L’elezione diretta dà a sindaci e presidenti di regione un forte potere politico: un vincolo al numero dei mandati è consigliabile, anche se limita il diritto dei cittadini a votare il candidato preferito. E per i piccoli comuni la legge è già cambiata.
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Perché il vincolo
Sulla durata dei mandati per sindaci e presidenti di regione si sta consumando una dura battaglia politica. Dopo un lungo tira e molla, il governo ha definitivamente approvato il d.l. 7/2024 che, tra altre misure in tema di elezioni, elimina il vincolo al numero di mandati consecutivi per i sindaci dei comuni sotto i 5 mila abitanti e lo innalza da due a tre per quelli dei comuni da 5 mila a 15 mila abitanti. Viene invece confermato, per il momento, il vincolo dei due mandati per i sindaci dei comuni più grandi e per i presidenti di regione, per lo meno per quanto riguarda la legge quadro nazionale.
Ma perché c’è il vincolo? Se i cittadini sono contenti del loro attuale rappresentante politico perché non dovrebbero poterlo votare all’infinito? Il punto è che l’elezione diretta fornisce ai capi di governo locale un forte potere politico, soprattutto in Italia dove all’elezione diretta del sindaco o del presidente della regione si accompagnano anche sistemi elettorali maggioritari tesi a garantire alle figure apicali anche la maggioranza nella relativa assemblea legislativa, il consiglio comunale o regionale.
Per esempio, fino al 1993, cioè fino all’approvazione della legge 81 sull’elezione diretta di sindaci, per i comuni non era previsto alcun vincolo di mandato, come del resto non ne è attualmente previsto alcuno per i parlamentari nazionali o regionali. Ma prima della riforma i cittadini eleggevano solo i consiglieri comunali, esprimendo preferenze all’interno di un sistema di ripartizione dei seggi di tipo proporzionale. Durante la prima seduta, il nuovo consiglio nominava sindaco uno dei consiglieri, senza tuttavia che le preferenze espresse dai cittadini ne vincolassero la scelta, almeno da un punto di vista legale. In altre parole, poteva benissimo accadere che il candidato che aveva ricevuto più preferenze all’interno della lista più votata non venisse eletto sindaco. Del resto, il consiglio poteva anche cambiarlo nel corso della legislatura: se un sindaco veniva sfiduciato oppure si dimetteva per altre ragioni, il consiglio poteva tranquillamente trovare un’alternativa al proprio interno. Dal 1993 questo non può più accadere: il consiglio può ancora sfiduciare il sindaco, ma in quel caso anche il consiglio è dimissionario e si devono tenere nuove elezioni (simul stabant, simul cadent). L’effetto, come desiderato dal legislatore, è stata una forte crescita della stabilità dei governi locali; pochissimi comuni ora finiscono la legislatura prima del loro termine naturale, come invece succedeva abbastanza di frequente prima dell’approvazione della legge 81.
Il rafforzamento del ruolo del sindaco, introdotto non a caso in un momento in cui anche a livello nazionale ci si preparava a passare all’elezione diretta di buona parte dei parlamentari (con il cosiddetto Mattarellum, approvato con le leggi 276 e 277 del 1993), rispondeva a esigenze di governabilità e di responsabilizzazione delle forze politiche. Invece di perdere tempo a contrattare con la propria maggioranza, il sindaco, oltretutto del tutto autonomo nella scelta dei componenti della giunta (che possono anche essere esterni al consiglio), avrebbe potuto dedicarsi ad attuare la propria agenda politica, utilizzando anche i maggiori strumenti tributari (a cominciare dall’Ici) e amministrativi che venivano nel frattempo introdotti. L’elezione diretta, cioè la necessità di proporre candidati che incontrassero il favore dell’elettorato, avrebbe anche costretto le forze politiche a privilegiare la competenza più che la fedeltà al partito, un aspetto che sembra confermato dai risultati di numerosi studi empirici che hanno analizzato le caratteristiche dei sindaci prima e dopo la riforma del 1993.
Ma è proprio come correttivo ai maggiori poteri attribuiti ai sindaci che il legislatore originario ha pensato bene di imporre il vincolo dei due mandati. Tra l’altro, dopo l’allungamento della legislatura a cinque anni nel 1999 (art. 7 legge 120/1999) dai quattro originariamente previsti, un sindaco può rimanere in carica per dieci anni di seguito, un tempo certamente non breve. In altri termini si è pensato che una permanenza ancora superiore avrebbe potuto condurre a una sclerotizzazione della politica locale, con il rischio del prodursi di forme corruttive, per la possibile connivenza tra figure politiche ed esponenti dell’economia locale.
