Il manuale delle buone tasse
di Carlo Cottarelli
La Repubblica, 22 maggio 2021
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Si torna a parlare della riforma del fisco. Un giorno Gordon Brown, allora Cancelliere dello Scacchiere (cioè ministro delle finanze) del Regno Unito mi disse una cosa che non mi sono mai scordato: “Non c’è nulla di più politico delle tasse: si sono combattute guerre civili sulla questione delle tasse”. È vero. Le tasse sono la quintessenza della politica perché incidono direttamente sulla distribuzione del reddito tra cittadini: si toglie a qualcuno per dare ad altri. E, allora, potrà un governo così eterogeneo come quello attuale realizzare quella riforma della nostra tassazione che sarebbe così necessaria nel nostro paese? Credo di no. A meno che … Ma partiamo dall’inizio, dalle caratteristiche che un buon sistema fiscale dovrebbe avere.
Un buon fisco deve avere tre caratteristiche. Primo deve essere equo, sia in senso orizzontale (a parità di reddito, le tasse devono essere uguali), sia in senso verticale (chi ha un reddito più alto deve pagare di più). Secondo, non deve avere effetti indesiderati sulla produzione e sui consumi: deve essere “neutrale” a meno di motivi particolari. Terzo, deve essere semplice. Il nostro fisco è molto lontano di queste caratteristiche per effetto di una stratificazione di norme introdotte, dopo la grande riforma del 1973-74, per soddisfare le più disparate esigenze di breve periodo, al di fuori di una chiara logica.
Riguardo all’equità orizzontale, un problema fondamentale è quello dell’evasione fiscale: secondo le stime della commissione guidata in passato dall’ora ministro Giovannini, l’evasione è di circa il 3 per cento per il reddito da lavoro dipendente, del 66 per cento per il lavoro autonomo e quello d’impresa. Ma non è il solo problema: fino a circa 50.000 euro, per effetto di benefici differenziati, a parità di reddito dichiarato la tassazione è diversa tra lavoratori dipendenti, autonomi e pensionati. Uniformare il peso effettivo delle tasse tra diversi tipi di contribuenti è una questione del tutto politica: tradizionalmente il centro sinistra è più vicino ai lavoratori dipendenti; il centro destra a quelli autonomi. Riguardo all’equità verticale, le cose sono ugualmente complicate. Credo che tutti siano d’accordo sul fatto che l’attuale sistema comporti un salto troppo forte nell’aliquota marginale tra il secondo e il terzo scaglione (dal 27 al 38 per cento). Ma, quanto al resto, si va da un centro destra che propone la flat tax (con una minore redistribuzione rispetto all’attuale), a un centrosinistra che vorrebbe (almeno in alcune sue componenti) una maggiore progressività.
Riguardo alla “neutralità” del fisco e alla sua semplicità, il nostro sistema contiene una pletora di trattamenti volti a favorire questa o quella attività che si è voluto promuovere senza una logica precisa. Per questo sussidiamo i consumi tanto di energia sporca quanto di quella pulita. Per questo, il nostro codice fiscale comporta una miriade di deduzioni e detrazioni, le cosiddette spese fiscali con cui si sono scontrati, senza risultati, varie generazioni di esperti e commissari. Rispetto agli altri paesi, tassiamo poco le case (non tassiamo, per la prima casa, né il valore della stessa, né il suo reddito imputabile, cosa che si faceva una volta), ma tassiamo tanto il lavoro. Tassiamo poco la ricchezza ereditata, ma tassiamo più degli altri paesi il reddito prodotto. Abbiamo una marea di micro tasse, una ventina delle quali potrebbe essere eliminata al costo di soli 700 milioni. Rimuovere tutte queste distorsioni, vuol dire andare a colpire una marea di interessi costituiti a beneficio di altri. E come si può riconciliare la protezione di attività o gruppi che stanno a cuore al centro destra con la protezione di chi sta a cuore al centro sinistra?
Credo quindi che una riforma ampia della tassazione richieda un mandato elettorale. Certo, aggiustamenti possono esserci (ho citato sopra la riduzione del salto tra il secondo e terzo scaglione IRPEF), ma non potranno che essere limitati. A meno che…. Si potrebbe fare tutti contenti, o quasi, con una soluzione drastica: finanziare in deficit e per importi elevati la riforma fiscale. Insomma, perché dover scegliere se detassare gli autonomi o i dipendenti quando si possono detassare entrambi i gruppi? Certo, con un debito pubblico che viaggia verso il 160 per cento del PIL ci dovremmo preoccupare, ma i tassi di interesse sono ancora bassi. E poi, sono certo dirà qualcuno, tagliando le tasse l’economia riparte e il taglio delle tasse si ripaga da solo.
Non sono d’accordo. L’aumento del debito pubblico è stato necessario l’anno scorso e quest’anno, ma non possiamo pensare di andare avanti a finanziare in deficit qualunque riforma ci venga in mente. I tagli di tasse non si autofinanziano, a meno di partire da livelli di pressione fiscale media di circa il 70 per cento, il punto in cui la maggior parte degli economisti ritiene si collochi il massimo della cosiddetta “curva di Laffer” (noi siamo al 42 per cento). No, io credo che le tasse in Italia vadano tagliate, ma per tagliarle occorre trovare finanziamenti, riducendo gli sprechi nella spesa (non ora, per carità, non è il momento, ma il momento verrà) e riducendo l’evasione fiscale.
In conclusione, la riforma fiscale (a parte cose minori) non si farà prima delle prossime elezioni. O, se si farà, sarà in deficit, cioè pagheranno le generazioni future.