Si costruiscono poche nuove case in Italia. Il numero di nuove abitazioni su 100 vendute è sceso dalla ventina un decennio fa a meno di dieci attualmente. Nel 2023 l’Italia era ultima tra i Paesi europei nella produzione di nuove case. Siamo fermi a 1,5 case ogni 1.000 abitanti contro 2,5 nel Regno Unito, 3,2 in Germania, 5,7 in Francia. Se guardiamo alle grandi città, a Milano nel primo trimestre di quest’anno sono state vendute 648 nuove abitazioni, 2.600 su base annua. A Roma 670, 2.680 su base annua. A Napoli 35, 140 su base annua. Perché si costruiscono poche case in Italia?
Si potrebbe pensare che si tratti di un problema di domanda. Dopotutto la popolazione italiana scende da circa 10 anni. Ma il calo della popolazione finora è stato modesto (3% in dieci anni) e la discesa è in parte compensata dall’aumento relativo dei nuclei familiari, che stanno diventando più piccoli. Inoltre, la produzione di nuove abitazioni è insufficiente anche nelle città dove la popolazione sta crescendo. A Milano il Comune prevede che le famiglie residenti aumentino di 74.000 unità tra il 2023 e il 2038. Solo questo comporterebbe una domanda di quasi 5.000 nuove case l’anno. Tenendo conto poi del forte ricambio della popolazione a Milano (una parte dei nuovi residente probabilmente vorrebbe una casa nuova), si può stimare che la domanda di nuove case a Milano potrebbe arrivare a oltre 9.000 unità l’anno, tre volte e mezza il ritmo a cui si costruisce ora.
Si potrebbe anche pensare che esista un problema di disponibilità di suolo, soprattutto in certe città dove la copertura del suolo è già molto elevata. Ma costruire nuove case non vuol dire occupare nuovo suolo. Esistono a Milano 200 siti censiti come dismessi o degradati che potrebbero ospitare nuove abitazioni. Perché allora si costruisce poco?
La ragione, almeno in parte, va ritrovata nei vincoli eccessivi posti dai piani regolatori, non vincoli ambientali, ma vincoli relativi agli obblighi di costruzione di case per “edilizia residenziale sociale” (ERS). È una lunga storia. A partire dal piano Fanfani del primo dopoguerra e fino agli anni Ottanta, nella nostra Repubblica il compito di rendere disponibili case a prezzi accettabili era affidato all’edilizia popolare: il settore pubblico metteva i soldi per costruire queste case. Sul finire degli anni Ottanta e ancor più negli anni Novanta, l’edilizia popolare è entrata in crisi per mancanza di soldi. La soluzione allora è stata quella di obbligare chi voleva aggiudicarsi un bando per lo sviluppo di una certa area di riservare una quota delle nuove abitazioni alla ERS, case da vendere o affittare a prezzi regolati. Queste case comportavano una perdita, ma, se la quota ERS non era troppo alta, era comunque sufficientemente profittevole partecipare al bando e costruire. Il problema è però che se la quota ERS eccede certi livelli il progetto di sviluppo perde interesse perché si va in perdita o il margine di profitto diventa troppo basso. La conseguenza è che i bandi vanno deserti, come è successo negli ultimi anni a Milano. Paradossalmente, allora, il modo per far ripartire l’offerta non solo di case sul mercato libero, ma anche di case ERS sarebbe quello di ridurre, non aumentare, i vincoli ERS. Questo direbbe il buon senso, ma in politica talvolta l’apparenza e i proclami contano più del buon senso.