Negli ultimi vent’anni la spesa pubblica per l’istruzione è diminuita in Italia sia rispetto al Pil che rispetto alla spesa pubblica totale, ed è ora una delle più basse tra quelle dei Paesi avanzati. Lo stesso vale per la spesa per studente in rapporto al Pil pro capite e alla spesa pubblica totale pro capite: anche correggendo per il calo demografico, quindi, la spesa per istruzione è stata trascurata. Tuttavia, l’andamento della spesa per studente in rapporto al Pil pro capite varia in base al livello di istruzione. La spesa per studente per l’istruzione primaria è rimasta pressoché invariata rispetto al 2000, ed è tra le più alte tra i Paesi avanzati, mentre il confronto peggiora per l’istruzione secondaria e soprattutto per quella terziaria, in costante riduzione. Nel 2021, la spesa per ogni studente iscritto all’università o in altra istituzione terziaria era pari al 16% del reddito pro capite in Italia, contro il 30% della Germania, il 26% della Francia e il 24% della Spagna. Inoltre, al contrario di quanto accade negli altri Paesi, la spesa per studente diminuisce al crescere del livello di istruzione.
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La prima parte di questa nota discute la dinamica della spesa pubblica per l’istruzione in Italia, mentre la seconda presenta un confronto con gli altri Paesi avanzati, limitato al 2021.[1]
La dinamica della spesa pubblica per l’istruzione in Italia
In Italia, la spesa per tutti i livelli di istruzione (prescolastica, primaria, secondaria e terziaria) è scesa dal 4,1% del Pil nel 2000 al 3,5% nel 2023 (Fig. 1). Il calo è stato anche più marcato rispetto alla spesa pubblica totale, con una discesa dall’8,8% al 6,5%, accentuata negli ultimi tre anni al crescere della spesa totale gonfiata dai bonus edilizi (nel 2024 dovrebbe osservarsi un parziale recupero). In che misura, però, questa contrazione è dovuta al calo del numero degli studenti conseguente agli sviluppi demografici?
In realtà, anche correggendo per il calo demografico, appare che la spesa per l’istruzione sia stata trascurata nella lista delle priorità dei passati governi. La spesa per studente in rapporto al Pil pro capite è calata dal 23% nel 2000 a meno del 20% nel 2023 (Fig. 2, primo panel). La riduzione è stata anche più forte per la spesa per studente rispetto alla spesa pubblica totale pro capite, passata dal 49% al 37%, un calo di 12 punti percentuali (era comunque bassa, al 44%, nel 2019, prima dell’introduzione dei nuovi bonus edilizi; Fig. 3).[2]
Gli andamenti sono però diversi a seconda del livello di istruzione considerato. Rispetto al Pil pro capite, infatti, nel 2023 la spesa per studente per l’istruzione primaria è rimasta pressoché invariata rispetto al livello del 2000. C’è stato, invece, un calo per l’istruzione secondaria. La riduzione più significativa, però, riguarda la spesa per l’istruzione terziaria, passata dal 20% al 15% del Pil pro capite (Fig. 2, ultimo panel). Per quest’ultima il calo è dovuto non tanto a una riduzione degli stanziamenti in termini assoluti (rimasti più o meno costanti al netto dell’inflazione per tutto il periodo) quanto all’aumento del numero degli studenti universitari (Fig. 4, ultimo panel).
Il confronto con gli altri Paesi avanzati[3]
In quasi tutti i Paesi avanzati membri dell’OCSE la spesa pubblica per istruzione nel 2021 (ultimo anno per cui i dati sono disponibili) è stata più alta che in Italia, sia in rapporto al Pil che alla spesa pubblica totale, classifica per la quale siamo all’ultimo posto (Fig. 5). In confronto alla Germania e alla Francia, per esempio, l’Italia ha speso rispettivamente mezzo punto e un punto percentuale di Pil in meno.
L’Italia era ultima, insieme alla Francia, anche rispetto alla spesa per studente in rapporto alla spesa pubblica pro capite (Fig. 6), e si collocava sotto il valore mediano della classifica della spesa per studente rispetto al Pil pro capite, dietro a Francia, Spagna e Germania, anche se davanti al Regno Unito (Fig. 7, primo panel).
Tuttavia, la spesa per studente in rapporto al Pil pro capite varia in modo sostanziale in base al livello di istruzione considerato.
