6 - Crescita economica e politica di bilancio

17 ottobre 2019

6 - Crescita economica e politica di bilancio

Condividi su:

6. Crescita economica e politica di bilancio

La relazione tra crescita economica e politica di bilancio è alquanto complessa, ma di fondamentale importanza per le decisioni di politica economica. È complessa perché il rapporto tra le due è di influenza reciproca: le scelte di politica fiscale influenzano la crescita nel breve e nel lungo termine e allo stesso tempo la crescita è una delle variabili chiave che determinano l’andamento dei saldi di bilancio e del debito pubblico. Questo capitolo fornisce una serie di concetti utili per comprendere le principali variabili che determinano il rapporto tra crescita e conti pubblici. In particolare, si focalizza su tre punti:

  1. Si definisce il concetto di moltiplicatore fiscale, una nozione chiave per comprendere gli effetti delle politiche di bilancio sul livello dell’attività economica.
  2. Si espongono le potenziali implicazioni che questo ha sulla crescita economica. Si descrive inoltre come gli stimoli di natura fiscale possano servire a attenuare le crisi economiche nel breve periodo, ma come tuttavia questi possano essere pregiudizievoli per la crescita nel lungo termine.
  3. Si forniscono alcuni esempi di come il bilancio pubblico possa essere utilizzato per rafforzare il potenziale di crescita dell’economia.

6.1 Il concetto di moltiplicatore

Un concetto importante per capire come le scelte di bilancio influiscano sul livello dell’attività economica è quello del moltiplicatore. Intuitivamente, esso definisce l’intensità con cui il reddito, ovvero il Pil, reagisce agli stimoli di politica fiscale. Più precisamente, ci dice in che misura 1 euro aggiuntivo di spesa pubblica si traduce in un aumento di Pil. Di seguito si riporta una formulazione aritmetica[1] semplificata per spiegare e chiarire meglio il concetto:

Senza entrare nel troppo nel dettaglio, l’equazione ci dice semplicemente che la variazione del Pil (∆Y) indotta da un euro aggiuntivo di spesa pubblica (∆G) dipende da due principali fattori: la propensione da parte delle persone a spendere un euro aggiuntivo di reddito (c), corretta però per l’effetto che la tassazione induce sul reddito disponibile (t). Maggiore è la propensione alla spesa, maggiori saranno gli effetti sul Pil. Il livello della tassazione (t) riduce l’entità del moltiplicatore perché aumenta la quota di reddito che ritorna allo Stato e dunque esce dal circuito dell’economia.

Consideriamo un esempio numerico. Supponiamo che c (la propensione al consumo) si uguale a 0,8; ciò significa che un aumento di un euro del reddito disponibile si traduce in 0,8 euro di spesa aggiuntiva. La restante parte (0,2) viene devoluta a risparmio. Supponiamo anche che t (la quota di reddito che viene tassata) sia uguale a 0,4 (che corrisponde più o meno alla pressione fiscale in Italia). Facendo i conti, si ottiene che ∆Y/∆G=1,92. Ciò significa che un euro di spesa pubblica aggiuntiva determina un aumento del Pil di 1,92 euro. Il fatto che questo numero sia maggiore di 1 (sotto le ipotesi fatte) giustifica il termine “moltiplicatore” con cui viene definita la formula che lo genera.

Rimane, tuttavia, da capire come mai un euro di spesa aggiuntiva abbia, almeno in linea teorica, un effetto moltiplicatore sul reddito. Per fissare le idee si supponga che l’iniziale aumento di G sia rappresentato da un acquisto di mobili per ufficio da parte di un ministero per il valore di 1.000 euro; i mobili siano forniti dall’azienda A. Questo acquisto mette in moto una maggiore produzione (o una riduzione di scorte che dovranno poi essere rimpiazzate con maggiore produzione) nell’azienda A e rappresenta di per sé un aumento di 1.000 euro del Pil della nazione. Una parte di questi 1.000 euro, diciamo 400 euro, finiscono in maggiori tasse; la restante parte (600 euro) diventa reddito disponibile di qualcuno, lavoratori e/o proprietari dell’azienda. Costoro possono decidere di spenderne una parte; seguendo l’esempio sopra, diciamo che la propensione alla spesa è 80 per cento. Ecco dunque che, “al secondo giro”, la domanda di beni si accresce di altri 480 euro che vanno anch’essi ad aggiungersi al Pil della nazione. Proseguendo il ragionamento, la parte non tassata dei 480 euro aggiuntivi, viene spesa per l’80 per cento e, “al terzo giro”, il Pil aumenta di altri 230 euro. Si può verificare facilmente che, ad ogni giro successivo, il Pil continua ad aumentare fino a che, date le ipotesi, esso raggiunge, asintoticamente, i 1.920 euro pervisti dalla formula del moltiplicatore.

