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Il raggiungimento del pareggio di bilancio
In questa simulazione la spesa per interessi e’ calcolata assumendo l’invarianza dei tassi di interesse rispetto a quanto previsto nella Nota di Aggiornamento al Documento di Economia e Finanza (NADEF) 2017. Il surplus primario salirebbe gradualmente dall’1,7 per cento del Pil nel 2017 al 2,4 per cento nel 2018, al 3 per cento nel 2019 e al 3,6 per cento del Pil nel 2020. Questa politica non comporterebbe pero’ una riduzione nei servizi offerti agli italiani, visto che il totale della spesa primaria rimarrebbe costante, ma soltanto un’interruzione della crescita di tali servizi per i prossimi tre anni (dopo di che la spesa potrebbe ricominciare a crescere in linea con il Pil reale). In sostanza nel 2019 si dovrebbero ripianare (con l’aumento dell’IVA) alcuni dei tagli di tassazione introdotti, a meno di voler ripetere di nuovo quanto fatto in passato, cioè rimandare di un altro anno il pareggio di bilancio.[. Una nota tecnica: In linea di principio, ci sarebbe un effetto restrittivo dal congelamento della spesa primaria in termini reali, perché la spesa aumenterebbe meno del Pil potenziale. Cosa succederebbe se invece la spesa primaria fosse congelata in termini nominali (con le altre voci non modificate rispetto alla simulazione precedente)? La spesa primaria reale verrebbe ridotta e il pareggio di bilancio sarebbe raggiunto a cavallo tra 2018 e 2019. In questo caso, pero’ la crescita reale potrebbe essere inferiore rispetto a quella prevista nella NADEF nel breve periodo dato che la politica di bilancio risulterebbe un po’ piu’ restrittiva che nel quadro della NADEF.
La storia infinita delle privatizzazioni mancate
La lettera recitava: “In primo luogo, al fine di accelerare la riduzione del rapporto debito/Pil e preservarlo dal rischio di eventuali shock macroeconomici, il Governo ha deciso di innalzare all’1 per cento del Pil, per il 2019, l’obiettivo di privatizzazione del patrimonio pubblico”.[. Il Ministro Di Maio ha però precisato che si tratterà principalmente di dismissioni di patrimonio immobiliare, affermando che “non ci saranno dismissioni di gioielli di famiglia. Una soluzione utilizzata in passato è stata quella delle società di cartolarizzazione (si veda il Box 1 relativo a SCIP1 e SCIP2), in cui lo Stato vendeva alla società di cartolarizzazione tutti gli immobili interessati, incassando subito il credito e successivamente la società avrebbe provveduto alla vendita degli immobili. L’unico anno in cui un governo è riuscito a compiere una privatizzazione superiore ai 18 miliardi è stato il 1999, in cui furono incassati proventi per 22,6 miliardi di euro: le principali operazioni furono dismissioni di consistenti quote dello Stato in Enel, UNIM (patrimonio immobiliare ex-Ina) e Mediocredito Centrale.[. A fronte dei 18,2 miliardi di euro previsti per il 2019, i possibili proventi sarebbero non superiori a 8,4 miliardi di euro, rispetto ai 5,5 miliardi attualmente previsti per il 2019 nel Documento Programmatico di Bilancio di ottobre 2018. BOX 1: Le operazioni di cartolarizzazione SCIP1 e SCIP2 L’idea di dismettere il patrimonio immobiliare dello Stato attraverso operazioni di cartolarizzazione ha come scopo quello di consentire la conversione di immobili di proprietà pubblica in strumenti finanziari più liquidi e facilmente collocabili sui mercati. La prima operazione, denominata “SCIP1”, è partita nel novembre 2001 con il trasferimento alla società di cartolarizzazione di 27.250 immobili residenziali e 262 immobili commerciali di proprietà di sette enti previdenziali pubblici, per un valore di mercato complessivo stimato in circa 5,1 miliardi di euro.
Il mercato dei titoli di Stato
La credibilità dello Stato nel mantenere gli impegni presi, il buon funzionamento delle aste e del mercato secondario sono tutti fattori rilevanti per garantire la fiducia degli investitori e quindi il piazzamento di tutti i titoli ad ogni emissione. Sono importanti però anche gli aspetti tecnici relativi al funzionamento del mercato che riguardano il mercato primario, quello in cui avviene il collocamento, e il mercato secondario, dove gli investitori possono liquidare le proprie posizioni prima della scadenza. Infatti, un compratore che vince l’asta perché ha offerto il prezzo più alto tra tutti quelli congrui sta offrendo un prezzo sopra la valutazione media del prezzo di rivendita del titolo, quindi è più esposto a rischio di perdita nel mercato post-asta. In particolare, le banche partecipanti sono scelte tra gli operatori Specialisti in titoli di Stato, i quali svolgono la funzione di “market maker”, ovvero “fanno il mercato” determinando il prezzo di acquisto e di vendita dei titoli.[. Maggiore è il numero degli ordini presenti, maggiore la liquidità del mercato e, quindi, l’efficienza del processo di formazione dei prezzi, l’attrattività del mercato per i potenziali investitori e la possibilità per loro di ottenere il miglior prezzo date le condizioni generali del mercato. Il mercato secondario è caratterizzato da un aggiornamento continuo dei prezzi dei titoli, poiché questi si formano combinando ordini che hanno prezzo, quantità e tempo differenti e sono un riflesso delle condizioni alle quali gli operatori sono propensi a stipulare i contratti di compravendita. Essendo intermediari che operano con funzioni di market maker sul mercato telematico all'ingrosso dei titoli di Stato, gli Specialisti in titoli di Stato sono anche chiamati “primary dealers”.
Può un aumento della spesa pubblica portare a una riduzione del deficit pubblico?
