Le norme della legge di bilancio 2025 su banche e assicurazioni (articoli 3 e 11) non sono di facile comprensione. Per le banche, non tutti sanno cosa sono le DTA (deferred tax assets) su cui interviene l’articolo 3 e, diversamente dai precedenti casi modifica di tali imposte, l’intervento previsto dalla legge di bilancio avrà un costo complessivo non nullo e stimabile tra i 300 e i 350 milioni di euro. Per le assicurazioni, l’apparenza è quella di un anticipo di una piccola imposta (il bollo); la realtà è quella di una tassa abbastanza pesante, temporanea, ma con effetti che durano nel tempo.
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A. Le banche
La legge di bilancio per il 2025, all’articolo 3, interviene nuovamente sul regime di utilizzo delle imposte differite attive relative al settore bancario al fine di individuare ulteriori coperture per il fabbisogno del 2025.[1]
Nel seguito si spiega i) in cosa consistono le “imposte differite attive” (o “deferred tax assets” – DTA) iscritte nell’attivo del bilancio delle imprese, ii) perché le DTA hanno particolare rilievo nei bilanci bancari, e iii) quali sono gli effetti della misura introdotta in termini sia finanziari che economici.
Cosa sono le DTA
Le imposte differite attive derivano da una temporanea differenza tra la deducibilità di costi secondo le regole contabili e l’effettiva deducibilità consentita ai fini fiscali nell’anno di competenza. Tali discrepanze tra il trattamento contabile e quello fiscale si riscontrano comunemente nei bilanci delle imprese sia finanziarie che non finanziarie. Le tipologie più comuni di disallineamento possono riguardare per esempio gli ammortamenti o gli accantonamenti a fondi rischi e perdite la cui deducibilità quale costo di esercizio potrebbe non essere riconosciuta integralmente nell’esercizio di competenza dal punto di vista fiscale. Queste differenze, rinviando la deducibilità di una quota di costi dalla base imponibile, generano il diritto a una futura deduzione il cui beneficio correlato (risparmio di imposta) si materializzerà solo a fronte di imponibili capienti.
Perché le banche hanno un rilevante ammontare di DTA
Nel caso delle banche la rilevante entità delle DTA derivava dalle disposizioni del Testo Unico delle Imposte sui Redditi, il quale consentiva la deducibilità delle svalutazioni su crediti operate nell’esercizio nei limiti dello 0,3% del valore nominale complessivo dei crediti erogati. L’eccedenza rispetto a questo limite poteva essere recuperata in quote costanti secondo un “piano di ammortamento” il cui orizzonte temporale è variato nel tempo, arrivando anche a 18 anni. Solo con gli interventi normativi del 2015 (d.l. 83/2015) fu rimossa questa “discriminazione” cui restavano soggette le banche italiane rispetto a quelle europee. Tuttavia, rimaneva da smaltire l’enorme stock di DTA che le norme ante 2015 avevano generato. Peraltro, poiché le DTA non hanno un recupero certo, in quanto sono compensabili solo nei limiti in cui vi sia effettiva capienza fiscale negli esercizi successivi, questa posta dell’attivo non poteva essere pienamente computata ai fini dei requisiti di capitale, come disciplinati dalla regolamentazione prudenziale. Per superare questa ulteriore penalizzazione delle banche italiane fu consentita, al ricorrere di determinate condizioni, la trasformazione di queste poste in crediti di imposta (“deferred tax credit” – DTC) compensabili con i debiti fiscali liquidati via F24 e prevedendone anche il rimborso sempre al ricorrere di determinate condizioni. In questo modo si è assicurata la certezza del recupero di tali poste e quindi la computabilità ai fini dei coefficienti patrimoniali. Questo intervento fu oggetto di una complessa negoziazione con la Commissione europea che considerava questa misura alla stregua di un aiuto di Stato e la autorizzò solo a fronte dell’impegno che i) la norma prevedesse l’obbligo, per le banche che avessero voluto garantirsi questa convertibilità, del pagamento di un premio (canone di garanzia) e ii) l’ammontare residuo delle imposte differite attive convertibili fosse progressivamente smaltito entro il 2029 secondo una scalettatura predeterminata.
Ulteriori disallineamenti tra regole contabili e regole fiscali che hanno contribuito a incrementare l’ammontare di DTA nei bilanci bancari sono derivati dall’adozione, a partire dal 2018, del principio contabile internazionale “IFRS 9”. Questo principio ha introdotto una nuova modalità di contabilizzazione delle perdite su crediti, basata sul concetto di “perdita attesa” (“expected credit loss” – ECL), che prevede un approccio proattivo rispetto al vecchio modello basato sulle perdite già sostenute.
Gli effetti delle disposizioni della legge di bilancio 2025
Nel disegno di legge di bilancio, così come già fatto in passato, è previsto il differimento della possibilità di utilizzare in deduzione ai fini Ires e Irap le DTA rispetto all’originale piano di ammortamento. In particolare, le deduzioni previste per il 2025 e 2026 vengono differite agli anni successivi, fino al 2029. Il medesimo articolo poi, al comma 3, prevede la sospensione, per gli anni 2025 e 2026, della percentuale di deducibilità prevista, a legislazione vigente, per le DTA sorte in occasione degli affrancamenti fiscali degli avviamenti e di altri valori immateriali. In particolare, la quota del 2025 sarà recuperata in 4 quote costanti a partire dal 2026, mentre la quota del 2026 sarà recuperata in tre quote costanti a partire dal 2027.
