Ma c’è anche l’illusione monetaria dovuta all’inflazione.
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Fra gli addetti ai lavori la faccenda è nota: la legge di bilancio targata Meloni-Giorgetti è notevolmente restrittiva. Questo lo si vede facilmente notando che il deficit complessivo scende dal 5,6% del Pil stimato per il 2022 al 4,5 nel 2023 e poi al 3,7 nel 2024 e al fatidico 3% nel 2025. Questi numeri sono simili, se non maggiori, di quelli che si registrarono fra il 2010 e il 2012, il periodo considerato di massima austerità dell’Italia: allora il deficit complessivo diminuì di 1,3 punti di Pil (da 4,2 a 2,9). Se ciò è noto fra gli addetti ai lavori, ci si chiede come mai non ci siano grandi proteste. La risposta è l’illusione monetaria. La tassa da inflazione sta falcidiando il valore reale della spesa pubblica, oltre che dei titoli pubblici, ma le persone non ne sono pienamente consapevoli.’Italia abbia vissuto da svariati decenni, anche se, forse, proprio perché c’è l’illusione monetaria, non vi saranno gli effetti recessivi sulla spesa privata che vi sarebbero, ad esempio, con una normale imposta sui redditi o sui consumi. Rimane che le persone si impoveriscono e perdono potere d’acquisto esattamente come se si mettesse una tassa molto salata. Non avremmo mai immaginato che il governo di centro destra fosse un cultore tanto devoto dell’odiatissima austerity. Ma forse, come spesso accade, è la realtà che supera la fantasia e la realtà, in questo caso, non lascia spazio ad alternative.
Considerando le proiezioni di spesa pubblica della Nadef - tenendo conto delle variazioni introdotte nella legge di bilancio - e utilizzando le previsiono più aggiornate sui prezzi al consumo (quelle pubblicate il 13 febbraio dalla Commissione Ue), si ottiene che per stare al passo con l’inflazione, la spesa pubblica avrebbe dovuto essere più alta di ben 41 miliardi nel 2022, di ben 84 miliardi nel 2023 a salire fino oltre 100 miliardi nel 2025. Il quadro non cambia se il conto viene fatto togliendo dal totale della spesa gli interessi, in quanto verosimilmente calcolati sulla base della curva per scadenze, e le pensioni, che dovrebbero essere calcolate in base alle vigenti disposizioni di legge. La spesa così ridefinita avrebbe dovuto essere più alta di 35 miliardi nel 2022, di 82 miliardi nel 2023, di 111 miliardi nel 2024 e di 117 nel 2025. Naturalmente non sappiamo se le proiezioni del governo reggeranno alla prova dei fatti, ossia alle richieste di adeguamento degli stipendi pubblici, del Servizio Sanitario e, in generale, delle spese colpite dal caro vita come quelle dei consumatori, che si tratti di beni intermedi, di beni di investimento o di trasferimenti. Ma intanto sappiamo che fra il 2022 e il 2023, la spesa pubblica è stata ridotta in termini reali, ossia al netto dell’inflazione, di oltre 100 miliardi. A questi vanno aggiunte le maggiori entrate per il governo dovuto al fiscal drag, ossia al fatto che gli scaglioni Irpef non sono indicizzati all’inflazione, e l’erosione del valore reale del debito pubblico. Quest’ultima, solo nel 2022, ha pesato sui detentori di titoli pubblici per circa il 12,7% del Pil (debito/Pil x inflazione = 145,7 x 8,7%). Per confronto, l’intero gettito dell’Irpef vale l’11% del Pil. Questa è austerity vera, forse la più dura che l