Il reddito Y è determinato interamente dal lato della domanda, come nel modello keynesiano standard, ed è dato da: Y = P + G Dove P è la spesa privata (concettualmente per consumi e investimenti) e G è la spesa pubblica. Assumiamo che la spesa privata dipenda dal reddito disponibile del settore, che a sua volta dipende dal livello di tassazione t. P = +c (Y – tY) = + c (1-t)Y Dove è una costante e c è la propensione marginale alla spesa del settore privato. Il che significa che un aumento della spesa pubblica può portare a un miglioramento del saldo di bilancio solo se l’aliquota di tassazione è superiore al 100%. L’idea che la propensione alla spesa sia maggiore dell’unità appare però assolutamente implausibile, sia in punto di logica sia alla luce delle stime econometriche che difficilmente forniscono valori maggiori di 0,6. Inoltre la diseguaglianza che deve essere soddisfatta affinché il bilancio migliori a seguito di un aumento della spesa pubblica (e senza dover ipotizzare un’aliquota di tassazione superiore al 100 per cento) diventa: Risolvendo per la propensione alla spesa (c) si ottiene: Con m=0,3 e t=0,42, si ottiene c >; 1,51. Quindi, in una economia aperta all’estero, la propensione alla spesa del settore privato necessaria perché un aumento della spesa possa portare a un miglioramento del saldo di bilancio deve essere non solo superiore a uno ma molto più elevata dell’unità, rendendo ancora più implausibile tale risultato. In conclusione, non è possibile, almeno stando all’analisi del moltiplicatore keynesiano, che un aumento della spesa (o una riduzione delle tasse) porti ad un aumento del Pil e del gettito fiscale di entità tale da riportare il bilancio al suo equilibrio inziale.
3 indicatori economici a confronto, dal 1861
Il rapporto debito pubblico/Pil Il primo indicatore è il livello del debito pubblico espresso in rapporto al Pil. Il governo prevede che quest’anno il rapporto debito pubblico/Pil aumenti dal 134,8 per cento del 2019 al 155,7 per cento. Negli anni successivi, il debito scese rapidamente grazie agli accordi di Washington del 14 novembre 1925 e di Londra del 27 gennaio 1926, nell’ambito della definizione delle riparazioni di guerra dovute dai tedeschi ai vincitori della prima guerra mondiale. Il rapporto deficit pubblico/Pil Il secondo indicatore è il rapporto tra deficit e Pil. Il governo prevede che nel 2020 il rapporto deficit/Pil salga al 10,4 per cento. Non si tratta di un record: durante la prima guerra mondiale il deficit fu in media del 22 per cento annuo (1914-1918); durante la seconda fu del 23 per cento (1940-1945) con un picco del 33 per cento; infine, nel periodo dal 1975 al 1995 fu in media del 9,5 per cento. Il finanziamento monetario del deficit teneva anche basso il differenziale tra tasso di interesse e tasso di crescita: dalla seconda guerra mondiale ai primi anni ’80, gli interessi impliciti pagati sul debito erano minori rispetto al tasso di crescita nominale del Pil e questo conteneva il rapporto debito/Pil. 3. Di conseguenza, per evitare un aumento tendenziale del debito e del relativo carico di interessi, i paesi dovrebbero attuare politiche di graduale riduzione del rapporto debito pubblico/Pil in periodi non caratterizzati da shock, in modo da consentire un aumento del debito in presenza di sorprese negative. Nel contesto italiano, dal 1861 si sono verificati ben 16 shock negativi che hanno aumentato il rapporto debito/Pil di oltre 10 punti percentuali e sono per lo più legati alle dinamiche delle due guerre mondiali e a momenti di grave crisi economica.
Lo spread: cos'è e quali conseguenze ha sulla nostra vita
Se un titolo italiano, diciamo un BTP a 10 anni, rende il 3,5 per cento e l’analogo titolo tedesco, ossia il Bund a 10 anni, rende lo 0,5 per cento, diciamo che lo spread è pari a (3,5 per cento - 0,5 per cento), ossia al 3,0 per cento. Ogni centesimo di punto percentuale equivale a un punto base, per cui se diciamo che lo spread è aumentato da 10 punti base, da 300 a 310, intendiamo dire che il rendimento del titolo italiano eccede quello dell’analogo titolo tedesco non più di 3,0 punti percentuali, ma di 3,1. Questa variazione può essere avvenuta perché è sceso, poniamo dallo 0,5 per cento allo 0,4 per cento, il rendimento del titolo tedesco oppure perché è aumentato il rendimento del titolo italiano, dal 3,5 per cento al 3,6 per cento. I titoli tedeschi sono considerati praticamente privi di rischio nel senso che si è sostanzialmente certi che lo Stato tedesco farà fronte alle proprie obbligazioni, ossia al pagamento di cedole e capitale, in modo puntuale. Qual è la situazione degli altri paesi dell’eurozona? Anche gli altri paesi dell’eurozona hanno uno spread positivo rispetto alla Germania, ma è più basso di quello italiano: ad esempio, alla data del 11 ottobre a metà giornata, l’Olanda aveva uno spread di soli 11 punti base e la Francia di 36. Applicando il costo medio del debito tedesco allo stock di debito italiano in rapporto al Pil (131,2 per cento a fine 2017), si ottiene un onere per interessi pari al 2,1 per cento del Pil, invece del 3,8 per cento che è quello che l’Italia ha effettivamente speso nel 2017. In Italia, il punto di partenza era più alto (26 per cento nel 2007), la situazione è peggiorata negli anni della crisi dei debiti sovrani (29,9 per cento nel 2012) e non è migliorata negli anni successivi, tanto che nel 2017 si collocava ancora 28,9 per cento.
