Anche quest’anno, il settore finanziario è oggetto di un coacervo di norme il cui unico scopo è quello di trovare coperture per la manovra di bilancio. Il problema è che norme improvvisate e prive di una logica di sistema producono evidenti effetti distorsivi. Il principale fra questi è che scoraggiano l’investimento negli intermediari finanziari italiani, indebolendone così la solidità finanziaria e la capacità di competere a livello internazionale. Ulteriori distorsioni emergono sia tra i settori colpiti e gli altri, sia all’interno dello stesso settore finanziario, poiché le diverse misure, prive di una logica unitaria, distorcono il costo opportunità di allocazione del capitale. Per esempio, l’aumento del costo della raccolta bancaria ha effetti sull’offerta di prestiti, la distribuzione forzata delle riserve accantonate indebolisce patrimonialmente le banche e potenzialmente restringe la capacità di erogazione, l’aumento dell’IRAP riduce la redditività netta rispetto ad altri settori e si riflette sulla capitalizzazione di borsa. Il tutto in un quadro che probabilmente è destinato a cambiare senza una logica apparente nei prossimi anni, il che allontanerebbe ulteriormente gli investitori dagli intermediari finanziari italiani.
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Per il terzo anno consecutivo il governo si propone di tassare il settore finanziario (banche, assicurazioni, SIM, SGR). Si tratta di un coacervo di norme, senza una strategia coerente che non sia quella di far cassa, che grava ulteriormente su uno dei non moltissimi settori in grado di competere ed espandersi a livello internazionale. Il caso delle misure sulle riserve è emblematico: nate come misura alternativa al prelievo sugli extraprofitti, ora devono essere, di fatto, distribuite – pagando un nuovo balzello – pena una tassazione fortemente penalizzante. Oppure l’innalzamento dell’IRAP di due punti percentuali per intermediari finanziari e compagnie assicurative, settori non solo già soggetti a una pressione fiscale superiore rispetto alla generalità delle imprese, ma anche caratterizzati da dinamiche reddituali profondamente eterogenee tra un operatore e l’altro. Le assicurazioni e le società di gestione del risparmio (SGR) subiscono l’aumento di tassazione pur non avendo registrato, negli ultimi anni, profitti particolarmente elevati. Dunque, si tratta di misure finalizzate al solo incremento del gettito che colpiscono i settori in modo arbitrario, senza una strategia organica né una reale valutazione delle conseguenze di breve e medio periodo — come l’aumento dell’incertezza normativa che scoraggia gli investimenti e l’incremento dei costi per la clientela. Altre norme prevedono, come già visto negli anni precedenti, anticipi di liquidità e tassazioni su dividendi e interessi passivi, guidate da pulsioni di natura che forse non è eccessivo definire populista e comunque piuttosto distante da una gestione saggia e accorta dei conti pubblici.
Appaiono evidenti gli effetti distorsivi delle misure. Effetti distorsivi sia tra i settori colpiti e gli altri, sia anche all’interno del settore finanziario stesso, poiché le diverse misure distorcono il costo opportunità di allocazione del capitale senza un coordinamento tra esse. Per esempio, l’aumento del costo della raccolta bancaria ha effetti sull’offerta di prestiti, la distribuzione forzata delle riserve accantonate indebolisce patrimonialmente le banche e potenzialmente potrebbe ridurre la capacita di erogazione, l’aumento dell’IRAP riduce la redditività netta rispetto ad altri settori e si riflette sulla capitalizzazione di borsa. Il tutto in un quadro che probabilmente è destinato a cambiare senza logica apparente nei prossimi anni.
Nel complesso, le misure previste genereranno un onere di circa 11,1 miliardi di euro per il settore bancario e assicurativo.[1]
La stessa cifra potrebbe essere messa a bilancio con misure meno distorsive: una seria spending review potrebbe essere un’alternativa. E se proprio non si ritiene di tagliare la spesa, sarebbe più efficace e meno distorsiva una piccolissima tassa generalizzata su tutte le imprese o società di capitali con profitti superiori a una certa soglia. Comprendiamo bene che una misura del genere sarebbe più esposta all’accusa di volere aumentare le tasse, ma questo è quello che accade comunque con l’attuale formulazione, anche perché è probabile che una buona parte dei maggiori costi vengano scaricati sulla clientela. La misura alternativa sarebbe meno distorsiva e ridurrebbe l’incertezza per gli investitori.
