Tempo fa, su queste colonne, ho sostenuto che sarebbe stato molto difficile per questo governo realizzare una riforma fiscale ampia (niente di comparabile, dicevo, alla riforma del 1971-1974) perché era sostenuto da una maggioranza troppo eterogenea: impossibile mettere d’accordo centrodestra e centrosinistra su una questione così politica come la tassazione. In effetti, la legge delega per la riforma fiscale varata dal governo non comporta un cambiamento radicale nel nostro sistema di tassazione (non prevede, che so, una flat tax oppure un forte aumento della progressività). Eppure è ugualmente riuscita a spaccare la maggioranza. Come è stato possibile?
La riforma, pur non cambiando l’impostazione del nostro sistema impositivo, comporta molte misure utili, almeno in termini generali. Ci sono strumenti per migliorare la riscossione delle tasse, tra cui il trasferimento, almeno parziale, di funzioni dall’Agenzia Riscossione all’Agenzia delle Entrate, l’uso di “più evolute tecnologie” per la riscossione, una semplificazione degli adempimenti amministrativi dell’Ires. E, soprattutto, ci sono importanti novità nelle politiche di tassazione, tra cui il passaggio a una stessa aliquota per tutti i redditi da capitale e immobili, una riduzione delle aliquote medie di tassazione sull’Irpef, una riduzione delle “variazioni eccessive” delle aliquote marginali (un riferimento al salto di undici punti dell’aliquota marginale tra il secondo e il terzo scaglione), un riordino di deduzioni e detrazioni della base imponibile Irpef, una razionalizzazione dell’Iva con una riduzione del numero delle aliquote, il graduale superamento dell’Irap e, dulcis in fundo, una revisione del catasto. Con l’eccezione della riforma del catasto, queste misure sono in linea con le conclusioni della commissione parlamentare guidata dall’onorevole Marattin, votata da tutti tranne che da Fratelli d’Italia (voto contrario) e Leu (astensione).
Il rapporto Marattin aveva raccolto questo ampio consenso grazie anche alla sua vaghezza. La riforma del governo resta ugualmente vaga. Chi può obiettare a un riordino della giungla di deduzioni e detrazioni o delle aliquote Iva finché non si dicono quali benefici si vogliono eliminare e quali aliquote Iva si vogliono aumentare? Chi può essere contrario alla riduzione dell’aliquota media dell’Irpef, se non si dice come la riduzione della media si distribuirà tra diversi livelli di reddito? E così via. La vaghezza del rapporto Marattin era stata la sua forza nel raggiungere un ampio consenso. Ma questa vaghezza si trasforma in debolezza per una legge delega. Sì perché la legge delega, come sottolineato da Salvini nella sua conferenza stampa, dà al governo carta bianca nella scrittura dei decreti legislativi che il governo dovrà emanare per realizzare la delega entro 12-18 mesi, decreti che dovranno ricevere solo un parere non vincolante dal Parlamento. Insomma, un conto è essere vaghi nel fissare principi generali che non hanno un effetto operativo; un altro è essere vaghi su qualcosa che comporterebbe vincoli effettivi alla legislazione tributaria (si noti, il vincolo varrebbe, in linea di principio, anche per un futuro governo formato dopo elezioni generali). Fra l’altro, la vaghezza di questa legge delega è ben superiore a quella della mega-riforma fiscale dei primi anni Settanta. Per esempio, quest’ultima arrivava a indicare che per l’Iva l’aliquota sarebbe stata “del sei per cento per i libri, compresi quelli di antiquariato, e per i materiali audiovisivi di contenuto didattico”. Anche la legge delega per la riforma fiscale del 2014 era molto più specifica.
C’è poi la questione del catasto, la cui riforma, come notato, non era coperta dall’accordo raggiunto in Parlamento. Non è cosa da poco, vista la delicatezza del tema della casa. Qui il governo ha forse pensato che l’estrema gradualità della riforma rendesse accettabile andare oltre quanto concordato in Parlamento. Primo, l’introduzione nelle informazioni presenti nel catasto di un valore della casa allineato ai prezzi di mercato sarebbe rinviata al primo gennaio del 2026. Secondo, le nuove informazioni non sarebbero utilizzate per determinare la base imponibile dei tributi. Qualche effetto ci sarebbe, per esempio nel calcolo dell’Isee (che dipende anche dalla ricchezza immobiliare) e quindi nell’accesso a certi benefici. Ma, tutto sommato, l’impatto sarebbe molto attenuato. Chi teme questa riforma è allora perché pensa che le informazioni “dormienti” saranno alla fine risvegliate. Del resto, perché fare la riforma se poi non la si vuole, prima o poi, rendere effettiva? Insomma, i tempi lunghi e la neutralizzazione degli effetti tributari non sembrano aver funzionato a far digerire la riforma.
L’ultimo punto di disaccordo riguarda i tempi dati ai partiti per esaminare il testo della legge delega. Se effettivamente si tratta solo di “mezz’ora”, come ha sostenuto la Lega, allora un qualche motivo per lamentarsi esisterebbe, anche se mi sembra difficile credere che bozze di riforma non siano circolate prima.