Dalla disposizione in commento deriverà un maggior gettito per l’erario stimato in 2,5 miliardi nel 2025 e 1,5 miliardi nel 2026, che si tradurrà poi in minori entrate dal 2027 in avanti.
Le disposizioni della legge di bilancio, dunque, dreneranno liquidità dal settore bancario per importi corrispondenti al maggior gettito per le casse dello Stato. Minore liquidità per le banche in linea di principio significa anche minore disponibilità di risorse per erogare credito a imprese e famiglie, e dunque prima di essere introdotte dovrebbero essere valutate in termini di impatto sull’economia in generale. Nello specifico, comunque, si può ipotizzare che questa minore liquidità abbia un effetto sostanzialmente minimo o nullo sull’erogazione del credito tenuto anche conto della debole domanda di credito soprattutto nella componente dei nuovi investimenti.[2]
Sotto il profilo del costo per il settore, a differenza delle misure adottate in precedenza, questo non sarà nullo. Mentre le precedenti rimodulazioni del regime di utilizzo delle DTA si erano realizzate in un contesto di tassi d’interesse prossimi allo zero, l’intervento previsto dalla legge di bilancio 2025 si realizza in una fase di tassi tornati positivi. Conseguentemente la liquidità sottratta al settore per 2,5 miliardi nel 2025 e di 1,5 miliardi nel 2026 e recuperata progressivamente a partire dal 2027 e fino al 2029 avrà un costo complessivo stimabile tra i 300 e i 350 milioni di euro, pur considerando possibili ulteriori riduzione dei tassi da parte della BCE nel 2025 e nel 2026.
B. Le assicurazioni
L’articolo 11 del ddl Bilancio riguarda il trattamento fiscale delle polizze assicurative dei rami III e V. Tali polizze hanno una componente assicurativa molto limitata, connessa per esempio al caso di morte del soggetto assicurato, e un rendimento che dipende dallo strumento finanziario sottostante. Queste attività sono dunque più simili a strumenti di investimento che a prodotti assicurativi. E, infatti, con il decreto del Mef del 24 maggio 2012 esse sono state sottoposte un regime fiscale simile a quello degli altri prodotti finanziari, ma con una differenza circa la tempistica con la quale devono essere versate le imposte di bollo.
Si ricorda che con il decreto Salva Italia (d.l. 201 del 6 dicembre 2011) il governo Monti impose alcune imposte di tipo patrimoniale, quale l’IMU anche sulla prima casa, e l’imposta di bollo (oggi al 2 per mille) su tutte le attività finanziarie detenute dai residenti. La normativa attuale prevede dunque l’applicazione dell’imposta di bollo su conti correnti, titoli, strumenti e prodotti finanziari. L’imposta viene calcolata sul valore di tali attività così come rilevato dagli intermediari finanziari al termine dei periodi di rendicontazione.
Le polizze assicurative rappresentano un’eccezione perché il decreto Mef del 2012 ha disposto che le imposte annuali vadano accumulate nel tempo e versate dall’assicurato solo al momento della scadenza o del riscatto della polizza; l’imposta viene dunque posticipata e pagata in un’unica soluzione.
Cosa prevede la norma
L’articolo 11 del ddl bilancio 2025 prevede che le imposte annuali sulle polizze di tipo finanziario vadano versate ogni anno all’erario dall’intermediario finanziario. Riguardo alle polizze in essere, si prevede che le imposte accantonate e non ancora versate all’erario vengano versate per il 50% nel 2025, per il 20% rispettivamente nel 2026 e 2027, e per il 10% nel 2028.
A prima vista, tale misura appare equivalente a un anticipo di liquidità. Tuttavia, il passaggio previsto dalla norma da un regime fiscale all’altro implica un maggior onere che insiste direttamente sulle assicurazioni e non sugli assicurati, diversamente da ciò che accade per gli altri intermediari. La misura proposta rappresenta dunque una vera e propria tassa sulle società assicurative che non viene recuperata in futuro.
Perché si tratta di una tassa e non solo di un anticipo
Per comprendere meglio perché si tratta di una tassa, è utile partire dalle stime di gettito contenute nella Relazione Tecnica. La Ragioneria Generale dello Stato ha considerato il valore delle riserve matematiche relative alle polizze in questione al termine del 2023 (circa 257 miliardi di euro) e assunto che questo dato rimanga costante negli anni futuri, nonostante si osservi una crescita di tali attività nel tempo. Relativamente all’ammontare dell’imposta di bollo accantonata, la Ragioneria stima un importo di 1.883 milioni di euro, calcolato riproporzionando all’intero settore i dati relativi ad alcuni operatori. Sempre in base alle informazioni reperite dal settore, la Ragioneria stima un periodo medio di durata dei prodotti di circa 8 anni.