Di seguito illustriamo le principali misure presenti nel disegno di Legge di Bilancio e loro criticità, suddivise fra misure fiscali (che incidono sul conto economico o sulle riserve) e misure che rappresentano un’anticipazione finanziaria, ossia un prestito allo Stato a tasso zero.
Misure fiscali
- Tassazione sui dividendi. Questa norma riguarda tutte le società di capitali residenti che detengono partecipazioni in altre società, e genera un gettito complessivo nel triennio 2026-2028 rispettivamente di 0,7, 1 e 1,1 miliardi di euro. Essa stabilisce che i dividendi corrisposti dalle società partecipate (o “controllate”) alle società partecipanti (o “controllanti”) siano integralmente imponibili ai fini IRES se la partecipazione detenuta è inferiore al 10%;[2] fino a oggi invece, al fine di evitare una doppia tassazione dei dividendi, solo il 5% dei dividendi faceva parte dell’imponibile IRES. È veramente complicato comprendere le ragioni di questa misura, poiché discrimina fra investitori in base ad una soglia del tutto arbitraria, introducendo un regime di doppia tassazione. Questa norma penalizza gli investimenti significativi — spesso inferiori al 10% — nelle poche società italiane ad alta capitalizzazione, caratterizzate da politiche di distribuzione regolare degli utili agli azionisti. Inoltre, non è per niente scontato che ci sia un interesse della collettività ad avere partecipazioni più concentrate nelle società di capitali. Più concentrazione può significare minori costi di coordinamento e più efficienza, ma anche minore diversificazione del rischio e, quindi, maggiore esposizione finanziaria.
- Affrancamento delle riserve. Mentre la misura precedente era di carattere generale, l’articolo 20 riguarda esclusivamente il settore bancario e prevede un affrancamento di fatto obbligatorio delle riserve accantonate nel 2023, in sospensione di imposta, pari a circa 6,2 miliardi.[3] L’incasso per lo Stato è stimato in 1,7 miliardi nel 2026 ed è nullo negli anni successivi. In sostanza, il governo dopo aver offerto due anni fa la possibilità di evitare la cosiddetta “tassa sugli extraprofitti” tramite l’accantonamento a riserva in sospensione di imposta, ora di fatto obbliga le banche a affrancarle, principalmente attraverso la distribuzione di dividendi e, per giunta, a farlo in fretta. Gli accantonamenti del 2023 possono essere affrancati pagando un’imposta sostitutiva del 27,5% se versata nel 2026, oppure del 33% se versata nel 2027, a prescindere dall’effettivo utilizzo per pagamento del dividendo. Dal 2029, in mancanza di affrancamento, la norma presume che ogni dividendo sia prelevato prioritariamente da quella riserva che sconta l’aliquota del 40 per cento. L’opzione risulta quindi solo formalmente volontaria: o si affranca oggi a imposta ridotta, oppure si posticipa la distribuzione e si accetta il prelievo del 40 per cento. È piuttosto strano che il governo obblighi le banche a tassare obbligatoriamente delle riserve, indipendentemente dall’effettiva distribuzione, con una presunzione (solo fiscale) che si tratti di dividendi. Ed è altrettanto strano che il governo incentivi le banche a distribuire più dividendi, a scapito della loro solidità patrimoniale.