Del resto, è pratica diffusa nelle democrazie avanzate che a sistemi di tipo presidenziale si accompagnino limiti di mandato, sia per i politici locali che per quelli nazionali. È quasi d’obbligo il riferimento allo storico XXII emendamento alla Costituzione americana (del 1951) che ha introdotto il vincolo dei due mandati per il presidente degli Stati Uniti. Certo, un sindaco o un presidente di regione italiano non hanno i poteri del presidente degli Stati Uniti e si può sempre discutere sull’opportunità di limiti di mandato nel loro caso, ma non c’è dubbio che i vincoli abbiano una loro razionalità. Da questo punto di vista, è anzi da salutare con favore il fatto che l’attuale maggioranza di governo abbia riconosciuto l’esistenza del problema, introducendo, nell’ultima versione della proposta di premierato, un vincolo di mandato per il presidente del consiglio eletto.
Il numero dei mandati
Una prima ragione per rivedere il vincolo dei mandati per i sindaci potrebbe essere quella di eliminare il ciclo politico elettorale che molti studi, in Italia e all’estero, hanno mostrato essere particolarmente rilevanti al termine del primo mandato (con i sindaci che aumentano le spese o riducono le tasse prima delle elezioni). Ma per eliminare quest’effetto bisognerebbe togliere ogni vincolo sui mandati, semplicemente aggiungerne un altro non modificherebbe gli incentivi prima delle elezioni. E, d’altro canto, si potrebbe al contrario argomentare che, proprio perché non soggetti a un vincolo elettorale, nell’ultimo mandato i sindaci sarebbero più liberi di attuare la propria agenda.
Una seconda ragione è la difficoltà a trovare candidati disponibili, soprattutto nei comuni più piccoli. E, in effetti, il vincolo dei due mandati consecutivi ha riguardato tutti i sindaci solo dal 1993 al 2014 (con un’unica eccezione introdotta nel 1999, quando venne prevista la possibilità di un terzo mandato consecutivo nel caso uno dei due precedenti avesse avuto durata inferiore a due anni, sei mesi e un giorno e che la causa fosse stata diversa dalle dimissioni volontarie del sindaco). Dal 2015 (legge Delrio, n. 56/2014) si è data ai sindaci dei comuni con popolazione inferiore a 3 mila abitanti la possibilità di svolgere tre mandati consecutivi (soglia poi aumentata a 5 mila abitanti nel 2022), una scelta probabilmente sensata in un paese dove i comuni con popolazione inferiore ai 5 mila abitanti sono circa l’80 per cento del totale. Ora, con il d.l. 7/2024 la soglia per i tre mandati è stata portata addirittura a 15 mila abitanti e si è abolito ogni vincolo per i sindaci dei comuni più piccoli. Parrebbe più che sufficiente.
Un dibattito poco costruttivo
Le notizie di questi giorni spingono a pensare, tuttavia, che la questione non sia affatto chiusa. Purtroppo, più che originato da ragioni pratiche (la difficoltà di trovare candidati nei comuni più piccoli) o ideali (i cittadini devono aver il diritto di votare chi vogliono) sembra che il dibattito sia orientato a sistemare i rapporti di forza all’interno della maggioranza di governo o a risolvere questioni occupazionali. Nel governo, il partito di maggioranza relativa, Fratelli d’Italia, intende capitalizzare il suo successo elettorale anche a livello di regioni, mentre la Lega (che in fase di conversione ha presentato un emendamento al d.l. 7/2024 proprio per estendere l’eliminazione del vincolo a tutti i sindaci e ai presidenti di regione) cerca di mantenere le posizioni acquisite in passato, ottenendo di poter ripresentare i propri presidenti in scadenza, a cominciare da quello del Veneto, Luca Zaia. Nell’opposizione, invece, è il Partito democratico a essere in maggiore difficoltà, diviso al suo interno tra la posizione ufficiale della segreteria, favorevole ai limiti, e quella dei suoi sindaci, molti dei quali in scadenza, che al contrario sono propensi alla loro abolizione. Ancora una volta, un dibattito che potrebbe essere interessante e utile per il paese rischia di ridursi alle solite schermaglie in vista delle prossime scadenze elettorali.
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