In questi giorni sono usciti i giudizi di varie importanti agenzie di rating. Un dialogo fra un rappresentante del governo italiano e gli analisti di un’agenzia potrebbe essersi svolto più o meno così.
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Agenzia: Vi ringraziamo per questo incontro e ci teniamo a dire alcune cose in apertura, in quanto voi rappresentante un nuovo governo e forse non avete familiarità con questi incontri. Sappiamo che il vostro compito è quello di difendere l’Italia, ma vi preghiamo di essere quanto più sinceri e aperti possibile. I nostri rating contribuiscono alla valutazione circa la convenienza a investire in un dato Paese per fondi di investimento, fondi pensioni, banche e altri intermediari che gestiscono i risparmi di milioni di persone in tutto il mondo. Se sbagliamo valutazione e non abbiamo una buona motivazione per l’errore, la nostra agenzia perde reputazione e soprattutto clienti, che sono la nostra fonte di fatturato, e noi analisti potremmo pagarne le conseguenze, anche personalmente. Come sapete, nel mondo anglosassone gli errori si pagano.
Governo: Capiamo bene la vostra situazione, ma prima di entrare nel merito consentiteci di chiedervi come mai nessuno di voi ha pagato per non aver previsto il disastro provocato dal fallimento di Lehman Brothers nel 2008.
A: Qualcuno ha pagato, ma in generale siamo riusciti ad argomentare con gli azionisti che nessuno aveva previsto la Grande Crisi Finanziaria.
G: Ma qualcuno dice di averla prevista.
A: Certo, ma sono quelli che prevedono sempre sventure. Una su mille, ci indovinano. Ma, se consentite, veniamo al tema. Noi prendiamo atto che, per la prima volta da oltre dieci anni, l’Italia ha un governo che si regge una maggioranza scelta dagli elettori e che nell’opinione di molti questo governo ha buone chance di durare l’intera legislatura. Prendiamo anche atto che su due assi cruciali, la politica economica e la politica estera, il governo ha fatto scelte che sono in linea con i principali partner europei. Ma le sfide sono davvero difficili. Cominciamo dalla crescita dell’economia. Qui ci sono notizie in chiaroscuro. Confrontando il 2022 con il 2019, la crescita dell’Italia (1 per cento) è superiore a quella di Francia e Germania, ma è di molto inferiore a quella media dell’Eurozona (2,2 per cento). Quindi il gap di crescita con gli altri Paesi non sembra essere alle spalle.
G: Certo, quelli sono i dati annuali. Ma se guardate i dati trimestrali e includete anche il (sorprendente) primo trimestre di quest’anno, vedete che l’Italia cresce quasi come l’Eurozona. Fra il 4° trimestre del 2019 e il 1° del 2023, il Pil dell’Italia è cresciuto del 2,5 per cento, quasi come la media dell’Eurozona che è stata del 2,6 per cento.
A: Va bene, ma, come dite in Italia, una rondine non fa primavera. Questi dati sono provvisori e sono influenzati dal boom dei bonus, in particolare il superbonus edilizio e i sussidi prima per la pandemia e poi per le bollette. I trasferimenti a questo titolo, ossia i pagamenti in conto capitale dello Stato, sono passati da 20 miliardi circa nel 2019 a 94 miliardi nel 2021 e 93 miliardi nel 2022. Questi trasferimenti fanno crescita nel breve termine, ma non migliorano il potenziale dell’economia e alla fine vi lasciano solo con un debito più alto. Fra il 2019 e il 2022, il debito pubblico è aumentato di 10,6 punti di Pil in Italia e di soli 7,4 punti nella media dell’Eurozona.
G: Questo è vero, e infatti il governo sta smantellando molti dei bonus e sussidi che erano stati erogati dai precedenti governi. Non è stato facile; nemmeno Draghi ci era riuscito. Ma dovete tenere conto che i confronti che fate con l’Eurozona sono falsati dal dato dell’Irlanda, che fra il 2019 e il 2022 è cresciuta all’incredibile ritmo del 32%, in parte perché ha un sistema fiscale che attrae investimenti esteri a danno degli altri Paesi, inclusa l’Italia. Per questo noi preferiamo confrontarci con i grandi Paesi europei come Germania e Francia. E rispetto a questi stiamo facendo meglio, anche se è vero che la nostra crescita è stata un po’ drogata dai bonus e dal debito. Ma sulle esportazioni, l’Italia va come l’Eurozona o anche leggermente meglio, e le esportazioni non c’entrano nulla con i bonus e il debito. C’entrano con la capacità delle nostre aziende di adattarsi ai rapidi cambiamenti dei mercati: frammentazione, digitalizzazione, contrapposizione fra blocchi.