Il debito pubblico in Italia: perchè è un problema e come se ne esce
Anche alla luce di queste considerazioni, il giudizio unanime degli autori di questo volume è che per l’Italia il problema del debito pubblico è molto serio. La situazione è più grave quando il tasso d’interesse è persistentemente maggiore del tasso di crescita dell’economia: questa situazione genera il cosiddetto “effetto palla di neve”, ossia l’accumulo di debito per effetto dell’interesse composto, che obbliga a tenere un livello più elevato dell’avanzo primario. Questa è anche l’opinione di autorevoli economisti: in particolare, Eichengreen e Panizza [2] hanno studiato molti episodi di consolidamenti fiscali giungendo alla conclusione che avanzi quali quelli che sono richiesti all’Italia non sono realistici. La prima è che ristrutturare ha effetti recessivi sulla domanda interna perché è una tassa sulla ricchezza e può causare una crisi del credito a causa sia delle perdite delle banche che del peggioramento della reputazione che colpisce le imprese locali quando c’è un default dello stato. Sebbene il suo argomento principale sia che, in questo contesto, il debito pubblico potrebbe avere costi minori di quelli che generalmente gli vengono attribuiti, egli conclude affermando che «l’obiettivo della mia lezione non è di argomentare per più debito, specialmente nell’attuale contesto politico. Ne consegue che la presenza di un elevato debito pubblico, specialmente con una dinamica crescente, costituisce un fattore di vulnerabilità particolarmente importante, in grado di alterare le scelte di spesa, anche in periodi di tassi di interesse straordinariamente bassi. Ma la questione centrale è che, come si è accennato, il differenziale tra tasso di crescita dell’economia e tasso di interesse è endogeno rispetto al livello di debito.
Aiuti di Stato: la Commissione sta davvero penalizzando i Paesi ad alto debito?
La Commissione, oltre ad aver accordato flessibilità sulle politiche di bilancio, ha introdotto un nuovo “Quadro temporaneo” sugli aiuti di Stato per permettere agli Stati di liberare le risorse necessarie. Intanto, in questi giorni, si discute se la Commissione stia penalizzando i Paesi ad alto debito nell’accordare gli aiuti, ma l’Italia risulta il secondo Paese europeo per aiuti notificati sul Pil, dopo la Germania. Per “aiuto di Stato” si intende qualsiasi trasferimento di risorse pubbliche da parte dello Stato alle imprese, creando un vantaggio economico che rischia di falsare la concorrenza. Gli aiuti di Stato sono regolamentati dagli articoli 107 e 108 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), e vietati se non in caso di “obiettivi di comune interesse” e nel caso di correzione dei cosiddetti “fallimenti di mercato”. Questo sostegno può essere integrato con gli aiuti “de minimis” (per un massimo di 200.000 euro) ed altre tipologie di aiuti di Stato, portando così l’aiuto massimo per la singola impresa a 1 milione di euro. Le misure italiane All’interno dei circa 300 miliardi di aiuti di Stato che la Commissione ha approvato per l’Italia sono comprese misure economiche di diverso impatto. Tav. 1: Aiuti di Stato per Paese Paese % su totale accordati Aiuti in miliardi Aiuti di Stato / Pil Germania 51,0% 994,5 28,9% Italia 15,5% 302,2 16,9% Francia 17,0% 331,5 13,7% Belgio 3,0% 58,5 12,4% Polonia 2,5% 48,7 9,2% Regno Unito 4,0% 78 3,1% Altri 7,0% 136,5 - Totale 100% 1950 Fonte: elaborazioni Osservatorio CPI su dati Commissione UE e AMECO [1] Per una definizione più dettagliata: http://www.politicheeuropee.gov.it/it/attivita/aiuti-di-stato/ .
Il DEF sottostima la crescita del debito?
Tuttavia, studiando nel dettaglio una delle componenti della crescita del debito, il cosiddetto aggiustamento stock-flussi (SFA), c’è il rischio che il governo stia sottostimando l’aumento del debito. L’aggiustamento stock-flussi[2] è la parte di variazione del debito non spiegata dal deficit pubblico. Lo squilibrio tra spese ed entrate dello stato deve essere finanziata attraverso un aumento del debito, il che farebbe pensare che l’aumento del debito sia sempre pari al deficit. In realtà non è così perché ci sono alcune poste che comportano un aumento del debito senza influire sul deficit, come è definito sulla base delle regole statistiche italiane ed europee. L’aggiustamento stock-flussi è quindi pari alla differenza tra l’aumento del debito e il deficit e include voci come il costo dei derivati, le risorse necessarie per incrementare le riserve di liquidita, le entrate da privatizzazioni, discrepanze statistiche e scostamenti tra contabilità di cassa e contabilità di competenza. Il motivo è che, al netto delle privatizzazioni, per le quali il DEF riporta previsioni specifiche, l’aggiustamento stock-flussi è molto più basso di quanto indicato lo scorso dicembre. L’aggiustamento stock-flussi, e in particolare i problemi di trasparenza relativi alla sua composizione, sono stati già trattati in due precedenti note dell’Osservatorio: https://osservatoriocpi.unicatt.it/cpi-NADEF_2018_SFA_OssCPI.pdf https://osservatoriocpi.unicatt.it/cpi-Trasparenza_dei_conti_pubblici.pdf #stockflussi #debitopubblico Archivio studi e analisi Il DEF sottostima la crescita del debito? (16 aprile 2019).
Come funzionano gli acquisti di titoli pubblici della BCE?
