I recenti (e sorprendenti) eventi politici del nostro paese, si stanno sviluppando in un contesto economico internazionale dominato dagli effetti che l’inflazione sta avendo sui tassi di interesse delle principali valute (con aumenti più forti negli Stati Uniti che in Europa) e su quelli di cambio (con un forte apprezzamento del dollaro). Le conseguenze le stiamo già osservando, ma vale la pena di chiedersi quanto saranno rilevanti in termini di intensità e durata.
Nonostante l’inflazione stia viaggiando più o meno alla stessa velocità sui due lati dell’Atlantico (8,6 per cento nell’area dell’euro, 9,1 per cento negli Stati Uniti), la Fed (la banca centrale americana) sta reagendo più rapidamente di quella europea. Il tasso di riferimento americano, già al 1,5-1,75 per cento, verrà innalzato nella riunione di questa settimana di 75 o 100 punti base. In contrasto, la BCE ha annunciato, per ora, un aumento che, tra luglio e settembre, porterebbe il tasso di interesse a cui la BCE presta alle banche dall’attuale zero a 0,50 per cento, ben poco rispetto ai tassi americani.
Ci sono motivi per pensare che la BCE continuerà a essere più prudente nell’aumentare i tassi di interesse. Negli Stati Uniti l’inflazione sembra più radicata, essendosi da tempo estesa al di fuori del comparto energetico-alimentare, ed essendo ormai in corso una rincorsa prezzi-salari facilitata da un livello di disoccupazione che non si vedeva da oltre quarant’anni. Nell’area dell’euro, l’ascesa dell’inflazione sopra la linea dell’8 per cento è relativamente recente, come è recente la sua estensione al di fuori del comparto energetico-alimentare; la rincorsa prezzi-salari non si è ancora pienamente avviata.
Ma c’è un altro motivo per cui la BCE potrebbe seguire un percorso più graduale all’aumento dei tassi di interesse di quello seguito dalla Fed. Quando quest’ultima aumenta i tassi a nessuno viene in mente che, per esempio, il Texas possa uscire dall’area del dollaro o, addirittura, dall’Unione (a lasciare l’Unione ci provò qualcuno 161 anni fa e non finì molto bene). In Europa, invece, quando la BCE aumenta i tassi di interesse, a qualcuno può venire in mente che un grande paese del Sud Europa possa finire fuori dall’area dell’euro e dall’Unione Europea. Del resto abbiamo un partito che l’exit ce l’ha nel nome, mentre solo il 60 per cento degli italiani pensa che l’euro sia stata una buona cosa per il nostro paese (siamo ultimi nell’area dell’euro, secondo l’eurobarometro dell’Unione Europea). La BCE sa, e ne ha avuto prova un mesetto fa, che lo spread italiano può quindi aumentare rapidamente quando i tassi salgono. Ha perciò annunciato un scudo anti spread per consentirle di aumentare i tassi di interesse senza correre il rischio di causare una crisi finanziaria nel Sud Europa. Ma i dettagli mancano e il rischio di un effetto boomerang se lo scudo non è sufficientemente solido resta significativo.
Per tutti questi motivi la BCE si muoverà più lentamente nell’aumentare i tassi di interesse rispetto alla FED. Tutto questo ha implicazioni per il tasso di cambio dell’euro che probabilmente resterà debole. L’euro si è indebolito rispetto al dollaro scendendo su livelli che non si vedevano dalla sua nascita, il che ha effetti positivi sulle nostre esportazioni (più a buon mercato per gli acquirenti americani e per chi segue il dollaro), ma negativi sull’inflazione, visto che le nostre importazioni diventano più care. Questo renderà più difficile per la BCE non aumentare ulteriormente i tassi di interesse, nonostante la sua sopracitata preferenza alla prudenza nell’aggredire l’inflazione.
Tutto sommato, alle incertezze causate dalla guerra in Ucraina si sta affiancando un crescente rischio legato alla difficile transizione dalla politica della moneta facile e di tassi di interesse zero dell’ultimo decennio a una di tassi di interesse più alti. Non è una buona notizia per lo stato italiano, anche se l’inflazione sta aiutando, e non poco, i nostri conti pubblici, erodendo il valore reale del debito in circolazione. Preoccupa particolarmente il fatto che lo sforzo portato avanti con maggiore energia dalla FED per frenare l’inflazione causi una recessione negli Stati Uniti e una crisi del debito nel resto del mondo, come avvenne quarant’anni fa, l’ultimo periodo in cui l’inflazione americana stava sui livelli attuali.