I dati di luglio suggeriscono che gli Stati Uniti potrebbero registrare maggiori entrate fiscali dai dazi pari all’1% del Pil in ragione d’anno. Secondo l’amministrazione Trump, sarebbero i partner commerciali a pagare, il che dimostrerebbe il successo della svolta protezionistica. Tuttavia, gli studi sui dazi statunitensi, in particolare quelli imposti dalla precedente amministrazione Trump, contraddicono questa narrazione e rilevano che sono state le imprese e i consumatori americani a subire gli effetti di queste misure in termini di maggiori costi di importazione. La letteratura indica inoltre che i dazi, pur potendo generare modesti benefici per l’occupazione nei settori direttamente protetti, hanno un effetto netto negativo sull’occupazione complessiva.
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A luglio 2025 il Dipartimento del Tesoro americano ha incassato 27,6 miliardi di dollari dai dazi sulle importazioni. Considerando che a luglio 2024 la stessa voce (“Custom duties”) segnava 7,1 miliardi, i nuovi dazi dovrebbero tradursi, a livello annuale, in maggiori entrate fiscali pari ad almeno 246 miliardi.[1] Poiché non tutti i nuovi dazi, inclusi quelli verso l’Unione Europea, erano ancora entrati in vigore durante lo scorso luglio, il totale delle entrate è destinato a crescere ulteriormente. Se alla fine dell’anno il dato dovesse attestarsi attorno ai 300 miliardi di dollari, questi equivarrebbero, in ragione d’anno, a circa l’1% del Pil statunitense. Si tratta di una cifra significativa che è coerente con il fatto che le importazioni di merci sono circa il 10% del Pil americano e che la media ponderata dei nuovi dazi effettivamente pagati (al netto quindi di prodotti su cui vigono dazi proibitivi che tendono ad azzerare o a ridurre fortemente la domanda da parte dei consumatori americani) potrebbe attestarsi attorno al 10%.[2] L’impatto sui conti pubblici rimarrebbe però limitato in quanto il deficit pubblico è stato pari al 7,2% del Pil nel 2024. Inoltre il dato non considera le ripercussioni che avranno i dazi sul resto dell’economia in termini di crescita e occupazione. Questa nota valuta criticamente gli argomenti dell’Amministrazione americana secondo cui sono gli altri Paesi a pagare per le maggiori entrate fiscali dai dazi, passando in rassegna la recente letteratura sul tema, che documenta come siano per lo più gli americani a sopportare le conseguenze delle misure protezionistiche.
L’economia dei dazi
I dazi sono tasse sulle importazioni pagate dall’importatore all’ingresso delle merci nel territorio USA. Occorre tuttavia distinguere tra chi esegue materialmente il pagamento di una tassa e su chi questa ricade (ossia la questione della “incidenza” di una tassa). In linea di principio, è possibile che le imprese che esportano verso gli Stati Uniti reagiscano all’introduzione di un dazio abbassando il prezzo di vendita dei propri beni per rimanere competitive, e riducendo quindi i propri margini di profitto. In questo caso, il mancato guadagno delle imprese estere è ciò che viene trasferito al Tesoro americano, sebbene alla dogana il dazio venga pagato materialmente dall’impresa importatrice. Viceversa, ad esempio, è possibile che il bene importato non sia sostituibile (almeno nel breve periodo) e dunque che si continui a domandarne la medesima quantità nonostante i dazi. In tal caso l’impresa esportatrice non avrebbe alcuna necessità di abbassare il prezzo di vendita e sarebbero gli importatori americani a dover sopportare il maggior costo dovuto ai dazi, potendo scegliere di scaricarlo a valle sui prezzi al consumatore finale.