A fine aprile 2020, lo stock di titoli acquistati dalla BCE nell’ambito del suo APP ammontava ad oltre 2.800 miliardi di euro. Il ritmo degli acquisti mensili dell’APP è variato nel corso del tempo, oscillando tra un massimo di 80 miliardi al mese (nel periodo aprile 2016 – marzo 2017) e un minimo di 15 miliardi al mese (tra ottobre e dicembre 2018). Il 24 marzo il Consiglio direttivo della BCE ha poi introdotto un ulteriore programma straordinario di acquisto di titoli sia pubblici che privati (Pandemic Emergency Purchase Programme, PEPP) del valore di 750 miliardi di euro; questo programma non rientra nell’APP, ma lo affianca temporaneamente con caratteristiche parzialmente diverse (vedi sotto). Come sono ripartiti i redditi e i rischi legati ai titoli acquistati? La ripartizione dei redditi e la condivisione dei rischi che derivano dall’acquisto di titoli pubblici nell’ambito del PSPP dipendono dalla tipologia del titolo in questione (Tav. 1). Per i titoli nazionali acquistati dalla BCE, i rischi sono condivisi e i redditi che maturano finiscono nel bilancio della BCE, per poi essere redistribuiti alle BCN in base alla capital key al momento della distribuzione dell’utile di esercizio. Ha una dotazione complessiva di 750 miliardi e prevede l’acquisto di tutte le tipologie di titoli che possono essere acquistate nell’ambito dell’APP (quindi titoli sia pubblici sia privati). Il capitale totale della BCE è pari a 10,8 miliardi, di cui 8,8 miliardi conferiti dalle 19 banche centrali nazionali dei paesi dell’Eurozona e 2 miliardi dalle 8 banche centrali nazionali dei paesi con valuta diversa dall’euro.
Il debito pubblico cresce, ma meno del previsto
In rapporto al Pil, possiamo stimare che dal 2018 al 2019 il debito sia aumentato solo di 0,2 punti percentuali (da 134,8 a 135,0 per cento), meno di quanto previsto dal governo nei mesi scorsi. Secondo la Banca d’Italia, nel 2018 il debito pubblico è risultato pari a 2.380,6 miliardi di euro (134,8 per cento del Pil), un valore pressoché identico a quello stimato dal governo nella NADEF di settembre. Mentre la NADEF prevedeva un aumento del debito di circa 40 miliardi, la Banca d’Italia certifica che l’aumento è stato di soli 28,7 miliardi, cioè oltre 11 miliardi in meno del previsto. Come avevamo notato in passato, e come si può vedere nelle Figure 1 e 2, negli ultimi anni questa differenza è stata sempre positiva (cioè il debito aumentava più del deficit): [2] in altre parole, oltre al deficit c’erano altri fattori che contribuivano ad un aumento del debito pubblico. Combinando questi dati con i dati preliminari sul Pil 2019 pubblicati di recente dall’Istat, abbiamo stimato che il rapporto tra debito pubblico e Pil a fine 2019 era pari al 135,0 per cento, contro il 135,7 per cento previsto dalla NADEF di settembre. Il rapporto debito/Pil aumenta quindi solo di 0,2 punti percentuali dal 2018 al 2019: meglio rispetto a quanto previsto nei mesi scorsi, anche se rimane su un sentiero di crescita che dovremmo invertire se vogliamo ridurre l’esposizione al rischio del nostro Paese. Tra questi fattori rientrano alcune convenzioni statistiche (dovute al fatto che alcune operazioni, per esempio le spese a fronte di contratti derivati, non vengono considerate nel calcolo del deficit ma devono comunque essere finanziate), variazioni di liquidità, operazioni di privatizzazione e scostamenti tra contabilità di cassa e di competenza.
La monetizzazione del debito pubblico:criticità ed esperienze passate
È piuttosto diffusa l’idea che il problema del finanziamento del debito pubblico sparirebbe se l’Italia avesse una propria moneta con cui finanziare i titoli in scadenza eliminando il rischio di un default. In un mondo in cui i tassi di interesse, per effetto di attacchi speculativi aspettative che si autorealizzano, raggiungono livelli troppo elevati, ha senso che la Banca centrale intervenga per ridurli. L’inflazione effettiva (non quella misurata dai dati ufficiali che erano distorti da pratiche non in linea con i principi statistici internazionali) era di poco inferiore al 40 per cento nel 2016 ed è trascinata da elevati squilibri di finanza pubblica. Il deficit primario era del 5,5 per cento del Pil nel 2015-16, con tassi di crescita della base monetaria intorno al 35 per cento per quasi tutto il 2015 e del 25 per cento nel corso del 2016 (si veda il rapporto del FMI sull’Argentina del novembre 2016). Essere monetaristi significa pensare che la politica monetaria debba consistere in un aumento della moneta a tassi costanti, nell’ipotesi di una stabilità della domanda di moneta che non sembra essere presente almeno nelle economie moderne. Primo, il governo giapponese detiene importi elevati di attività finanziarie liquide (compresi i titoli di stato, insomma è una partita di giro), al netto di queste attività finanziarie il debito scende al 119 per cento. Spesso, questa situazione genera attacchi speculativi pur in presenza di cambi fluttuanti e porta a elevati livelli dei tassi di interesse che riflettono non più un premio al rischio di insolvenza (dato che la Banca centrale può monetizzare il debito), ma un rischio di svalutazione e di inflazione.