Come questo esempio suggerisce, la dimensione del moltiplicatore dipende dal fattore tempo: verosimilmente, in un mese il moltiplicatore è minore che in anno. Oltre un certo tempo, il moltiplicatore cessa di crescere e anzi, secondo alcune versioni della teoria, tende a decrescere.

6.2 I conti pubblici e il potenziale di crescita dell’economia

Il concetto del moltiplicatore del reddito è molto potente, ma ha anche molti limiti di cui occorre essere consapevoli.

Un primo limite è che esso presuppone che nell’economia vi siano risorse (capitale e lavoro) inutilizzate. Se così non fosse la maggiore spesa pubblica non si tradurrebbe in maggiore produzione, bensì in prezzi più alti e/o in spiazzamento di spesa privata. Tipicamente la componente della spesa che viene spiazzata è quella degli investimenti privati, perché un eccesso di domanda aggregata rispetto al potenziale produttivo dell’economia tende a far aumentare i tassi di interesse reali che sono una determinante importante degli investimenti. Ecco dunque una situazione in cui l’aumento della spesa pubblica ha l’effetto di deprimere la crescita dell’economia, perché gli investimenti sono il motore della crescita. Molto spesso, lo spiazzamento degli investimenti privati avviene prima che l’economia raggiunga letteralmente il limite fisico del potenziale, perché le autorità monetarie tipicamente intervengono con aumenti dei tassi d’interesse per evitare un surriscaldamento dell’economia che potrebbe generare inflazione.

Il ragionamento cambia se la spesa pubblica che si vuole aumentare è spesa per investimenti. In questo caso, gli investimenti privati continuerebbero ad essere spiazzati, ma a favore non di spesa corrente, ma di investimenti pubblici. A volte questo può essere un esito desiderabile, perché una comunità può ritenere che vi sia una grave carenza di capitale pubblico (infrastrutture, scuole moderne, messa in sicurezza del territorio, ecc.). Ma in generale l’effetto netto sulla crescita dipende dalla produttività relativa degli investimenti pubblici rispetto a quelli privati. Se questi ultimi sono più produttivi, è probabile che l’effetto netto sulla crescita sia negativo.

Un secondo limite del moltiplicatore, spesso non compreso dai politici, è che una maggiore spesa pubblica può sostenere il livello del reddito nel breve periodo, ma tipicamente non fa nulla per rafforzare il potenziale di crescita dell’economia. Quest’ultimo non dipende dalla spesa pubblica (specie se è spesa corrente), ma da fattori di fondo come lo sviluppo tecnologico, la capacità degli imprenditori di organizzare al meglio i fattori della produzione, l’efficienza della pubblica amministrazione, della giustizia e del sistema scolastico.

Da questo punto di vista, l’aumento della spesa pubblica può addirittura essere un freno perché tende ad accrescere il deficit e dunque il debito pubblico. Questo è quello che è successo in Italia fra gli anni settanta e ottanta: la spesa pubblica è aumentata di molti punti di Pil e, malgrado l’aumento che pure si realizzò in quel periodo della pressione fiscale, il debito pubblico esplose dal 37 per cento del Pil all’inizio degli anni settanta a quasi 95 per cento nel 1990.

Vi sono molti motivi per cui un debito pubblico elevato può essere un freno alla crescita, ma uno è particolarmente importante. Quando il debito è elevato e crescente nel tempo, i mercati possono iniziare a dubitare che lo Stato sarà in grado di far fronte alle proprie obbligazioni. Si teme dunque che vi sia un default o una ristrutturazione del debito oppure ancora una imposta patrimoniale di grandi dimensioni. Ognuna di queste eventualità rappresenta una forma di esproprio dei privati da parte dello Stato ed avrebbe l’effetto di deprimere la domanda interna e dunque il reddito e il prodotto. In sostanza, gli imprenditori, nazionali o esteri, preferiscono stare lontano da un paese con un debito pubblico che è ritenuto insostenibile. Anche le famiglie cambiano le proprie abitudini di consumo se temono un default o una patrimoniale e tendono a ridurre la spesa e accumulare risparmio nel timore di guai futuri.

È importante notare che il giudizio sulla sostenibilità di un debito pubblico elevato dipende anche dalle politiche che vengono seguite dal governo. Se il governo appare determinato a ridurre la spesa e portare il bilancio in equilibrio, i mercati possono ritenere che il debito sia sostenibile. Al contrario, un governo che punti ad aumentare il deficit, specie se lo fa per aumentare la spesa corrente, può indurre i mercati a ritenere che il debito sia insostenibile.

Abbiamo detto sopra che questi effetti negativi della spesa pubblica sono spesso incompresi da parte della politica. Ciò può essere in gran parte spiegato dal fatto che il consenso elettorale lo si accresce più facilmente aumentando la spesa pubblica che facendo politiche di responsabilità fiscale. Ma trova una sua giustificazione in teorie pseudo scientifiche secondo cui l’aumento della spesa pubblica avrebbe diversi effetti miracolosi.

