Università Cattolica del Sacro Cuore

Mercantilismo tedesco?

Pubblichiamo di seguito le slide presentate dal Vice Direttore Giampaolo Galli e il video del suo intervento al convegno di "Liberi, oltre le illusioni" del 5 ottobre 2019.

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Secondo una tesi molto comune fra i sovranisti, di varie estrazioni politiche, negli ultimi due decenni la Germania avrebbe attuato politiche etichettabili come mercantiliste e avrebbe indotto paesi come l’Italia ad aderire alla moneta unica al fine di assicurarsi che l’euro fosse una moneta debole, di evitare la concorrenza dell’industria italiana e di facilitare la formazione di ampi avanzi commerciali. L’accusa di mercantilismo è assai pesante dal momento che, nella sua versione comune (ad es. come interpretata da Jean-Baptiste Colbert alla corte di Luigi XIV), questo approccio alla politica economica è volto ad accrescere la potenza militare della nazione, attraverso l’accumulazione di oro e valute pregiate; l’accusa quindi è quella di avere voluto l’unione monetaria essenzialmente per esprimere un’egemonia politica sul continente europeo.

Qui argomentiamo che questa tesi è falsa sul piano storico per vari motivi. Il primo è che la Germania è stato il paese europeo che più ha contribuito ad abbattere le barriere doganali sia in sede internazionale (WTO) sia in sede europea: il mercato unico europeo fu fatto principalmente sotto la spinta della Germania, oltre che del Regno Unito.  L’Italia e soprattutto la Francia hanno sempre espresso posizioni più caute, se non di contrasto, rispetto alle politiche di apertura commerciale. In secondo luogo, la Germania ha sempre optato per una politica della valuta forte. Fra la fine del regime di Bretton Woods e l’avvio dell’Unione Monetaria, il marco tedesco si rivalutò del 480 per cento rispetto alla lira italiana e del 123 per cento rispetto al franco francese. Negli anni novanta, e in particolare nel 1992, fu quasi sempre la Germania che spinse gli altri paesi a svalutare rispetto al marco, perché l’obiettivo principale non era affatto quello di accumulare avanzi commerciali, ma di evitare di importare inflazione. A chi sostiene che la Germania costrinse l’Italia a entrare nell’UME con un cambio troppo forte al fine di piegarne la forza competitiva conviene ricordare che nei soli anni novanta il marco si apprezzò di oltre il 30 per cento rispetto alla lira italiana. E non si ricordano pressioni dell’industria tedesca volte a contrastare la politica del marco forte perseguita dalla Bundesbank.

Il terzo motivo per cui la tesi del mercantilismo tedesco non sta in piedi sul piano storico è che l’establishment tedesco, compreso quello industriale, era in generale contrario all’ingresso dell’Italia, e di altri paesi “deboli”, nell’unione monetaria per il timore di importare inflazione e di essere costretti a operazioni di salvataggio per via dello stato precario dei conti pubblici.  Ciampi e Prodi riuscirono a convincere la Germania ad accettare l’Italia, malgrado che, secondo un rapporto della Bundesbank, non rispettasse i parametri concordati, sulla base dell’impegno di mantenere per un lungo periodo di tempo l’avanzo primario al 5 per cento, il livello cui era arrivato effettivamente nel 1997. Alla fine, la decisione di ammettere l’Italia (assieme alla Spagna) fin dall’inizio dell’unione fu una decisione politica assunta direttamente dal cancelliere Khol e motivata dal timore di spaccare l’Europa e di esporsi all’accusa di volere un’Europa tedesca in luogo di una Germania europea. L’avanzo commerciale che la Germania iniziò ad accumulare negli anni duemila fu la conseguenza dei deficit americani e del fatto che le parti sociali in Germania presero sul serio l’obiettivo di stabilità dei prezzi inscritto nel Trattato di Maastricht e concordarono una crescita dei salari in linea con la produttività. In Italia, su questo terreno, ci fu un evidente ritardo di comprensione delle parti sociali e più in generale delle classi dirigenti: fatto 100 il 1995, nel 2007, alla vigilia della grande crisi, il costo del lavoro per unità di prodotto in Germania si trovava ancora a 100, mentre in Italia era salito a 132: una differenza enorme e difficilmente colmabile. Va anche osservato che oggi la gran parte dell’avanzo tedesco è con paesi terzi e non con il gli altri paesi dell’Unione Europea. Il che significa che il danno arrecato dall’avanzo tedesco alla domanda interna dell’eurozona è assai limitato.

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