Il peso dell'evasione fiscale sul debito pubblico
L’evasione fiscale ha da decenni afflitto l’economia italiana in maniera più acuta che nella maggior parte dei paesi dell’area dell’euro, con pesanti conseguenze sia per il bilancio dello stato, sia per la pressione fiscale sostenuta da chi paga le tasse. L’ultima Relazione sull'economia non osservata e sull'evasione fiscale e contributiva prodotta dalla Commissione guidata da Enrico Giovannini (ripreso nella Nota di Aggiornamento al Documento di Economia e Finanza dell’ottobre 2017) [1] stimava che, nella media del triennio 2012-2014, i mancati pagamenti di tasse e contributi fossero ammontati a 108 miliardi di euro l’anno. Questa stima però copre solo circa tre quarti delle entrate pubbliche, non tenendo conto di alcune voci di entrata piuttosto rilevanti (i contributi per il lavoro autonomo e altre tasse); essa quindi rappresenta una sottostima della perdita effettiva. Dal 2010 non c’è però stato più un sostanziale miglioramento, anche se stime preliminari contenute nel rapporto Giovannini suggeriscono una riduzione dal 27,6 per cento nel 2014 al 26,4 per cento nel 2015 per quel che riguarda la propensione all’evasione dell’IVA. Abbiamo visto che le minori entrate derivanti l’evasione fiscale ammontavano a circa il 7 per cento del Pil nel periodo 2012-2014 (dell’8 per cento se teniamo conto delle mancate entrate su IRPEF da lavoro autonomo e altre tasse residuali). Conseguentemente, se l’evasione fiscale fosse stata anche solo di un ottavo più bassa di quella effettiva, le entrate pubbliche sarebbero state di almeno 1 punto percentuale di Pil più elevate di quelle effettive. Saremmo arrivati al 1992 con un debito di circa l’82 per cento (rispetto al realizzato 101 per cento), e al 2008 con un debito di poco superiore al 60 per cento e del 6 per cento più basso di quello di paesi, come la Francia, solo marginalmente toccati dagli attacchi speculativi.
Abbattere il debito con un'imposta patrimoniale?
Ma è davvero possibile e desiderabile imporre un’imposta di questo tipo? La ragioni a favore dell’imposta patrimoniale straordinaria La ragione principale per cui si guarda alla ricchezza delle famiglie italiane è che questa è molto elevata nel confronto internazionale. Un’imposta con queste caratteristiche è quella che fu introdotta dal governo Amato nella notte fra il 9 e il 10 luglio 1992 con un decreto emergenziale che impose un prelievo retroattivo sui conti correnti bancari del 6 per mille e l’ISI (imposta straordinaria immobiliare) con un’aliquota del 3 per mille. Il fatto che la patrimoniale a sorpresa non possa avere dimensioni tali da risolvere il problema del debito è un fattore che ne sconsiglia fortemente l’utilizzo perché essa darà luogo necessariamente a fughe di capitali che potrebbero aggravare la condizione finanziaria dello Stato. Probabilmente questo è quello che successe nell’estate del 1992: le imposte straordinarie di luglio aggravarono le fughe di capitali che erano già in corso e accelerarono la svalutazione della lira nel Sistema Monetario Europeo che ebbe luogo a settembre. Questa considerazione comporta che la base imponibile che verrebbe individuata sarebbe molto più piccola di quella teorica e riguarderebbe per lo più i patrimoni delle persone meno abbienti e meno istruite, che hanno solitamente più difficoltà a gestire i propri risparmi. Il terzo problema è che difficilmente un’imposta di grandi dimensioni e con le caratteristiche che si è detto (a cominciare dalla necessità di produrre e distribuire i moduli per le dichiarazioni) potrebbe essere tenuta segreta. Un’operazione del genere avrebbe però fortissime controindicazioni, la principale delle quali è che non potrebbe assolutamente avere dimensioni tali da risolvere il problema del debito e darebbe quindi luogo a massicce fuoriuscite di capitali che aggraverebbero le difficoltà finanziarie dello stato.
La ristrutturazione del debito tedesco nel 1953: è rilevante per i problemi di oggi?
Da un lato, il debito che fu cancellato all’epoca non era stato contratto liberamente dalla Germania ma era frutto di riparazioni di guerra risalenti addirittura al Trattato di Versailles. Quindi il debito che fu oggetto del negoziato era pari al 22,5 per cento del Pil. I debiti cancellati furono pari a 17,8 miliardi di marchi – 8,6 per i debiti post prima guerra mondiale e 9,2 per debiti post seconda guerra mondiale. L’escamotage che fu trovato fu quello di affermare al comma 1 dell’articolo 5 del LDA che le riparazioni della prima guerra venivano escluse dall’accordo e che alcuni debiti anteguerra della Germania sarebbero stati pagati solo in seguito alla riunificazione. Rimarrebbe dunque un 62 per cento di debiti che non sarebbero direttamente riconducibili alle riparazioni della guerra; di questi, il 30 per cento è rappresentato da debiti federali, il 6 per cento da debiti dei Lander e il 25 per cento da debiti contratti da privati. Nel frattempo, la fase di euforia aveva fatto sì che nei sei anni successivi all’inizio del piano Dawes la Germania ricevette un afflusso di capitali pari a 14,577 miliardi di marchi a fronte di 11,134 miliardi di marchi corrisposti alle diverse potenze vincitrici a titolo di riparazioni. Come detto, molti altri paesi, che avrebbero poi fatto default, avevano debiti di guerra con gli Stati Uniti (Tavola 4), ma, a riprova che le riparazioni di Versailles furono una componente importante del LDA, nessun paese aveva un debito paragonabile a quello della Germania. Il debito più rilevante era quello del Regno Unito nei confronti degli Stati Uniti che era di quasi 5 miliardi di dollari, una cifra di molto inferiore al debito della Germania, anche dopo le due ristrutturazioni degli anni venti (dm 40 miliardi equivalenti a quasi $10 miliardi).