Formalmente, un dazio introduce una differenza tra il prezzo di un bene pagato al fornitore estero e quello effettivamente pagato dall’importatore (cd. duty-paid, cioè comprensivo dell’imposta alla dogana). Si consideri la seguente relazione:
dove Pimport è il prezzo pagato dall’importatore americano, Pexport è il prezzo corrisposto direttamente al fornitore estero e D è il dazio, espresso con un valore percentuale. L’equazione indica semplicemente che il prezzo pagato dall’importatore, Pimport, comprende sia ciò che viene trasferito al fornitore estero che il dazio versato al Tesoro. In assenza di dazi, cioè se D=0, il prezzo pagato dall’importatore americano coincide con quello ricevuto dall’esportatore. Ma, quando un dazio è in vigore, si introduce appunto una differenza fra il prezzo a cui il fornitore estero vende e quello a cui l’importatore americano compra. L’incidenza del dazio (cd. pass-through) è misurata dalle variazioni di Pimport e Pexport quando cambia D. Ad esempio, se una volta introdotto il dazio Pimport resta costante, allora per costruzione deve essere Pexport a diminuire proporzionalmente ed è quindi l’esportatore a sopportare il dazio, mentre gli acquirenti americani non osservano alcun cambiamento. Al contrario, è possibile che dopo l’introduzione di un dazio Pexport resti costante e aumenti Pimport determinando che il fornitore estero continui a vendere al medesimo prezzo e che gli importatori americani spendano di più a causa del dazio. Frequentemente si osserva una combinazione dei due casi, ossia che in presenza di un dazio entrambi i prezzi (Pimport e Pexport) variano, indicando che l’onere dei dazi ricade su entrambe le parti.
Chi fra le due debba sopportare maggiormente il dazio dipende essenzialmente da un bilanciamento fra le elasticità della domanda e dell’offerta del bene in questione. Dal lato della domanda americana, se i consumatori possono facilmente sostituire i beni colpiti con alternative domestiche o di altri Paesi, la domanda verso le importazioni tassate si riduce e il dazio grava maggiormente sui produttori esteri, che devono abbassare i loro prezzi (al netto dei dazi) per restare competitivi. Dal lato dell’offerta estera, se i produttori hanno mercati alternativi dove collocare i loro beni, non sono costretti a ridurre i prezzi verso gli USA: in questo caso il dazio si riflette soprattutto in un aumento dei prezzi per i consumatori americani.
L’effetto dei dazi sui prezzi
Le prove delle ricadute dei dazi sugli Stati Uniti sono robuste e condivise da gruppi di ricerca indipendenti che hanno impiegato dati, metodologie e orizzonti temporali diversi. Gli studi scientifici più accreditati si concentrano sugli effetti dei dazi americani introdotti nel 2018, durante la prima presidenza Trump, e sono sostanzialmente concordi a indicare un pass-through pressoché completo sugli Stati Uniti, distribuito poi tra importatori e consumatori finali.[3]
Il contributo più citato in quest’ambito, lo studio di Fajgelbaum, Goldberg, Kennedy e Khandelwal pubblicato sul Quarterly Journal of Economics nel 2020, indica che i dazi del 2018 si sono scaricati completamente sul prezzo di importazione e che dunque sono stati gli americani a pagare per le corrispondenti maggiori entrate fiscali.[4] Simmetricamente, i contro-dazi introdotti dagli altri Paesi in risposta a quelli americani si sarebbero scaricati prevalentemente sugli importatori di quei Paesi. La spiegazione più coerente con il risultato delle stime sarebbe una curva di offerta dei beni importati perfettamente elastica, indice del fatto che gli esportatori riescono a reindirizzare le proprie merci verso altri mercati, evitando dunque di dover abbassare i propri prezzi per restare competitivi nei Paesi che impongono loro dazi.[5] Questo risultato è coerente anche con l’elevata concorrenza e la grande dimensione del mercato americano, che porta le imprese a ridurre i propri margini di profitto per poter raggiungere il maggior numero di consumatori. Se le imprese che esportano negli Stati Uniti avessero avuto margini per ridurre il prezzo, e dunque per assorbire il dazio, questi sarebbero già stati utilizzati per battere la concorrenza e prevalere all’interno di un mercato molto grande.
Anche lo studio di Amiti, Redding e Weinstein (2019) trova prove di un pass-through pressoché completo sugli importatori americani, riorganizzazioni delle supply chain e incrementi dei prezzi di beni intermedi e finali. Esaminando dati dei primi 11 mesi del 2018, gli autori rilevano non solo un aumento dei prezzi dovuti ai dazi, come conseguenza meccanica dei maggiori costi di importazione, ma un aumento dei margini di profitto dei produttori per effetto di una diminuzione del grado di concorrenza nei mercati domestici.[6] Poiché i dazi rendono i beni importati più costosi, diventa possibile per i produttori domestici alzare i prezzi e ciononostante rimanere competitivi.