A: Sì, questo è vero. La nostra analisi è che le vostre piccole aziende rappresentano un enorme svantaggio competitivo, ma in questo caso possono aver rappresentato un vantaggio: per esempio, sono poche le vostre aziende che hanno grandi stabilimenti in Cina. A differenza di molte grandi aziende tedesche, francesi e americane, le vostre aziende comprano dalla Cina, ma di solito non producono in Cina. Ed è più facile cambiare fornitori che spostare uno stabilimento. Di questo fattore, che dovrebbe essere temporaneo, dovete tenere conto quando vi confrontate con la Germania e la Francia. Inoltre sui dati congiunturali della Francia hanno pesato gli scioperi massicci contro la riforma delle pensioni voluta da Macron. A questo proposito, vorremmo chiedervi se non pensate che anche in Italia potrebbero emergere forti tensioni sociali. Abbiamo apprezzato il piano di finanza pubblica presentato nel Def dal Ministro Giorgetti: vi proponete di far scendere il deficit pubblico dal 5,4 per cento del 2022 (al netto della riclassificazione del superbonus) al fatidico 3 per cento nel 2025. Questo piano ci sembra coerente sia con le vecchie regole del Patti di Stabilità sia con le nuove che sono ora in discussione, ma è basato sull’ipotesi che la spesa pubblica rimanga quasi ferma sui livelli attuali, malgrado l’alta inflazione. Nel piano di Giorgetti si riducono quindi, in termini di potere d’acquisto, gli stipendi pubblici, le risorse per il Servizio Sanitario Nazionale e quelle per l’istruzione e per tante altre voci di grande importanza sociale.
G: Ne siamo consapevoli. E contiamo di far capire agli italiani che non ci sono alternative. Se non facciamo così, il nostro debito esplode. E anche facendo così, il debito scende solo di 4 punti di Pil dal 144,4 per cento del 2022 al 140,4 per cento nel 2026.
A: Buona fortuna! Avete un compito improbo, anche perché sentiamo un gran rullar di tamburi da parte dei sindacati. Comunque, ammesso che voi riusciate ad arrivare con questi numeri al 2026, cosa succederà dopo? Secondo il Def, mantenendo invariate le politiche al livello del 2026 (con un avanzo primario al 2 per cento del Pil), il debito/Pil ricomincia a salire già nel 2027 perché il tasso di interesse supera il tasso di crescita. E guardando alle vostre simulazioni di lungo periodo, nello scenario che voi stessi definite “di riferimento”, il rapporto debito/Pil sale continuamente per via degli effetti dell’invecchiamento della popolazione e raggiunge addirittura il 180 per cento a metà secolo. Con questa prospettiva, come pensate di tranquillizzare i risparmiatori per indurli a compare il vostro debito? Tenete conto che, nella proposta della Commissione, queste proiezioni a lungo termine (basate sulla DSA, Debt Sustainabilty Analysis) diventano il punto di partenza della discussione sui piani nazionali.
G: Sappiamo che questo è il punto cruciale. Tenete conto che nello sviluppare lo scenario detto “di riferimento” siamo stati vincolati a utilizzare la metodologia della Commissione. In realtà noi pensiamo che parecchie variabili potrebbero andare meglio di come ipotizzato. Per esempio, il governo sta ragionando su ipotesi per migliorare la natalità.
A: Mah… detto con franchezza, questo è poco convincente. Oggi l’Italia ha un tasso di fertilità di 1,19 figli per donna e nelle vostre simulazioni lo fate salire fino a 1,50, che è il livello attuale della Germania. Pensare di andare oltre ci sembra poco realistico.
G: Pensiamo anche di poter conseguire una crescita più sostenuta del Pil, grazie per esempio alla riforma fiscale, che alleggerirà gli oneri su imprese e famiglie.
A: Ma già adesso prevedete una crescita del Pil che si mantiene all’1 per cento nei prossimi decenni. Molto di più della crescita quasi zero che avete avuto finora. Quanto alla riforma fiscale, concordiamo con voi che l’Italia abbia bisogno di una riforma, ma non avete le risorse per ridurre la pressione fiscale. Questa affermazione ci sembra in contrasto con il piano di Giorgetti.
G: Dovete anche tenere conto del fatto che questo governo, a differenza di quelli di sinistra, non è nemico delle imprese e ha nel suo programma quello di ridurre drasticamente la burocrazia, che è uno dei principali impedimenti agli investimenti produttivi.
A: Un’ultima domanda, se permettete. Nelle vostre simulazioni a medio e a lungo termine, oltre allo scenario “di riferimento” avete due scenari in cui l’avanzo primario non rimane al livello del 2026, ma cresce e si stabilizza per alcuni decenni al 5,3 per cento nello scenario che chiamate B1 e al 3,6 per cento nello scenario B2. Dato che nello scenario B2 il debito/Pil scende anche dopo il 2026 e attorno al 2034 tornerebbe al livello del 2019 (135 per cento), voi ritenete che il debito sia sostenibile. Evidentemente, ritenete che l’Italia sia in grado di sopportare un livello notevole di austerità per un prolungato periodo di tempo.
G: Nel Def si fanno esercizi ipotetici. Se non si riescono a fare riforme che migliorino il potenziale di crescita dell’economia, l’aumento dell’avanzo primario diventa l’unica via di uscita. Nello spirito di franchezza che ha caratterizzato questo incontro, vi diciamo che non abbiamo idea di quale livello di austerità sarà considerata sopportabile fra 20 o 40 anni. Noi per ora dobbiamo dire quali sono i numeri e le compatibilità macroeconomiche e di questo dobbiamo rendere edotti il Parlamento e il Paese. Vedete, il tema di fondo è la demografia. Negli ultimi 4 anni, l’Italia ha perso circa 900 mila persona in età fra 20 e 64 anni. Secondo l’Istat la perdita, in questa classe di età, salirà a 1,3 milioni nel 2030, 5,4 milioni nel 2040 e 8,1 milioni nel 2050. Il Def altro non è che una elaborazione su questi numeri.
A: Vi ringraziamo per queste informazioni. Ora ci dobbiamo consultare con i nostri colleghi nell’headquarter e vi faremo sapere.