Università Cattolica del Sacro Cuore

Senza riforme saranno i mercati a punirci

di Carlo Cottarelli

La Stampa, 3 marzo 2020

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È ormai chiaro che il coronavirus avrà conseguenze rilevanti anche per i conti pubblici di molti paesi del mondo. Secondo l’OCSE il Pil mondiale crescerà solo del 2,4 per cento nel 2020, il valore più basso dal 2009. Quando l’economia rallenta, le entrate dello stato rallentano e già di per sé questo indebolisce i conti pubblici. Inoltre, l’OCSE sollecita un’azione di sostegno pubblico non solo ai settori più direttamente colpiti dal coronavirus ma all’economia in generale per attenuare le spinte recessive, il che metterà ulteriore pressione sui deficit. Molti paesi, con conti pubblici solidi, non avranno problemi ad aumentare i propri deficit. E l’Italia? Quanto spazio c’è per manovre espansive?

Qui per fortuna qualche buona notizia c’è. I dati pubblicati ieri dall’Istat sull’andamento dei nostri conti pubblici nel 2019 sono buoni. Il deficit pubblico è sceso dal 2,2 per cento del Pil nel 2018 all’1,6 per cento, il valore più basso dal 2007. L’avanzo primario (cioè il bilancio dello stato prima del pagamento degli interessi sul debito) è salito all’1,7 per cento del Pil, il valore più alto dal 2013. Il debito pubblico è rimasto stabile rispetto al Pil, al 134,8 per cento, un risultato non certo esaltante (ancora una volta, nessuna riduzione), ma che non è da buttar via in un anno in cui il Pil è cresciuto poco. Si tratta anche di risultatati miglior di quanto previsto dal governo stesso qualche mese fa. A cosa sono dovuti e, soprattutto, in che misura il miglioramento si estenderà all’anno in corso?

La sorpresa principale rispetto a quanto si sapeva al momento della preparazione del bilancio per il 2020 riguarda le entrate fiscali che sono aumentate più del previsto: la pressione fiscale è passata dal 41,9 al 42,4 per cento. Il fatto che i versamenti di alcune imposte siano stati posticipati a fine 2019 spiega perché si è capito tardi che le entrate stavano crescendo più del previsto. Sembra ora che l’aumento delle entrate rifletta il calo dell’evasione fiscale per effetto della fatturazione elettronica e dei nuovi indici sintetici di affidabilità fiscale (una “pagella” per cui il contribuente, rispettando certi parametri di comportamento, ottiene vantaggi, o non viene penalizzato, nella sua interazione con le autorità fiscali), indici introdotti nel 2017 ma diventati operativi solo l’anno scorso. Ci potrebbero anche essere state componenti più volatili (la tassazione di redditi da investimenti finanziari è andata bene), ma il grosso dell’aumento delle entrate dovrebbe essere permanente e rafforzare quindi anche i conti per il 2020, diciamo di circa lo 0,4 per cento del Pil.

Il deficit per il 2020 era stato fissato nella legge di bilancio al 2,2 per cento del Pil. Il miglior andamento delle entrate l’anno scorso lo porterebbe quindi all’1,8. Ma poi occorre tener conto dell’impatto del coronavirus sul Pil. La legge di bilancio era stata preparata ipotizzando una crescita del Pil dello 0,6 per cento. Se il Pil scendesse invece di un paio di decimi di punto, la differenza rispetto alle previsioni sarebbe di 0,8 per cento. Questo comporterebbe una perdita di entrate di circa lo 0,4 per cento del Pil. Pari e patta con l’effetto del miglior andamento delle entrate nel 2019. Si torna a un deficit del 2,2 per cento. Occorre poi tener conto delle misure introdotte dal governo per aiutare le aree colpite più direttamente dal contagio. Queste misure valgono 3,6 miliardi, o lo 0,2 per cento del Pil. Si sale al 2,4 per cento del Pil. L’Unione Europea approverà un tale aumento? Penso proprio di sì, per diversi motivi. Primo, resteremmo sotto il 3 per cento del Pil, la più “sacra” delle regole europee. Secondo, al di sotto del 3 per cento, le regole europee consentono uno sforamento dovuto alle perdite di entrate per minore crescita. Ci sono alcune complicazioni, ma il fatto che anche il 2019 sia andato meglio del previsto ci aiuterà. Terzo, esistono margini di flessibilità per paesi colpiti da catastrofi naturali, quali, appunto, il coronavirus.

Tutto a posto, dunque? Non proprio. Alla fine quello che conta non è la Commissione Europea, ma quello che decidono i mercati, cioè quelli che prestano soldi allo stato italiano. La risposta dei mercati è stata finora contenuta: i tassi di interesse sul debito pubblico sono cresciuti ma solo di un paio di decimi di punto. Durerà? Se, in linea di principio, le spinte recessive si dovessero intensificare sarebbe utile introdurre misure più espansive di quelle previste finora. Paesi con un debito pubblico più basso del nostro possono facilmente intraprendere politiche “keynesiane” di sostegno della domanda. Noi abbiamo problemi a farlo proprio perché dipendiamo dalla reazione dei mercati finanziari. Ciò non significa che, di fronte al rischio di una seria recessione, politiche fiscali più espansive siano da escludere, ma sono purtroppo più rischiose per noi che per altri. Se l’andamento dell’economia peggiorasse ulteriormente potremmo dover affrontare il rischio e sperare che la reazione dei mercati sia favorevole, ma non è una bella situazione. Ciò detto, un modo per ridurre il rischio sarebbe quello di convincere gli investitori, con fatti e non con parole o promesse, che l’economia italiana, una volta superate la difficoltà temporanee, sarà in grado di crescere in modo più deciso del passato e di ridurre il nostro debito pubblico. Questo richiede riforme strutturali (ne ho parlato qualche giorno fa su queste colonne). Altrimenti non resterà che affidarsi al buon cuore dei mercati finanziari, che non sono famosi per essere particolarmente di buon cuore.

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