Sulla base di questi dati, la Ragioneria ha presentato le stime riportate nella Tav. 1.
Come si vede, nei primi quattro anni dal 2025 al 2028 vi è un maggior gettito che ammonta cumulativamente a 1,9 miliardi di euro, di cui solo 54,3 milioni provengono dalle imposte annuali sulle polizze attive che le assicurazioni verserebbero in quegli anni secondo il nuovo regime. La quasi totalità del maggiore gettito proviene, invece, dalle imposte arretrate (ossia 1,883 milioni) derivanti dalle polizze già stipulate di cui ora si chiede la liquidazione anticipata rispetto alla scadenza originaria fissata al momento del riscatto. Dal 2029 al 2033 si prevede un minor gettito per lo Stato per un totale di 138 milioni; l’effetto netto stimato della misura è dunque di 1,8 miliardi. Dal 2034 in poi, l’effetto è nullo.
La ragione per cui l’effetto finale non si limita a un’anticipazione di liquidità, ma determina una vera e propria tassa sta nel fatto che, secondo l’attuale formulazione dell’articolo 11, nella transizione fra il vecchio e il nuovo regime, le società assicurative devono versare le imposte accantonate sulle polizze in essere e, al tempo stesso, anticipare le imposte che gli assicurati dovranno pagare al momento del riscatto o della scadenza della polizza. Questa temporanea sovrapposizione di oneri fiscali grava unicamente sulle società assicurative anziché sui beneficiari, i quali continueranno a versare le imposte in un’unica soluzione alla data di scadenza della polizza. In tal modo le assicurazioni si troveranno a erogare un credito infruttifero a favore dei beneficiari che (tuttavia!) non giungerà mai a scadenza, il che significa che si tratta di una tassa.
Per chiarire ulteriormente, si consideri che l’imposta di bollo è stata concepita come un’imposta che grava non sugli intermediari, ma su chi detiene un’attività finanziaria. Nella maggioranza dei casi, le persone hanno un deposito titoli presso una banca che è collegato a un deposito in conto corrente. Ogni anno la banca calcola l’imposta di bollo che è pari al 2 per mille del totale delle attività finanziarie detenute, date dalla somma del deposito in conto corrente più il deposito titoli. La somma così calcolata viene messa a debito del correntista. In questo caso non c’è dubbio che l’imposta incide sul detentore dell’attività finanziaria e non sulla banca. Una polizza assicurativa di ramo III o V può essere assimilata a un fondo di investimento, salvo il fatto che deve avere una sia pur piccola variante in funzione del ciclo di vita dell’assicurato. Se si volesse equiparare il trattamento delle polizze di ramo III e V a quello degli altri prodotti finanziari, bisognerebbe consentire alle compagnie di ridurre del 2 per mille ogni anno il valore delle riserve matematiche a fronte di queste polizze, il che oggi non è consentito.[3] Questo è il motivo per cui il costo della norma incide sulle compagnie e non sugli investitori.
Il costo per le compagnie
La tassa ha carattere una tantum, con durata di quattro anni. Tuttavia, essa ha effetti sulle compagnie che durano nel tempo. Ciò per l’ovvio motivo che la tassa va finanziata, per esempio riducendo i dividendi o vendendo asset. Per quantificare questi costi si può partire dal valore annuo delle imposte di bollo, pari a circa 1,9 miliardi secondo la Ragioneria generale dello Stato o 2,5 miliardi di euro secondo le stime dell’ANIA. Assumendo che questo stock rimanga costante nel tempo, il costo annuo si ottiene moltiplicando lo stock per il costo del capitale, ossia il costo a cui si finanzia l’assicurazione. L’ANIA considera il costo del capitale azionario (8%), per cui il costo annuo sarebbe uguale a 200 milioni (2.500x8%). In valore attuale, assumendo un tasso di interesse (reale) del 2%, si ha un costo di 10 miliardi (=200/2%). Se invece si assume che l’assicurazione possa finanziare la tassa vendendo dei BOT o altri titoli a breve, si può calcolare un costo annuo di 50 milioni e un valore attuale di 2,5 miliardi. In ogni caso viene inciso il capitale dell’assicurazione, il che, in base alle norme di vigilanza (Solvency II), ne riduce la capacità di assumere rischi.
Si osservi che anche per lo Stato ci sono effetti permanenti, speculari a quelli osservati per le assicurazioni. Il provvedimento non modifica il deficit a regime, ma riduce il debito pubblico di un ammontare che è pari alla tassa nell’immediato e dipende dai costi dei successivi minori rifinanziamenti a regime.
[1] Per la redazione di questa nota ci si è avvalsi delle seguenti fonti: ddl bilancio 2025 e relativa Relazione Tecnica, audizioni di Banca d’Italia, ABI e ANIA sulla legge di bilancio, Dossier dei Servizi Studi di Camera e Senato.
[2] Al riguardo si veda la pubblicazione “Indagine sul credito bancario nell’area dell’euro: principali risultati per le banche italiane”, Banca d’Italia, luglio 2024.
[3] Si noti che se si facesse questa equiparazione non cambierebbe il gettito per lo Stato.