Perchè l'obiettivo di crescita del Governo per il 2019 non sarà raggiunto
Il tasso di crescita del Pil per il 2019 si riferisce (ovviamente) al Pil totale del 2019 rispetto a quello del 2018 (lo dico perché alcuni credono che si riferisca solo al quarto trimestre del 2019 rispetto al quarto trimestre del 2018). Per cui si può avere un’idea di quanto sia facile raggiungere una crescita annuale, per esempio, dell’1 per cento, andando a vedere cosa questa implica per il sentiero del Pil trimestrale e quindi per i tassi di crescita del Pil trimestrale. Conosciamo i dati del Pil trimestrale fino al terzo trimestre del 2018 (con un poco entusiasmante -0,1 per cento di crescita rispetto al trimestre precedente). Primo trimestre del 2019: vista la debole congiuntura internazionale e il fatto che l’azione espansiva del reddito di cittadinanza e della quota 100 non avrà comunque effetto perlomeno fino al secondo trimestre, è difficile che la crescita riprenda nel primo trimestre del 2019. Ipotizziamo comunque (forse ottimisticamente) che la crescita sia leggermente positiva (0,1 per cento) Secondo trimestre del 2019: qui si può pensare a una accelerazione, per l’effetto espansivo del reddito di cittadinanza, ma occorre anche tener conto, pro quota, dell’effetto restrittivo delle misure prese nella legge di bilancio come copertura. Date queste ipotesi, quale dovrebbe essere il tasso di crescita medio trimestrale nella seconda parte del 2019 per raggiungere un certo tasso di crescita annuale? La risposta sta, con due varianti, è nella tavola seguente: Cominciamo dallo scenario della seconda colonna. Passiamo alla prima colonna: per raggiungere il tasso di crescita dell’1 per cento previsto dal governo (prima colonna, terza riga) sarebbe necessario che nella seconda parte del 2019 il tasso di crescita medio trimestrale fosse 1 per cento.
Tria 01/04/2019 Questa dichiarazione suggerisce che nel momento in cui fondi già stanziati vengono effettivamente spesi, non abbiano alcun impatto né sul deficit né sul debito. Durante la conferenza stampa di presentazione del rapporto dell’OCSE “Economic Survey of Italy 2019”, il ministro Tria ha dichiarato che l’Italia ha molte risorse già stanziate per investimenti pubblici e che un efficiente utilizzo di queste risorse non avrebbe importanti ricadute sulle finanze pubbliche. In effetti la scarsa efficienza dei processi di spesa italiani è nota: i tempi di realizzazione delle opere sono molto lunghi e, a causa di lentezze burocratiche e altri impedimenti, non si riesce spesso a spendere risorse già stanziate. La tesi avanzata dal Ministro e spesso sostenuta da altri esponenti del governo è che un efficientamento dei processi di spesa potrebbe sostenere l’economia senza impattare sullo stato delle finanze pubbliche, visto che i fondi sono già stati stanziati. Questa visione suggerisce che, nel momento in cui i fondi vengono stanziati, questi finiscano direttamente nelle spese del bilancio dello stato e che, quindi, nel momento in cui i fondi vengono effettivamente spesi, non abbiano alcun impatto né sul deficit né sul debito. In conclusione, se, come auspichiamo, il governo dovesse riuscire a sbloccare le risorse già stanziate e dare avvio ad un programma di investimenti pubblici, questo inciderebbero sui livelli di deficit e di debito pubblico. Un aumento della spesa per investimenti è stato già previsto nella legge di bilancio per il 2019 per cui se tale maggior spesa, rispetto all’anno scorso, si verificasse questo non causerebbe uno sforamento rispetto a quanto previsto in legge di bilancio.
La stretta fiscale del 2012 è servita a migliorare i conti pubblici: come si è detto, l’avanzo primario è aumentato dall’1 per cento del Pil nel 2011 al 2,3 per cento del Pil nel 2012. Quanto al deficit, questo si è ridotto dal 3,7 per cento del Pil nel 2011 al 2,9 per cento nel 2012, nonostante l’aumento della spesa per interessi, per poi continuare a scendere per effetto della discesa dei tassi di interesse che, come si è detto, non sarebbe stata possibile senza la stretta fiscale. Da un punto di vista puramente aritmetico, il motivo per cui non è sceso è che ridurre il rapporto a un livello più basso avrebbe richiesto un deficit più basso o un tasso di crescita più alto. Si potrebbe quindi semplicemente dire che per ridurre il debito più velocemente si sarebbe dovuto ridurre il deficit a un livello più basso e non lo si è voluto fare (cioè le politiche sono state più espansive di quanto sarebbe stato necessario per ridurre il debito). A questo punto qualcuno dirà che questo ragionamento è sbagliato perché si potrebbe aumentare il deficit e sperare che questo aumenti il tasso di crescita dell’economia in modo sufficiente da portare a una riduzione del debito. Il problema principale è che un maggiore deficit ha un effetto temporaneo sul tasso di crescita: se si “mettono più soldi in tasca alla gente” alzando il livello del deficit, il livello del Pil aumenta, ma il tasso di crescita del Pil aumenta solo nel primo anno. Poi il tasso di crescita del Pil torna al suo valore iniziale (perché i soldi in tasca alla gente non aumentano ulteriormente una volta che il deficit resta allo stesso, seppur più alto, livello), ma il deficit più elevato continua ad alimentare la crescita del debito.
Why restructuring of the Italian public debt should be avoided
L'Osservatorio Studi e documentazione Stampa, Video e Podcast Chiedi all'Osservatorio Chi siamo Dove Siamo Finanziatori Lavora con noi Studi e analisi Pachidermi e pappagalli Finanza pubblica per tutti Banche dati Serie storiche Documentazione ufficiale Stampa Video Podcast. The goal cannot be the restructuring of public debt: a restructuring in the absence of a credible fiscal plan would be a tremendous problem for Italy and cause harm to the rest of the Eurozone as well. Therefore,I am objecting to the idea that restructuring is a way to “solve the problem of the debt”, i.e. that it is an alternative to fiscal rectitude. The critical thing to have in mind is that restructuring the Italian debt is a different story from what various emerging economies dealt with by the IMF in recent decades and also from Greece. A small restructuring will cause the markets to expect a bigger one, and capital flight will be huge (unless accompanied by a significant shift in budgetary policy to make the debt sustainable in the context of an agreement with official creditors). A large restructuring, on the other hand, bringing the debt down from – say – 130% to 80%, will cause serious damage to domestic demand, thus making it more difficult to put the debt ratio on a sustainable path. Hence, the path to fiscal rectitude is far less painful without restructuring because restructuring reduces the debt, but causes significant damage to domestic demand.
