Università Cattolica del Sacro Cuore

Tanta spesa ma pochi investimenti

di Carlo Cottarelli

La Stampa, 15 maggio 2020

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Passerà probabilmente ancora qualche giorno prima che il decreto Rilancio venga pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale. Non resta, per ora, che affidarsi alle bozze che, come di consueto, sono circolate prima del consiglio dei ministri di mercoledì scorso. La prima impressione nel leggere il decreto è che manchi alla fine dell’ultimo articolo una cosa. Vi ricordate i fumetti di una volta in cui le storie non si concludevano ma si rinviava al numero successivo? Ecco, manca la scritta: “continua”. Sì, perché questo non sarà certo l’ultimo decreto anticrisi di questo annus horribilis. Vi spiego perché.

Il decreto è molto complesso. Le bozze circolate esagerano un po’ la sua lunghezza perché includono anche pezzi della “relazione illustrativa”, il documento che accompagna sempre le nostre leggi per “tradurre” norme altrimenti incomprensibili ai più. Ma anche al netto di questi pezzi si tratta comunque di circa 110.000 parole. Se a queste aggiungiamo i due decreti precedenti (i decreti “di marzo” e “liquidità”) si arriva sulle 190.000 parole. Gli Stati Uniti, nel Cares Act e altri provvedimenti anticrisi, si sono fermati a 61.000 parole, meno di un terzo. Ma la nostra lingua è così bella che ci piace molto usarla… Ma non è solo una questione di verbosità. È il numero dei provvedimenti inclusi nel decreto Rilancio che impressiona: sulla base di un calcolo approssimato, si tratta di circa 600 diverse misure, tante con effetti finanziari, tante senza, ma che comunque comportano azioni che, in linea di principio, devono essere realizzate dalla pubblica amministrazione. Il Cares Act contiene meno di 100 misure. Già questo ci dà un’idea del differente approccio: meno misure, ma di maggior impatto negli USA, tante, più piccole, spesso settoriali, da noi. Questa maggiore complessità dovrà essere gestita dalla nostra pubblica amministrazione, col rischio di ritardi nell’implementazione.

Districarsi in questo ginepraio di norme non è facile. Ma alcuni tratti sono abbastanza chiari.

Primo, si tratta soprattutto di misure “difensive”, misure per attenuare l’effetto dello shock economico, più che per rilanciare davvero l’economia. Gli stanziamenti per cassa integrazione, bonus autonomi, assegni vari, trasferimenti a fondo perduto per imprese che hanno subito perdite rappresentano il grosso della manovra. Sono integrazioni di reddito necessarie: perdi 100, lo stato ti restituisce 50. Ma per una ripartenza serve una spinta esogena sulla domanda di beni e servizi in una situazione in cui le famiglie e le imprese, per la grande incertezza in cui versano, tenderanno naturalmente a essere prudenti nelle loro spese. Qualche misura veramente espansiva c’è (l’ecobonus, la maggiore spesa per sanità e scuola), ma si tratta di una minoranza rispetto a quelle difensive.

Secondo, le misure temporanee sono di gran lunga prevalenti rispetto a quelle permanenti. Questo non sarebbe un problema, se la crisi del coronavirus fosse di breve durata. Misure permanenti aggravano permanentemente lo stato dei nostri conti pubblici e, con rare eccezioni, dovrebbero essere evitate. Resta però il fatto che, se la crisi economica si prolungasse, anche per effetto del distanziamento necessario quando saremo tornati al lavoro, occorrerebbero altre misure temporanee. A mo’ di esempio, i finanziamenti per la cassa integrazione sono stati estesi solo fino ad agosto, quelli per gli autonomi solo fino a maggio.

Terzo, si tratta quasi interamente di misure che aumentano il deficit corrente. Gli stanziamenti per investimenti pubblici o, in generale, per attrezzature in qualche modo durevoli (come i nuovi posti in terapia intensiva) sono molto più limitati. Insomma, si spenderà molto, ma poco resterà alle generazioni future. Questo è ovviamente collegato alla natura emergenziale e difensiva delle misure prese, ma resta il fatto che la nostra capacità produttiva non beneficerà molto delle misure prese. Una possibile eccezione è rappresentata dal maxi fondo gestito dalla Cassa Depositi e Prestiti, i cui criteri di intervento saranno però definiti in un decreto successivo.

Nuovi interventi sembrano allora inevitabili, a meno di una rapida fine dell’emergenza sanitaria. Servirà un piano massiccio di investimenti pubblici, anche perché questi avrebbero probabilmente un impatto più forte sull’attività economica di quanto avrebbero trasferimenti a pioggia a famiglie e imprese (data l’attuale fase di incertezza, c’è il rischio che trasferimenti siano in parte risparmiati). Spero che qualcuno al governo stia pensando a definire un tale piano, perché gli investimenti pubblici devono essere ben pianificati per non buttar via soldi. Spero che qualcuno al governo stia pensano a come ridurre i vincoli burocratici agli investimenti pubblici, creando sentieri privilegiati rispetto a quelli attualmente previsti dal codice appalti. Spero che qualcuno al governo stia pensando, più in generale, a un drastico taglio della burocrazia necessario per facilitare gli investimenti privati senza i quali l’Italia non potrà tornare a crescere a ritmi vicini a quelli dal resto dell’Europa.

Se anche tutto questo si facesse, resterebbe aperto un ultimo problema. Quello dei conti. Il Documento di Economia e Finanza prevedeva un deficit quest’anno del 10,4 per cento del Pil, circa 170 miliardi, e un debito pubblico del 156 per cento, inclusi gli effetti del decreto Rilancio. Ma con la probabile necessità di dover procedere a ulteriori consistenti interventi, e con una caduta del Pil che potrebbe eccedere quella prevista nel DEF, sembra chiaro che deficit e debito risulteranno sostanzialmente più elevati. Come finanziare questi maggiori deficit? (continua …)

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