Università Cattolica del Sacro Cuore

Il debito pubblico costa poco: come sfruttare l’occasione

di Giulio Gottardo

9 aprile 2021

Gli interessi che lo Stato italiano paga sulle nuove emissioni per finanziare il debito sono ai minimi storici: oggi un BTP a 30 anni rende meno di un BOT a 3 mesi emesso nel 2006. Lo Stato potrebbe ottenere dei risparmi di lungo periodo sulla spesa per interessi continuando ad allungare la scadenza media dei nuovi titoli emessi, in modo da “congelare” gli attuali interessi bassi. In linea con questo principio, la vita media del debito italiano si è allungata negli ultimi anni, ma non è ancora tornata al livello raggiunto prima della crisi dei debiti sovrani (2011). Di conseguenza, quest’anno il Ministero dell’Economia (MEF) dovrebbe continuare ad allungare la scadenza media delle nuove emissioni, come suggerito anche dal Fondo Monetario Internazionale (FMI).

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Come fa lo Stato italiano, insieme a tanti altri, a indebitarsi così tanto per fronteggiare la pandemia? Nel 2011, allo scoppio della crisi dei debiti sovrani, il debito pubblico italiano era al di sotto del 120 per cento del Pil e il deficit attorno al 3,5 per cento. Nel 2021 questi dati potrebbero raggiungere rispettivamente il 160 e il 10 per cento del Pil. Nonostante ciò, oggi i mercati finanziari considerano le finanze pubbliche del nostro paese più sostenibili di 10 anni fa. Non a caso, il costo totale del debito pubblico è diminuito negli ultimi due anni, da 60 a 58 miliardi di euro annui circa.[1] La ragione principale dietro a questo fenomeno è la politica espansiva della Banca Centrale Europea (BCE), che dal 2015 e ancora di più dall’anno scorso effettua acquisti massici di titoli di Stato.

La curva dei rendimenti

La diminuzione dei tassi d’interesse sul debito, cioè sui titoli emessi dallo Stato italiano, ha interessato sia i titoli a breve sia quelli a lunga scadenza (tra 10 e 30 anni). Negli ultimi anni, la curva dei rendimenti dei titoli di Stato italiani, cioè l’insieme dei tassi d’interesse sul debito suddivisi per scadenze, si è considerevolmente abbassata e appiattita (Fig. 1).

Nel 2006 per esempio, prima della crisi finanziaria, la curva dei rendimenti era sì piatta, ma gli interessi pagati sui titoli emessi erano abbastanza elevati, generalmente al di sopra del 3 per cento. Con la crisi dei debiti sovrani del 2011, la curva dei rendimenti era diventata ripida, poiché gli investitori scontavano un maggior rischio di default o ristrutturazione del debito pubblico italiano nel medio-lungo periodo. In questa situazione, i titoli con scadenza superiore a 10 anni pagavano interessi superiori al 5 per cento. In seguito, la curva si è abbassata e appiattita, con rendimenti negativi per i titoli a breve già nel 2016. Questa situazione si è consolidata nel 2020 grazie all’intensificazione degli acquisti della BCE per fronteggiare la pandemia. Di conseguenza, oggi un titolo a scadenza 30 anni paga un tasso d’interesse minore rispetto a uno con scadenza 3 mesi nel 2006.

Come sfruttare la curva dei rendimenti?

Quando la curva dei rendimenti si appiattisce e si abbassa, potrebbe essere conveniente allungare la scadenza media dei titoli emessi. Perché emettere più titoli a lunga che costano allo Stato tra l’1 e il 2 per cento all’anno, invece di emettere titoli a breve con rendimenti negativi? In generale, la scelta più conveniente per le finanze pubbliche circa la scadenza dei titoli da emettere dipende dalle previsioni circa i tassi d’interesse futuri. Se i rendimenti sono considerati eccezionalmente bassi e la curva è piatta, conviene emettere più titoli a lunga scadenza, in modo da beneficiare per più tempo degli interessi bassi. Infatti, se nel futuro gli interessi sul debito aumentassero, i titoli a breve dovrebbero essere sostituiti da nuove e più costose emissioni. Invece, i titoli a lunga scadenza “congelerebbero” per più tempo il risparmio sugli interessi, anche se questo sarebbe minore nell’immediato.

