Il Foglio

Il nuovo Patto di stabilità è ragionevole, anche per l’Italia

30 dicembre 2023

Il nuovo Patto di stabilità è ragionevole, anche per l’Italia

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Se in tempi eccezionali il debito può salire anche di dieci-venti punti, occorre che in tempi normali scenda almeno di uno.

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In Italia, le nuove regole sui bilanci pubblici, approvate dall’Ecofin del 20 dicembre, hanno ricevuto un’accoglienza molto fredda. Le critiche principali sono due. La prima è che l’introduzione dei paletti quantitativi voluti soprattutto dal ministro tedesco Lindner rende le regole più complicate rispetto all’originale proposta della Commissione, il che contrasta con uno degli obiettivi della riforma che era quella di semplificare. Questo in parte è vero, ma l’originale proposta della Commissione era semplice da enunciare (a ogni Paese va applicata la DSA, ossia l’analisi di sostenibilità del debito, tenendo conto delle sue specificità riguardo in particolare agli investimenti e alle riforme), ma molto difficile da attuare. In particolare, la DSA richiede di fare assunzioni, spesso molto discutibili, sul sentiero di sviluppo di un’economia nell’arco di vari decenni; spesso, con differenze anche molto piccole nel metodo o nelle assunzioni (per esempio, sulla produttività o sui tassi di interesse) si giunge a conclusioni molto diverse. Inoltre non è affatto chiaro come si faccia a tener conto delle specificità di ogni Paese e come si faccia farlo senza creare, né soprattutto dare l’impressione di creare disparità di trattamento fra Paesi. In sostanza, la proposta lasciava margini notevoli di discrezionalità alla Commissione, il che può essere un bene in astratto, ma può rivelarsi quasi infattibile politicamente.

La seconda e più rilevante critica è che, con l’introduzione dei criteri quantitativi voluti dai nordici, le nuove regole sono troppo rigide e obbligano un Paese come l’Italia a fare manovre molto restrittive nei prossimi anni. Chi argomenta in questo senso si preoccupa soprattutto della regola in base alla quale per i Paesi ad alto debito, in tempi normali, il debito deve scendere ogni anno dell’1 per cento del Pil. È difficile capire dove stia la preoccupazione. Se, in tempi eccezionali – quelli in cui si sospendono le regole come è accaduto negli ultimi tre anni – il debito può salire di dieci o anche venti punti, occorre che in tempi normali, o relativamente normali, il debito scenda. E con la regola dell’1 per cento, occorrono 40 anni perché il debito italiano scenda da dove sta oggi al 100 per cento del Pil! Chi dice che questa regola è troppo rigida forse non ha visto che essa va applicata in media su periodi lunghi e non anno per anno (art. 6 del documento sul braccio preventivo) e non ha visto che la Commissione non vigila direttamente sul debito, ma sul bilancio primario strutturale (art. 6ter), oltre che sulla cosiddetta spesa netta, un costrutto assai complesso la cui finalità è la stessa del bilancio strutturale: tenere conto del ciclo economico lasciando che il bilancio pubblico sostenga l’attività economica in tempi di recessione.

L’altro criterio quantitativo che sembra preoccupare alcuni è quello in base al quale un Paese ad alto debito dovrebbe ridurre il deficit di 0,5 punti all’anno (che sembra si riducano a 0,25 se si tiene conto degli interessi) fino a raggiungere un margine di sicurezza di 1,5 punti di Pil. Questo vuol dire che l’Italia dovrebbe arrivare gradualmente ad un avanzo del bilancio primario (ossia al netto degli interessi) compreso fra il 3 e il 4 per cento. Quest’ultimo obiettivo – si dice – è irrealistico, anche se – come ha ricordato Luciano Capone su questo giornale [Il Foglio del 27/12/2023] – per un intero decennio (1995-2004) l’Italia ha avuto un avanzo primario medio del 3,6 per cento, il che ha consentito di ridurre il debito di ben 17 punti di Pil. Soprattutto, nel valutare questo criterio, è bene avere a mente l’analisi di sostenibilità del debito che è contenuta da qualche anno nei documenti di finanza pubblica dei governi italiani. Considerando l’ultima Nadef, quella firmata Giorgetti-Meloni, a pag. 95 è scritto che tenendo ferme le politiche che dovrebbero portare l’avanzo primario all’1,6 per cento nel 2026, il rapporto debito/Pil ricomincia a salire dal 2027 in poi per via degli interessi e delle conseguenze economiche dell'invecchiamento della popolazione. Per ridurre il debito occorre un miglioramento dell'avanzo primario pari a 0,55 per cento ogni anno da 2027 fino al 2031, il che significa arrivare al 4,35 per cento. Questo viene scenario chiamato “continuazione dell'aggiustamento” iniziato nel 2023. Di questo scenario si dice: “Lo scenario ‘continuazione aggiustamento’ è utile a dimostrare come, nel medio periodo, il protrarsi del percorso virtuoso di aggiustamento fiscale (già prospettato per gli anni 2023-2026) anche oltre l’orizzonte di previsione del presente Documento potrà assicurare una dinamica sostenibile del rapporto debito pubblico/Pil…”. Insomma, per i tecnici del Ministero dell’Economia italiano, non per qualche falco nordico, un avanzo primario del 4 per cento è necessario per ridurre, molto gradualmente, il rapporto debito/Pil. Forse, con ipotesi leggermente diverse, per esempio una crescita più elevata, un avanzo del 3 per cento può essere sufficiente. Ma sotto è difficile che si vada; altrimenti, il debito riprende la sua corsa verso l’alto. Ma c’è in questo Paese una classe dirigente che si preoccupa del debito? C’è qualcuno che si preoccupa davvero che l’Italia non finisca in braccio al Mes? “Non ci rivolgeremo mai al Mes” è slogan elettorale o è un serio programma di politica economica?

Leggi l’articolo completo qui.

Un articolo di

Giampaolo Galli

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