno di 7 milioni di euro, a conferma del fatto che esiste un numero enorme di spese fiscali di minimo importo (Fig. 2). I problemi causati da questo utilizzo delle spese fiscali sono molteplici: L’effetto sui conti pubblici: a parte l’ovvia perdita di gettito, esiste anche un problema particolare per i crediti di imposta, che costituivano 66 delle 602 spese fiscali censite a fine 2020. Dato che è inverosimile che un contribuente che dichiara meno di 20 mila euro all’anno (categoria a cui appartiene il 58 per cento dei soggetti Irpef) sostenga spese ingenti in questo ambito, saranno i contribuenti i più ricchi a beneficiarne di più.

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