È una buona idea vendere l'oro della Banca d'Italia?
Le riserve ufficiali Per meglio inquadrare l’importanza delle riserve auree, è bene dapprima soffermarsi sulle riserve ufficiali e sul ruolo che hanno per la stabilità dell’economia. La Banca d’Italia si occupa, tra le altre cose, di gestire le riserve ufficiali nazionali e, insieme alle banche centrali dell’Area Euro, una quota-parte di quelle della Banca Centrale Europea (BCE). Le riserve ufficiali nazionali, che ammontavano a circa 135,6 miliardi di euro al gennaio 2019, sono parte integrante delle riserve dell’Eurosistema e si compongono di riserve in oro, riserve in valuta estera, diritti speciali di prelievo presso il FMI, posizioni di riserva verso il FMI, e altre attività di riserva. Inoltre, adeguate riserve nazionali permettono di ottemperare alle eventuali richieste da parte della BCE, che può richiedere ulteriore conferimento di riserve in circostanze specifiche, e di rispettare gli impegni verso organismi internazionali, come il Fondo Monetario Internazionale. Tale effetto sarebbe tutt’altro che trascurabile, considerando che le circa 2.500 tonnellate della Banca d’Italia impatterebbero enormemente sulle poco meno di 5.000 tonnellate che hanno rappresentato l’offerta globale di oro nel 2018.[. L’alternativa di vendere oro poco per volta, offrendo quote ridotte delle riserve auree in diverse tranches, potrebbe ridurre l’impatto delle vendite sul prezzo dell’oro, ma solo se il mercato non riflettesse nei suoi comportamenti correnti le aspettative delle future vendite, il che è improbabile. Si vedano le serie storiche sui valori delle riserve ufficiali disponibili sul sito della Banca d’Italia, disponibili a https://infostat.bancaditalia.it/inquiry/#eNpzDbDycbb1DNFx9Quz9fEMc9VxDomwdfF0c9Nx9rV1cvTz9gxx9PF01A%2FzdA23cg51cvV0CbYN%0ACQp1MzA0MNAvLqhMz0ksLtZPLcBljj4AcYgcRQ%3D%3D [2] Nel 1999 il governo inglese si rese protagonista della vendita di un’ingente quantità d’oro che provocò un vertiginoso crollo del prezzo nel mercato globale.
Gli ultimi dati sulla crescita e l'andamento del rapporto tra debito pubblico e Pil
Nella situazione di bassa crescita in cui si è aperto il 2019, esiste il rischio concreto che quest’anno non si registri alcuna riduzione del rapporto tra debito pubblico e Pil. Anzi, il rapporto debito/Pil a fine 2019 potrebbe crescere di circa un punto percentuale, arrivando al 132,6 per cento. La riduzione dello spread nelle ultime settimane potrebbe migliorare il clima delle aspettative, il che potrebbe, nel contesto di una economia europea che continua a crescere, far tornare in positivo il tasso di crescita del nostro Pil. Ipotizziamo nel primo trimestre del 2019 un aumento dello 0,1 per cento. Nei trimestri successivi, l’introduzione del reddito cittadinanza e della quota 100, e il permanere dello spread ai livelli più bassi raggiunti di recente, potrebbe portare a un aumento dello 0,25 per cento nel secondo trimestre e, volendo essere generosi, dello 0,4 nei due trimestri successivi. Tutto sommato, la crescita del Pil nominale potrebbe essere dell’1,6 per cento, 0,7 per cento più bassa di quanto previsto dal governo. Per quanto riguarda il rapporto tra debito pubblico e Pil, abbiamo ipotizzato che il governo non raggiunga l’obiettivo di 18 miliardi (1 per cento del Pil) come entrate da privatizzazioni. Le ipotesi fatte in questo esercizio hanno naturalmente un peso fondamentale: se la crescita nell’anno fosse più bassa di quella prevista, anche a causa di shock esterni, il rapporto tra debito pubblico e Pil tenderebbe a crescere significativamente. Per chiarimenti su cosa sia l’aggiustamento stock-flussi e su come venga trattato nei documenti del governo, una recente nota dell’Osservatorio è disponibile al link https://osservatoriocpi.unicatt.it/cpi-NADEF_2018_SFA_OssCPI.pdf #debitopubblico #pil Archivio studi e analisi Gli ultimi dati sulla crescita e l'andamento del rapporto tra debito pubblico e Pil (1 febbraio 2019).
Ma gli effetti di un acquisto di titoli sul mercato primario sarebbero davvero così diversi rispetto a quelli dell’acquisto sul mercato secondario? In realtà, dal punto di vista delle condizioni di finanziamento per lo Stato sembra esserci poca differenza. del TFEU, alla BCE è vietato l’acquisto di titoli di Stato sul mercato primario, il che significa che non può partecipare direttamente alle aste; gli acquisti sono quindi avvenuti e stanno avvenendo esclusivamente sul mercato secondario. Ma gli effetti di un acquisto di titoli sul mercato primario sarebbero davvero così diversi rispetto a quelli che già abbiamo con l’acquisto sul mercato secondario? O è vero quanto suggerito invece anche dal modello IS-LM? Consideriamo i due scenari. Tuttavia, è evidente che, nel decidere quanti titoli domandare all’asta e a quale prezzo acquistarli, gli investitori privati terranno conto del fatto che la banca centrale ha avviato un programma di acquisto di titoli di Stato sul mercato secondario. In altre parole, gli investitori sanno che la domanda di titoli di Stato sul mercato secondario è elevata (grazie al programma della banca centrale) e dunque non ci saranno particolari difficoltà a rivendere i titoli che acquisteranno. In primo luogo, nei giorni precedenti l’emissione di un nuovo titolo la banca centrale può acquistare sul mercato secondario titoli simili a quello che verrà emesso: in tal caso, gli investitori possono “compensare” i titoli venduti alla banca centrale acquistando una maggiore quantità di titoli simili all’asta. In conclusione, se ciò che interessa è l’effetto sul costo del finanziamento per degli Stati, non sembra esserci una differenza significativa tra acquisti della banca centrale effettuati sul mercato primario e acquisti sul mercato secondario.