- Aumento dell’IRAP. Per il triennio 2026-2028 l’aliquota IRAP aumenta dal 4,65 al 6,65% per banche e altri intermediari finanziari (SGR e SIM) e dal 5,90 al 7,90% per le assicurazioni, con un maggior gettito stimato di 1,2 miliardi nel 2026 e 1,3 miliardi per ciascuno dei due anni successivi. L’intervento si innesta su un comparto già più gravato del resto dell’economia, poiché l’IRAP, che per la generalità dei settori è al 3,9%, è già al 4,65% per le banche e al 5,90% per le assicurazioni. Inoltre l’IRES, che per la generalità delle imprese è al 24%, è maggiorata di 3,5 punti per banche, assicurazioni e altri intermediari finanziari. Si tratta di un aggravio significativo e, soprattutto, indifferenziato in quanto prescinde dall’eterogeneità degli andamenti reddituali fra i diversi comparti anche fra le diverse banche: non tutte hanno fatto grandi profitti negli ultimi anni. L’aumento dei profitti recenti ha riguardato principalmente le banche (e neanche tutte), costituendo un recupero dopo anni di margini compressi da tassi di interesse nulli o negativi; dinamiche analoghe non si osservano per altri intermediari come le società di gestione del risparmio né per il settore assicurativo. L’innalzamento indistinto dell’IRAP finisce quindi per gravare anche su soggetti che non hanno beneficiato di margini particolarmente elevati, con effetti distributivi piuttosto discutibili.[4]
- Deducibilità degli interessi passivi. L’articolo 33 prevede una minore deducibilità degli interessi passivi, la vera “materia prima” per le banche, poiché rappresentano ciò che esse pagano per finanziarsi. La deducibilità scende al 96% nel 2026, poi 97% nel 2027, 98% nel 2028 e 99% nel 2029. Il gettito atteso è stimato in circa 500 milioni nel 2027 e 400 milioni nel 2028. Riducendo la deducibilità degli interessi passivi e, quindi, di fatto, alterando “artificialmente” i costi per le banche, il rischio è che gli istituti provino a recuperare margine traslando i costi sulla clientela, attraverso spread più alti, minori interessi sui depositi o maggiori commissioni.
Anticipazioni finanziarie
- Deducibilità delle svalutazioni dei crediti. L’articolo 19 limita la deducibilità di svalutazioni maturate su alcuni crediti detenuti dagli enti finanziari e creditizi.[5] In particolare, prevede che le svalutazioni sui crediti “meno rischiosi” vengano dedotte in 5 anni, anziché subito come avviene ora. Questo aumenta l’imponibile nell’anno di riferimento, rendendo il riconoscimento della svalutazione più costoso rispetto alle disposizioni attuali e incentivando comportamenti meno prudenti, come la riduzione degli accantonamenti.
- Rinvio DTA. L’articolo 22 rinvia parzialmente (rispetto al piano originale di ammortamento) la deducibilità di attività che hanno generato “imposte differite attive” (DTA, dall’inglese Deferred Tax Assets) dopo le riforme del 2015 (d.l. 83/2015) e del 2018 (IFRS 9). Le DTA nascono da differenze temporanee tra la deducibilità dei costi secondo le regole contabili e l’effettiva deducibilità consentita ai fini fiscali, e hanno costituito uno stock rilevante a bilancio delle banche a seguito delle riforme sopracitate. In particolare, prima delle modifiche del 2015, le svalutazioni e le perdite sui crediti venivano solitamente dedotte in quote costanti secondo “piani di ammortamento” pluriennali, fino a 18 anni.[6] La riforma del 2015 ha introdotto la deduzione integrale nell’esercizio di iscrizione a bilancio, allineando l’ordinamento agli standard europei e migliorando la competitività delle banche italiane, ma lasciando uno stock pre-2015 di DTA da riassorbire (circa 55 miliardi di euro). Una parte è stata convertita in crediti d’imposta, mentre per il residuo è stato previsto un progressivo smaltimento entro il 2029 secondo una scalettatura predeterminata.[7] Successivi interventi normativi e, da ultimo, quello nella Legge di Bilancio per il 2025 hanno sospeso e rinviato la deducibilità in alcuni anni, con lo scopo di aumentare il gettito. Il ddl bilancio 2026 prosegue su questa linea, riducendo la quota deducibile nel 2027, rinviando il recupero della differenza ad anni successivi. La misura aumenta le entrate di 1,8 miliardi di euro.[8] Tuttavia, la pratica dei rinvii aumenta il gettito nell’immediato, a fronte di minori entrate negli anni successivi, poiché, a normativa vigente, lo stock dovrà comunque essere riassorbito entro il 2029. Inoltre, non vi è alcuna compensazione per il costo opportunità della liquidità sottratta a causa dei rinvii.[9] Se la liquidità sottratta fosse investita in titoli di debito pubblico, l’investimento genererebbe ricavi per circa 800 milioni di euro entro il 2030, un costo che viene interamente sostenuto dal settore bancario e assicurativo, senza ricevere alcun compenso per ciò.[10]
- Altre misure. Per ultimi, gli articoli 31 e 32 introducono, rispettivamente, un limite alla deducibilità delle svalutazioni di alcune obbligazioni (l’eccedenza viene dedotta negli anni successivi), un rinvio della deducibilità degli oneri connessi ai piani di stock option e della cessione di azioni proprie. Inoltre viene previsto un più lungo ammortamento, e quindi una più diluita deducibilità fiscale, per avviamento e attività immateriali.