A distanza di un anno gli autori hanno ripetuto l’analisi includendo dati fino a ottobre 2019, trovando conferma dei risultati precedenti: l’incidenza dei dazi resta sugli Stati Uniti e accelera la riorganizzazione del commercio internazionale (indice dell’ampio intervallo di tempo con cui si manifestano pienamente gli effetti dei dazi).[7] Fa eccezione il settore dell’acciaio, all’interno del quale lo studio rileva una riduzione dei prezzi praticati dai produttori esteri, che devono quindi sopportare una parte significativa del dazio. Da un lato, questo fatto ha favorito le imprese americane che usano l’acciaio come bene intermedio; dall’altro, ciò ha mantenuto alta la domanda americana per l’acciaio estero, facendo crescere solo in misura minima la produzione domestica e quindi l’occupazione nel settore: uno degli obiettivi dichiarati al tempo dall’Amministrazione americana.[8]
Cavallo, Gopinath, Neiman e Tang (2021) trovano ulteriori conferme del pass-through completo ma, diversamente dagli studi precedenti, rilevano che, a distanza di un anno dall’introduzione dei dazi, sono stati i rivenditori americani ad assorbire il maggior costo di importazione lasciando quasi inalterati i prezzi “sullo scaffale”.[9] Considerando questa diversità nei risultati, non è ancora chiaro come i rincari dei prezzi “al porto” dovuti ai dazi si trasmettano a valle lungo la catena del valore. Rimane chiaro tuttavia che non sono le imprese estere a pagare il dazio.
Secondo un recente sondaggio della Fed di New York, circolato a maggio 2025, il 75% delle imprese USA raggiunte (sia nella manifattura che nei servizi) hanno trasmesso ai propri prezzi finali almeno una parte dell’incremento dei costi di produzione dovuti ai nuovi dazi americani. Il 25% delle imprese nella manifattura e il 45% di quelle dei servizi avrebbero invece trasmesso a valle l’intero incremento dei costi dovuto ai dazi.[10] Amiti, Itskhoki e Konings (2019), esaminando dati belgi del 2018, mostrano che un incremento dei costi di importazione dei beni intermedi si trasmette a valle nei successivi processi produttivi, con le imprese più piccole che tendono a trasmettere completamente il rincaro e quelle più grandi che tendono ad assorbirlo.[11] Lo studio fornisce inoltre ulteriori prove dell’effetto che un dazio può avere sopra un intero settore merceologico in termini di maggiori prezzi e non solo sui beni importati. Amiti, Heise e Kwicklis (2019), esaminando anch’essi l’impatto dei dazi USA del 2018, osservano incrementi nei costi di produzione e nei prezzi al consumo già entro un trimestre.[12]
L’effetto dei dazi sull’occupazione
Come noto, il discorso dell’Amministrazione americana sui dazi si fonda sull’idea che questi possano migliorare la bilancia commerciale degli Stati Uniti e così possano rilanciare il settore manifatturiero, che nel 2024 comprendeva l’8% degli occupati. Nella misura in cui i dazi riducono la domanda di beni importati e inducono una riorganizzazione delle catene di produzione globali, questi possono stimolare l’occupazione nei singoli settori protetti dalla concorrenza estera. Tuttavia, la maggioranza degli studi indica che, nonostante la possibilità di modesti benefici nei settori direttamente protetti dai dazi, l’effetto cumulato di 1) un aumento dei prezzi di beni intermedi e finali, e 2) l’introduzione di dazi di ritorsione da parte di altri Paesi tende a ridurre l’occupazione complessiva.