Spread in calo: quanto si risparmia?
section --> L'Osservatorio Studi e documentazione Stampa, Video e Podcast Chiedi all'Osservatorio Chi siamo Dove Siamo Finanziatori Lavora con noi Studi e analisi Pachidermi e pappagalli Finanza pubblica per tutti Banche dati Serie storiche Documentazione ufficiale Stampa Video Podcast. Spread in calo: quanto si risparmia? Home Studi e documentazione Studi e analisi Archivio studi e analisi Spread in calo: quanto si risparmia? Spread in calo: quanto si risparmia? di Edoardo Frattola 11 luglio 2019 Nelle ultime settimane lo spread Btp-Bund è sceso rapidamente fino a 200 punti base. È una buona notizia per i conti pubblici italiani: in base ai nostri calcoli, il risparmio dovuto a minore spesa per interessi rispetto alle previsioni del governo potrebbe attestarsi a 200 milioni nel 2019 e 1,6 miliardi nel 2020. Dopo essere stato stabilmente sopra i 250 punti base tra aprile e maggio, nelle ultime settimane lo spread tra Btp e Bund tedeschi è sceso intorno ai 200 punti base, il valore più basso da maggio 2018. Il risparmio potrebbe quindi essere un po’ più alto di quanto riportato sopra, ma lo scarto sarebbe comunque contenuto date le dimensioni delle emissioni per coprire l’aumento del debito rispetto a quelle dello stock di debito esistente. D’altro canto, è possibile che la Legge di Bilancio ipotizzasse una riduzione dello spread nel 2020 al di sotto di 250 punti base: se così fosse, il risparmio per il prossimo anno, rispetto a quanto ipotizzato nel quadro di finanza pubblica di medio periodo, sarebbe inferiore a quanto stimato. Si noti infine che i risparmi sopra riportati, per quanto stimati rispetto alle previsioni della Legge di Bilancio, dovrebbero essere applicabili anche rispetto alle previsioni di spesa per interessi contenute nel DEF pubblicato in aprile, quando lo spread era solo di poco superiore ai 250 punti base.
Quanto ci è costato e quanto ci costerà l'aumento dello spread?
L'Osservatorio Studi e documentazione Stampa, Video e Podcast Chiedi all'Osservatorio Chi siamo Dove Siamo Finanziatori Lavora con noi Studi e analisi Pachidermi e pappagalli Finanza pubblica per tutti Banche dati Serie storiche Documentazione ufficiale Stampa Video Podcast. Resta però più elevato del livello della prima metà di maggio (130 punti). Inoltre, nel periodo giugno-novembre sono stati emessi titoli con spread anche più elevati e su questi, indipendentemente da quello che accadrà in futuro ai tassi di interesse, si pagheranno interessi più elevati di quanto sarebbe stato ipotizzabile a inizio maggio. La prima riga indica la maggior spesa di interessi per il 2018 e i prossimi anni ipotizzando che lo spread resti a un livello di 250 punti base (rispetto alla spesa che si sarebbe verificata se lo spread fosse rimasto al livello della prima metà di maggio). Rispetto a stime precedenti (quando lo spread era intorno ai 300 punti base), la stima della maggiore spesa è scesa: per il 2019 l'aggravio è di circa 4 miliardi (contro una precedente stima di 5-6 miliardi), che crescono a 6,6 miliardi nel 2020 e a 8,6 miliardi nel 2021. La seconda riga indica il maggior costo per i titoli che sono stati già emessi e che quindi non sarebbero più recuperabili anche se lo spread scendesse ulteriormente. spread #debitopubblico Archivio studi e analisi Quanto ci è già costato e quanto ci costerà l’aumento dello spread? (23 dicembre 2018).
Andamento trimestrale dei titoli di stato italiani
Le osservazioni più rilevanti sul primo trimestre del 2019 sono le seguenti: Il Dipartimento del Tesoro ha emesso più di quanto giungeva a scadenza, comportando un ulteriore aumento del debito pubblico. L’ammontare dei titoli di stato emessi è stato pari a 118,2 miliardi di euro, a fronte di 86,1 miliardi di euro di titoli in scadenza, con un saldo di 32,1 miliardi. A fine gennaio, infatti, le disponibilità liquide del Tesoro sono aumentate di 44 miliardi rispetto al mese precedente, raggiungendo il livello storicamente piuttosto elevato di 79 miliardi, e ci si può aspettare una crescita complessiva nel primo trimestre dell’anno. Le emissioni sono state particolarmente forti a gennaio e nei primi giorni di febbraio (il 40 per cento delle emissioni del trimestre si sono concentrate a gennaio), forse perché il Tesoro ha voluto approfittare della discesa dello spread dopo i picchi raggiunti a fine 2018. Lo spread è però sceso ulteriormente nei due mesi seguenti, il che, col senno di poi, avrebbe consentito un minor costo di finanziamento se le emissioni fossero state ripartite in modo più uniforme nel corso del trimestre. Riguardo alla struttura per scadenza dei titoli emessi, si può notare che il saldo tra emissioni e scadenze è stato positivo per tutti i titoli di stato, tranne che per BTP decennali e quindicennali (Figure 1 e 2). Il primo trimestre del 2019 è stato caratterizzato dall’emissione di titoli a breve e a lunghissima scadenza, lasciando approssimativamente invariata la vita media del debito (la vita media del debito è passata da 6,73 anni a gennaio a 6,82 a marzo), ma determinando una maggiore dispersione nelle durate (Tabella 1).