[1] Vedi “Comunicazione ABI” e “Comunicazione ANIA”.
[2] In altre parole, il cosiddetto “regime di esclusione” (o “dividend exemption”), che attualmente prevede solamente il 5% del dividendo imponibile ai fini IRES, verrà applicato esclusivamente per partecipazioni al capitale sociale pari o superiori al 10%.
[3] Le cosiddette “Riserve extraprofitti”, accantonate in seguito all’introduzione della “tassa sugli extraprofitti”. Nel primo anno non portò alcun gettito, poiché venne offerta alle banche la possibilità di evitarla accantonando una quota dei profitti al fine di incrementare il patrimonio. Vedi “DECRETO-LEGGE 10 agosto 2023, n. 104”, articolo 26.
[4] Nel caso delle banche, un’aliquota IRAP maggiorata è simile in spirito a quello che il dipartimento di finanza pubblica del FMI suggerì, nel 2010. Vedi “A fair and substantial contribution by the financial sector”, IMF. Il dipartimento suggeriva di aumentare le tasse sulle banche, poiché i servizi di intermediazione bancaria (cioè prendere a prestito dai risparmiatori per prestare a chi vuole investire) non sono soggetti all’imposta sul valore aggiunto, al contrario degli altri settori. Proponeva una tassa sulla somma di profitti e retribuzioni (approssimativamente uguali al valore aggiunto), simile ad un aumento dell’IRAP, anche se applicata a tutte le banche, almeno a livello europeo, in modo da non distorcere la competizione, contrariamente a quanto produrrebbe la disposizione nel ddl bilancio 2026.
[5] Le svalutazioni dei crediti “stage 1 e stage 2“, derivanti dall’applicazione del metodo delle “perdite attese” introdotto dal principio contabile internazionale IFRS 9. Questo principio, entrato in vigore nel 2018, prevede che le banche effettuino accantonamenti non solo per i crediti già deteriorati, ma anche per quelli che potrebbero deteriorarsi in futuro. La dimensione degli accantonamenti dipende dal profilo di rischio del credito, che si articola su tre livelli: “stage 1” (rischio basso), “stage 2” (rischio moderato), “stage 3” (rischio alto). Per approfondimenti vedi “IFRS 9”.
[6] Le disposizioni del Testo Unico delle Imposte sui Redditi consentivano la deducibilità delle svalutazioni su crediti operate nell’esercizio nei limiti dello 0,3% del valore nominale complessivo dei crediti erogati. L’eccedenza rispetto a questo limite veniva, come precisato nel testo, dedotta in quote costanti in un orizzonte temporale solitamente esteso. Ad esempio, se l’eccedenza era pari a 180 milioni di euro e il piano era decennale, potevano essere dedotti 18 milioni all’anno.
[7] La trasformazione di una quota di DTA in crediti d’imposta (DTC) fu introdotta perché le DTA, avendo recupero incerto — in quanto utilizzabili solo in presenza di capienza fiscale negli esercizi successivi — non erano pienamente computabili nei requisiti patrimoniali previsti dalla regolamentazione prudenziale. La conversione ha garantito la certezza di realizzo di tali poste e quindi la loro computabilità nei coefficienti di capitale. La misura fu oggetto di negoziazione con la Commissione europea, che la qualificò come aiuto di Stato e la autorizzò a condizione che: (i) le banche che optavano per la convertibilità pagassero un canone di garanzia; (ii) lo stock residuo di DTA convertibili fosse progressivamente smaltito entro il 2029 secondo una scalettatura predeterminata.
[8] Il gettito aumenta di 1,2 miliardi nel 2026 e di 0,4 miliardi nel 2027 se si considera anche la riduzione delle deduzioni ACE dal 54% al 45%.
[9] Il costo opportunità è il valore della migliore alternativa a cui si rinuncia quando si prende una decisione. Dal punto di vista delle banche, il costo opportunità della detenzione di liquidità solitamente corrisponde al rendimento ottenibile da impieghi alternativi a basso rischio, come l’investimento in titoli di Stato con elevato merito creditizio e scadenza coerente con l’orizzonte temporale di riferimento.
[10] Vedi “Comunicazione ABI”, 3 novembre 2025.