Il fabbisogno sale di 46 miliardi per rispondere alle promesse elettorali. L’inflazione, che erode i titoli di Stato, aiuta il rapporto tra debito e Pil.
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Che succede ai nostri conti pubblici? Su questo giornale ieri Paolo Savona è tornato a segnalare l’elevatezza del nostro debito pubblico. Pochi giorni prima il Ministro Giorgetti aveva sottolineato che il ritardo nell’arrivo delle quote del PNRR complica la gestione del debito. E, soprattutto, il fabbisogno dello Stato (cioè, grosso modo, quanto lo Stato sta prendendo a prestito quest’anno) è in forte crescita rispetto al 2022. Quanto seri sono questo problemi? Ci sono luci e ombre.
Il fabbisogno nei primi cinque mesi dell’anno è di 46 miliardi più alto di quello dell’anno scorso. In parte questo era previsto nel Documento di Economia e Finanza (Def) dello scorso aprile e non comporta necessariamente che l’obiettivo di deficit (4,5 per cento del Pil nel 2023) sarà mancato. Ci sono varie ragioni per cui il fabbisogno può essere più alto del deficit anche se il Def non è troppo trasparente su tali ragioni (chi vuole approfondire può leggere la nota “Conti pubblici a rischio?” pubblicata di recente sul sito dell’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani). Inoltre, il fabbisogno nella prima parte di quest’anno è ancora gonfiato dalla coda dei programmi di aiuto anti-caro bollette e dai crediti di imposta edilizi, cui è stato ora posto freno. Però ci sono anche altre cose che preoccupano. Le entrate dello Stato non sembrano andare particolarmente bene, anche più di quanto possa essere spiegato proprio dall’andamento dei crediti di imposta edilizi, il che suggerisce un possibile aumento dell’evasione fiscale, soprattutto per l’IVA come notato qualche giorno fa da Federico Fubini. Occorre aggiungere che la spesa per interessi prevista per il 2023 appare molto bassa non solo rispetto al 2022 e al 2024, ma anche alle previsioni della legge di bilancio, cosa che ho fatto notare in un paio di miei interventi parlamentari, senza mai ricevere una chiara risposta.
Ciò detto, ci sono cose che stanno aiutando i conti pubblici. La crescita del Pil sarà probabilmente un po’ più alta di quanto previsto dal Def. Forse anche l’inflazione. Quest’ultima, in ogni caso, è una manna dal cielo per i conti pubblici perché i titoli di Stato in circolazione sono erosi dall’aumento dei prezzi. Se non ci fosse inflazione nel 2023 e nel 2024 la discesa del rapporto tra debito pubblico e Pil sarebbe quasi nulla. Questo, però, in prospettiva, preoccupa: col previsto calo dell’inflazione (vedi quadro programmatico del Def) il rapporto tra debito e Pil non riesce a scendere sotto il 140 per cento.
C’è poi una serie di fattori che, sempre in prospettiva, peseranno sui conti pubblici. Nel 2022-2023 la spesa, in primis quella sanitaria, è stata compressa, in termini di capacità di acquisto, dall’impennata dei prezzi, il peggior taglio lineare da tempo. La legge di bilancio per il 2024 dovrà pur tenerne conto. Come dovrà tener conto della necessità di rinnovare i tagli temporanei del cuneo fiscale introdotti nel 2022-2023, dei nuovi tagli di tasse che si sono promessi (compresi quelli legati alla legge delega sul fisco), di altri interventi temporanei che sarà politicamente difficile non rinnovare (come la “carta acquisti”) e di varie promesse elettorali, tra le quali spicca il superamento della legge Fornero.
Inoltre, dal prossimo anno saranno riattivate le regole europee sui conti pubblici. Attenzione, però: le nuove regole saranno molto meno stringenti di quelle vecchie e, in questo clima di persistente benevolenza della Commissione europea con la quale il governo Meloni ha avuto il merito di tenere ottimi rapporti, mi sembra difficile che la Commissione sia troppo severa in un anno di elezioni europee e di rinnovo (o riconferma) dei vertici della Commissione stessa.
E i mercati finanziari, quelli cui in ultima analisi spetta il giudizio finale, visto che sono loro che comprano (anche ora molto più delle famiglie italiane) i nostri titoli di Stato? Preoccupa il fatto che la BCE non stia rinnovando tutti i titoli italiani in scadenza. Ma lo sta facendo a un ritmo molto lento. Di questo passo (vediamo cosa sarà deciso nella riunione di fine luglio) la detenzione di titoli italiani da parte della BCE, ora intorno al 25 per cento del totale emesso, tornerebbe ai valori del 2019 solo fra 12 anni.
Insomma ci sono rischi ma non è una situazione drammatica. C’è però un dato incontrovertibile. Saranno le colpe del passato o i poteri forti internazionali, ma lo spread italiano (ossia il maggior costo del debito rispetto a quello tedesco) è da un paio di mesi il più alto dell’area dell’euro sulla scadenza decennale. Indebitarci ci costa 170 punti base (cioè un punto e sette) in più dei tedeschi e – udite, udite – 50 punti base in più della Grecia. Un destino baro e crudele che il governo però non può ignorare.
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