L’Italia era terza per la spesa per l’istruzione primaria, dietro a Corea del Sud e Norvegia, mentre scivolava nella classifica per quanto riguarda l’istruzione secondaria, pur mantenendo livelli paragonabili a quelli del Regno Unito e dei Paesi Bassi (Fig. 6, secondo e terzo panel). È quindi vero solo in parte il luogo comune per cui in Italia si spende meno che negli altri Paesi per l’istruzione pre-universitaria.[4]
Il confronto è impietoso, invece, per l’istruzione terziaria: l’Italia non solo è ultima tra gli Stati membri dell’UE e dell’OCSE, ma è anche molto distante dagli altri (Fig. 7, ultimo panel). Nel 2021 spendevamo per ogni studente il 16% del nostro reddito pro capite, contro il 30% della Germania, il 26% della Francia e il 24% della Spagna. In Danimarca, dove l’università è gratuita, la spesa per studente era il 32% del reddito pro capite, il doppio che in Italia.[5]
Ferma al 16% del Pil pro capite, la spesa per studente per l’istruzione terziaria è anche ben più bassa di quella corrispondente per l’istruzione primaria (26%) e secondaria (22%). Questo è inusuale: in Italia, la spesa per studente in rapporto al Pil pro capite diminuisce all’aumentare del livello di istruzione, mentre in altri Paesi OCSE avviene l’opposto.
In termini assoluti, l’Italia spendeva circa 7.200 euro per studente iscritto all’università o in altre istituzioni terziarie, cioè meno della metà della Germania (circa 16.300 euro), il 60% in meno della Francia (12.500 euro) e il 20% in meno della Spagna (10.500 euro). La posizione relativa dell’Italia non cambia per la spesa in rapporto al numero di residenti (invece del numero di studenti) nella fascia di età 20-24 anni (Fig. 8), cioè coloro che avrebbero una maggiore propensione a essere iscritti all’università.[6] Tuttavia, in questo caso le differenze si riducono e la distribuzione della spesa per Paese è più omogenea.
[1] I dati utilizzati sono tratti dal rapporto “Education at a Glance 2024” dell’OCSE. I dati forniti dall’Eurostat non corrispondono esattamente a quelli dell’OCSE, ma l’ordinamento relativo tra i vari paesi nei livelli di spesa rimane invariato. La definizione di spesa pubblica per istruzione utilizzata dall’OCSE include una componente core (stipendi degli insegnanti, costruzione e manutenzione degli edifici, libri e materiali, amministrazione), i servizi ancillari (mense, trasporti, residenze, assistenza sanitaria) e le spese per ricerca e sviluppo condotti in università o in altre istituzioni terziarie. Sono inclusi anche i finanziamenti pubblici a istituzioni di istruzione private. I dati italiani per il 2022 e il 2023 sono stimati applicando alla serie OCSE il tasso di variazione della spesa pubblica in istruzione in base alla classificazione Istat delle spese della PA per funzione (dataset), trasformata in termini reali con il deflatore del Pil (voce COFOG 09, leggermente più bassa in livelli rispetto al dato OCSE, ma con andamenti simili). Inoltre, ipotizziamo che la spesa per ciascun livello di istruzione subisca una variazione annua pari a quella della spesa pubblica per istruzione aggregata. Nei grafici riportati di seguito le linee tratteggiate indicano che i dati non sono disponibili per tutti gli anni, ma sono interpolati. Per precedenti note dell’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani sulla spesa pubblica per istruzione vedi: “La spesa per la pubblica istruzione”, 29 luglio 2019; “Le carenze della scuola italiana: il quadro secondo i dati OCSE”, 22 aprile 2021.
[2] I dati escludono la spesa prescolastica perché l’OCSE non fornisce il dato della spesa per studente per tutti i livelli di istruzione (da prescolastica a terziaria).
[3] In questa sezione i dati escludono la spesa per l’istruzione prescolastica, poiché per molti paesi questa informazione non è presente nella banca dati OCSE.
[4] Si parla di “luogo comune” in “Le risorse per la scuola: luoghi comuni e dati reali”, Fondazione Agnelli, 2022.
[5] Il dato molto basso del Regno Unito riflette la prevalenza di università private in quel Paese.
[6] La spesa per istruzione terziaria pro capite, espressa in rapporto al numero di residenti nella fascia di età 20-24 anni, non tiene conto di due fattori, cioè il numero di studenti stranieri iscritti nelle università di ciascun paese, e quello degli studenti iscritti con più di 24 anni.