Lo studio di Flaaen e Pierce (2019) si concentra sugli effetti dei dazi americani sul settore manifatturiero nel periodo tra marzo 2018 e agosto 2019.[13] Oltre a documentare ricadute negative sui prezzi alla produzione, il paper esamina l’impatto sull’occupazione attraverso tre canali di trasmissione: 1) la protezione fornita dai dazi alle imprese manifatturiere domestiche che permetterebbe loro di guadagnare quote di mercato; 2) l’incremento dei costi di produzione causato dal rincaro dei beni intermedi colpiti dai dazi; 3) l’effetto dei contro-dazi introdotti dagli altri Paesi, che svantaggerebbero l’export delle imprese statunitensi. Gli autori trovano che, nei settori più esposti, i maggiori costi di produzione e i contro-dazi sovrastano i modesti benefici in termini di protezione dai concorrenti stranieri. In termini di esposizione dei settori ai tre effetti, uno spostamento dal 25° percentile al 75° percentile più esposto è associato ad una riduzione dell’occupazione dell’1,4% e a un aumento dei costi alla produzione del 4,1%. Nella stessa direzione, i dati preliminari del citato sondaggio della Fed di New York dello scorso maggio riportano una lieve riduzione degli occupati in risposta ai recenti incrementi dei dazi, sia tra le imprese manifatturiere che nei servizi.[14]
Flaaen, Hortaçsu e Tintelnot (2020), concentrandosi sui dazi americani del 2018 imposti sulle lavatrici, mettono in relazione gli effetti sui prezzi e gli effetti sull’occupazione. Confrontando l’andamento dei prezzi delle lavatrici con quello di altri elettrodomestici non soggetti a dazi, prima e dopo l’introduzione dei dazi, gli autori osservano un repentino incremento del prezzo delle prime rispetto ai secondi. Secondo i calcoli degli autori, prescindendo dalle conseguenze negative che i dazi hanno a livello aggregato, tra i soli grandi produttori di lavatrici ogni nuovo posto di lavoro creato come conseguenza dei dazi sarebbe costato 815mila dollari in termini di maggiori costi per i consumatori americani.[15]
Javorick, Stapleton, Kett e O’Kane (2022) studiano l’impatto dei dazi del 2018 sul numero di annunci di lavoro pubblicati online negli Stati Uniti nello stesso anno.[16] Anche qui, gli autori esaminano l’effetto dei dazi attraverso tre canali di trasmissione: 1) la protezione ai produttori domestici; 2) l’incremento dei costi dei beni intermedi; 3) l’esposizione degli esportatori USA ai contro-dazi del resto del mondo. I risultati indicano che i dazi sui beni intermedi e i dazi di ritorsione (canali 2 e 3) mostrano un’elevata correlazione con la riduzione degli annunci di lavoro, specie per quelli inerenti a lavori meno qualificati, mentre gli effetti positivi della protezione per i produttori domestici di beni finali (canale 1) non appaiono statisticamente significativi. Secondo le stime, l’effetto combinato dei dazi e delle ritorsioni avrebbe portato a una riduzione di 175mila annunci nel 2018, lo 0,6% del totale, causata per due terzi dai dazi sui beni intermedi e per la restante parte dai dazi di ritorsione.
Lo studio di Autor, Beck, Dorn e Hanson (2024) mostra come i dazi americani non hanno avuto alcun effetto sull’occupazione delle aree più protette dalla concorrenza estera. I dazi stranieri, al contrario, avrebbero avuto chiari effetti negativi, in particolare sull’agricoltura.[17]
Guardando anche al resto del mondo e a un orizzonte temporale più esteso, lo studio di Furceri, Hannan, Ostry e Rose (2018) stima gli effetti macroeconomici dell’incremento dei dazi su diversi indicatori del Paese che li impone, esaminando dati annuali per 151 Paesi dal 1963 al 2014.[18] I risultati indicano che i dazi, nei cinque anni successivi alla loro imposizione, si associano a un calo della produzione e della produttività, a un peggioramento della bilancia commerciale e ad aumenti della disoccupazione e della disuguaglianza all’interno del Paese.
In conclusione, sebbene resti possibile discutere in che misura il rincaro dei beni causato dai dazi si trasmetta all’interno di un’industria e in che misura si scarichi sui prezzi al consumo, l’attuale evidenza empirica è chiara: gli Stati Uniti subiscono la maggior parte delle ricadute sui prezzi delle misure protezionistiche.
Quanto all’occupazione, i possibili benefici nei settori direttamente protetti dai dazi tendono ad essere sovrastati dalle perdite di occupati nel resto dell’economia.
Bibliografia
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- Javorcik, B. K. S., Stapleton, K., Kett, B., & O’Kane, L. (2022). Did the 2018 trade war improve job opportunities for US workers?. European Bank for Reconstruction and Development.
[1] Si vedano i rapporti “Monthly Treasury Statement” pubblicati dal Tesoro americano per i mesi di luglio 2024 e luglio 2025 al seguente link.