Un primo effetto miracoloso, di cui si sente spesso parlare, è che la spesa pubblica potrebbe autofinanziarsi, nel senso che, in presenza di valori molto elevati del moltiplicatore, produrrebbe un tale aumento del Pil e delle entrate fiscali da riportare in equilibrio il bilancio pubblico. Da molto tempo gli economisti hanno dimostrato che questo non può avvenire, se non in circostanze del tutto eccezionali.[2]

Utilizzando la formula di prima, le entrate fiscali aggiuntive (∆T ) sono pari a:

Il primo termine ci dice di quanto aumenta il Pil in seguito ad un aumento della spesa pubblica; questo viene poi moltiplicato per il livello di tassazione vigente (t). Il risultato è l’introito fiscale legato allo stimolo.

Affinché il bilancio pubblico torni in equilibrio dopo un iniziale aumento della spesa pubblica occorre che questa formula sia uguale a 1, ossia che le entrate fiscali aumentino almeno nella stessa misura dell’aumento della spesa pubblica. Si vede immediatamente che ciò richiede che c sia uguale ad 1 (ossia tutto il reddito viene speso) oppure che t sia uguale ad 1 (ossia tutto il reddito viene tassato). Entrambe sono condizioni assurde e non hanno alcuna possibilità di realizzarsi in pratica.

La conclusione è che il governo potrà decidere se aumentare la spesa pubblica per stimolare i consumi, a discapito del deficit, oppure aumentare la tassazione per risanare il bilancio, a discapito di un potenziale minor livello di consumi, ma difficilmente riuscirà ad ottenere entrambe le cose. Questa conclusione non è limitata al modello semplificato che qui abbiamo utilizzato; essa rimane valida anche utilizzando modelli econometrici molto più sofisticati.  

Un secondo effetto miracoloso della spesa pubblica è quello che si realizzerebbe attraverso un aumento del “denominatore” (ossia il Pil) e che sarebbe talmente forte da portare ad una riduzione del rapporto debito/Pil. L’idea è che se il moltiplicatore è sufficientemente grande, l’aumento percentuale del Pil è maggiore dell’aumento percentuale del debito generato dal maggior deficit. Anche questa è un’idea sbagliata, nel senso che può essere valida solo in circostanze del tutto eccezionali. Dopo uno o due anni dall’avvio del programma di spesa è possibile che il Pil aumenti più del debito, il che comporta una riduzione del rapporto debito/Pil. Alla lunga però, il maggior deficit genera continuamente un aumento del debito che prima o poi è destinato a sopravanzare l’aumento del Pil generato dalla maggiore spesa pubblica. Il deficit è come un rubinetto aperto che butta acqua in un contenitore senza vie di fuga. Prima o poi l’acqua riempirà il contenitore e inonderà l’ambiente esterno.

Da queste considerazioni non si può trare la conclusione che lo stimolo fiscale sia sempre controproducente. In alcuni casi è utile e necessario. Ad esempio, vi è un sostanziale consenso che fra gli economisti nel ritenere che una politica di bilancio fortemente espansiva fosse necessaria durante la grande recessione innescata nel 2008 dalla crisi dei mutui subprime. Si ritiene che, in assenza di tali politiche, la recessione sarebbe stata molto più grave e avrebbe reso molto più lenta e difficile la ripresa negli anni successivi. Una politica di stimolo fu infatti attuata in quasi tutti i paesi del mondo, compresa la Germania che tipicamente è poco propensa utilizzare la politica di bilancio per finalità di sostegno dell’economia. Molto poco fu fatto invece in Italia perché il governo di allora, o meglio il suo ministro dell’economia riteneva che una politica di espansione fiscale avrebbe peggiorato la condizione del debito pubblico e reso ancora più fragile l’Italia nei mercati finanziari. I fatti del 2011, con l’aumento dello spread BTP-BUND sino quasi a 600 punti basi, dimostrarono quanto fosse in effetti fragile il nostro paese.

In conclusione, un debito pubblico troppo elevato è pregiudizievole per la crescita, perché rende fragile il paese sui mercati finanziari internazionali e perché comporta aumenti della tassazione che possono diventare insostenibili. Ma, in alcuni casi, una politica fiscale di sostegno può servire nel breve termine per far fronte ad un ciclo economico negativo.