Si considerino per esempio un BTP a 30 anni e uno a 5 anni, cioè due titoli rispettivamente a lunghissima e media scadenza. A marzo 2021 un BTP a 30 anni rendeva circa l’1,6 per cento, mentre uno a 5 anni aveva un rendimento leggermente negativo, circa nullo (0 per cento). Di conseguenza, se lo Stato emettesse il titolo a 30 anni al posto di quello a 5, per i primi 5 anni sosterrebbe un costo dell’1,6 per cento annuo, cioè la differenza tra i due rendimenti. Per i 25 anni successivi, se lo Stato avesse emesso il titolo a media scadenza dovrebbe rinnovarlo al tasso d’interesse vigente, mentre quello a 30 anni continuerebbe a costare l’1,6 per cento. Senza tener conto (per semplicità) che i risparmi futuri andrebbero scontati ad un tasso adeguato, il titolo a 30 anni risulterebbe quindi più conveniente se quello a 5 anni dovesse essere rinnovato a un tasso d’interesse superiore al 2 per cento.[2] I BTP a 5 anni sono stati collocati a rendimenti superiori a questa “soglia” fino al 2013, quando la crisi dei debiti sovrani era rientrata e il costo dell’indebitamento era già minimo rispetto al passato. Un simile calcolo eseguito sui titoli di Stato a 10 anni e 1 anno produce lo stesso risultato: se i rendimenti tornassero ai livelli precedenti al 2013, l’emissione oggi di un BTP a 10 anni sarebbe più conveniente nell’arco di 10 anni dell’emissione e del continuo rinnovo di un BOT a 1 anno.

In pratica, non si può sapere per certo quando e di quanto aumenteranno i tassi di interesse. Certamente, il fatto che dei rendimenti futuri simili a quelli di pochi anni fa renderebbero conveniente l’emissione oggi di titoli a lunga scadenza è un chiaro incentivo ad allungare la durata media delle nuove emissioni. Tuttavia, se la curva dei rendimenti rimanesse come oggi per un altro anno, allora al momento converrebbe emettere titoli a scadenza breve per beneficiare dei loro rendimenti negativi. Di contro, se si sapesse che la ripresa provocherà un aumento dell’inflazione e quindi dei tassi entro l’anno, converrebbe emettere immediatamente molti più titoli a scadenza lunghissima. Di conseguenza, in ogni momento è comunque preferibile diversificare il rischio emettendo titoli di ogni tipo, seppur sfruttando le caratteristiche della curva. Vale la pena ricordare che anche gli investitori preferiscono diversificare. Quindi, un eccesso considerevole di offerta per una certa scadenza – breve o lunga che sia – potrebbe provocare un aumento del rendimento corrispondente.

Detto questo, alla luce delle caratteristiche inedite della curva attuale, non sorprende che lo Staff Statement di marzo 2021 del Fondo Monetario Internazionale raccomandi all’Italia di allungare la scadenza media del debito.[3] In linea con lo spirito di questa raccomandazione, la vita media del debito pubblico è in aumento dal 2014, ovvero da quando la crisi dei debiti sovrani è rientrata e la politica monetaria della BCE ha favorito un appiattimento della curva dei rendimenti.[4] Se si guardano le scadenze e le emissioni si nuovi titoli di Stato suddivise per durata si può notare come nel 2020 sia stato favorito un mix di nuovi titoli a scadenza leggermente più lunga rispetto a quelli scaduti (Fig. 2).

Tuttavia, l’attuale vita media del debito pubblico (6,9 anni a fine 2020) rimane minore rispetto al livello raggiunto prima della crisi dei debiti sovrani (7,2 anni a fine 2010), quando i rendimenti dei titoli a lunga scadenza erano comunque molto maggiori di oggi. Per questo motivo potrebbe esserci ancora spazio per allungare la scadenza e la vita media del debito pubblico. Questo spazio potrebbe essere sfruttato nell’anno in corso, visto che la BCE ha annunciato di voler mantenere una politica monetaria molto espansiva almeno fino al 2022 e il fabbisogno di finanziamento dello Stato sarà elevato.

In conclusione, la curva dei rendimenti dei titoli di Stato italiani – bassa e piatta – è un chiaro incentivo ad aumentare la vita media del debito pubblico, in modo da “congelare” gli interessi bassi a vantaggio delle finanze pubbliche. Infatti, in futuro un aumento dell’inflazione e un conseguente irrigidimento della politica monetaria della BCE rialzerebbero inevitabilmente la curva. Questo aumento auspicato della scadenza media dei titoli emessi è già in corso se si guardano la vita media del debito pubblico e le emissioni del 2020, ma dovrebbe continuare. In ogni caso, la necessità di diversificare di fronte all’incertezza sui tassi e sull’inflazione futura impone comunque di continuare a emettere anche titoli a scadenza breve.

 

[2] Il calcolo per ricavare il 2 per cento come soglia sopra la quale conviene il titolo a 30 anni è il seguente: costo del titolo a lunga scadenza per i primi 5 anni = risparmio per i successivi 25 anni, cioè 5 • (1,6 - 0) = 25 • (x - 1,6)

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