[2] In un’analisi fatta il 7 agosto scorso, prima della pubblicazione del dato sul gettito di luglio, il Yale Budget Lab stima per il 2025 dazi aggiuntivi al 16,2% e al 15,3% tenendo conto delle reazioni dei consumatori. Se fosse corretta questa analisi, gli effetti dei dazi sul gettito sarebbe maggiori, nell’ordine dell’1,5% del Pil.
[3] La guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina si è svolta attraverso una serie di ondate di dazi doganali tra il 2018 e il 2019. Nel gennaio 2020, i due Paesi hanno sottoscritto l'accordo “Phase One” per allentare le tensioni commerciali, ma i dazi sono rimasti in vigore fino alla fine del 2021. Per una discussione completa si veda Bown, C. P., Kolb, M. (2021). Trump’s trade war timeline: an up-to-date guide. Peterson Institute for International Economy, Oct. 21, reperibile al seguente link; e Bown, C. P. (2021). The US-China trade war and Phase One agreement. Journal of Policy Modeling. 43(4), pp. 805–43.
[4] Fajgelbaum, P. D., Goldberg, P. K., Kennedy, P. J., & Khandelwal, A. K. (2020). The return to protectionism. The quarterly journal of economics, 135(1), 1-55.
[5] Per una discussione sulle possibili spiegazioni di questo risultato si veda Fajgelbaum, P. D., Khandelwal, A. K. (2022). The Economic Impacts of the US-China Trade War. Annual Review of Economics, 14:205-28, pp. 214 e ss.
[6] Amiti, M., Redding, S. J., & Weinstein, D. E. (2019). The impact of the 2018 tariffs on prices and welfare. Journal of Economic perspectives, 33(4), 187-210.
[7] Amiti, M., Redding, S. J., & Weinstein, D. E. (2020, May). Who’s paying for the US tariffs? A longer-term perspective. In AEA Papers and Proceedings (Vol. 110, pp. 541-546). 2014 Broadway, Suite 305, Nashville, TN 37203: American Economic Association.
[8] Tra il terzo trimestre 2017 e il terzo trimestre 2019 la produzione statunitense di acciaio è cresciuta del 2% all’anno a fronte di dazi sulle importazioni al 25%.
[9] Cavallo, A., Gopinath, G., Neiman, B., & Tang, J. (2021). Tariff pass-through at the border and at the store: Evidence from us trade policy. American Economic Review: Insights, 3(1), 19-34.
[10] Abel, Jaison R., Richard Deitz, Sebastian Heise, Ben Hyman, e Nick Montalbano. “Are Businesses Absorbing the Tariffs or Passing Them On to Their Customers?” Liberty Street Economics, 4 June 2025. Federal Reserve Bank of New York, reperibile a questo link.
[11] Amiti, M., Itskhoki, O., and Konings, J. (2019). International shocks, variable markups, and domestic prices. The Review of Economic Studies, 86(6), 2356-2402.
[12] Amiti, M., Heise, S., and Kwicklis, N., “The Impact of Import Tariffs on U.S. Domestic Prices,” Federal Reserve Bank of New York Liberty Street Economics (blog), January 4, 2019, reperibile a questo link.
[13] Flaaen, A., & Pierce, J. (2019). “Disentangling the Effects of the 2018-2019 Tariffs on a Globally Connected U.S. Manufacturing Sector,” Finance and Economics Discussion Series 2019-086. Washington: Board of Governors of the Federal Reserve System, reperibile al seguente link.
[14] Abel et al., Op. cit.
[15] Flaaen, A., Hortaçsu, A., & Tintelnot, F. (2020). The production relocation and price effects of US trade policy: the case of washing machines. American Economic Review, 110(7), 2103-2127.
[16] Javorcik, B. K. S., Stapleton, K., Kett, B., & O’Kane, L. (2022). Did the 2018 trade war improve job opportunities for US workers?. European Bank for Reconstruction and Development.
[17] Autor, D., Beck, A., Dorn, D., & Hanson, G. H. (2024). Help for the heartland? the employment and electoral effects of the trump tariffs in the United States (No. w32082). National Bureau of Economic Research.
[18] Furceri, D., Hannan, S. A., Ostry, J. D., & Rose, A. K. (2018). Macroeconomic consequences of tariffs (No. w25402). National Bureau of Economic Research.