6.3 Politiche di bilancio che aiutano la crescita

Fino ad ora, abbiamo preso in considerazione politiche di bilancio espansive basate sulla spesa pubblica. Il ragionamento può essere in parte diverso se si considerano politiche basate sulla riduzione delle tasse, perché la riduzione delle tasse può avere effetti virtuosi sul potenziale di crescita dell’economia. Ad esempio, un’impresa multinazionale preferirà investire in un paese a bassa tassazione sulle imprese, il che comporta maggiori investimenti e spesso effetti positivi tramite il trasferimento di tecnologie e di know-how organizzativo. Una bassa tassazione sul costo del lavoro per le imprese ha un effetto positivo sulle assunzioni e può quindi ridurre la disoccupazione con effetti positivi sulla formazione del capitale umano. Analogamente, una bassa tassazione sui redditi da lavoro può indurre le persone a cercare più attivamente un lavoro, un effetto che può essere particolarmente importante in un paese come l’Italia che ha tassi di partecipazione al mercato del lavoro molto bassi e un tasso di occupazione (occupati su popolazione in età di lavoro) pari solo al 56 per cento.

Tuttavia, le considerazioni di fondo del paragrafo precedente si applicano anche al caso di politiche di sostegno attuate con la riduzione delle tasse. In particolare, non è sensato aspettarsi che una riduzione delle tasse faccia aumentare il Pil e quindi il gettito al punto tale da riportare il bilancio in equilibrio. E occorre evitare che eccesive riduzioni delle tasse facciano aumentare il debito pubblico. Nei primi anni ottanta, l’amministrazione Reagan attuò una forte riduzione delle tasse fidando sull’effetto della “curva di Laffer”, dal nome di uno dei principali consulenti del Presidente. La teoria della curva di Laffer sostiene che all’aumentare delle aliquote fiscali il gettito aumenti fino a un certo punto e poi diminuisca. L’idea è che aliquote marginali troppo alte scoraggino il lavoro e dunque riducano il Pil e alla fine il gettito fiscale. In astratto la teoria può essere considerata valida, essendo evidente che aliquote vicine al 100 per cento (come in effetti erano le aliquote sulle persone fisiche negli Stati Uniti fino agli anni settanta) scoraggiano gli sforzi lavorativi e la voglia di rischiare. In pratica, per valori normali delle aliquote, la curva del gettito è crescente. La riduzione fiscale attuata dall’amministrazione Reagan ebbe probabilmente effetti positivi sulla crescita dell’economia, ma produsse un aumento molto forte, di circa 20 punti, del debito pubblico, nonché del debito estero degli Stati Uniti.

Per paesi come l’Italia che hanno un elevato debito pubblico, la sfida consiste nel trovare dei modi per ridurre gradualmente il deficit, evitando il rischio di cadere in recessione, e al tempo stesso migliorare il potenziale di crescita dell’economia. Per questo, si parla di “growth friendly fiscal consolidation”, ossia consolidamento di bilancio che aiuti la crescita.

Ad esempio, traslare parzialmente la tassazione da un sistema di imposte dirette ad uno di imposte indirette, può fornire ulteriori incentivi alla partecipazione al mercato del lavoro e quindi impattare positivamente la crescita. Il Fondo Monetario Internazionale[3] (FMI) stima che in Italia un minor cuneo fiscale (es. diminuzione Irpef) di 1,5 punti percentuali di Pil, compensato da un equivalente aumento dell’Iva, impatterebbe positivamente sul prodotto interno lordo.

Un’altra misura suggerita dal FMI prevede un taglio della spesa pubblica per trasferimenti sociali volta a fare spazio per maggiori investimenti.

Secondo il FMI, l’insieme di questi provvedimenti (taglio dei trasferimenti sociali pari a 1,25 punti di Pil a favore di maggiori investimenti per 0,5 per cento di Pil e riduzione del deficit di 0,75 per cento, insieme alla riduzione del cuneo fiscale sopracitata) potrebbe innalzare il potenziale di crescita dell’economia italiana fino al 2 per cento annuo.

 

[1] Disponibile a link: www.imf.org/en/Publications/WP/Issues/2018/03/16/Italy-Toward-a-Growth-Friendly-Fiscal-Reform-45737

[2] Samuelson, P. A. (1940), “The theory of pump-priming re-examined”, The American Economic Review, 492-506. Per una trattazione più dettagliata ed esaustiva, si faccia riferimento a: “Codogno, L. & Galli, G. (2017), Can fiscal discipline be counterproductive?, Economia italiana” in particolar modo alle pp. 15-23.

[3] Si tenga presente che la seguente formulazione è estremamente semplificata e sovrastima l’entità del moltiplicatore. In realtà vi sono molti altri fattori che potenzialmente deprimono il cosiddetto “effetto moltiplicatore”, quali gli scambi commerciali con l’estero, il tasso di cambio o lo stato della congiuntura economica. Per una trattazione più approfondita si veda: www.imf.org/external/pubs/ft/tnm/2014/tnm1404.pdf

Condividi su:

Newsletter

Vuoi essere aggiornato
sui temi più importanti
di economia e conti pubblici?