Riforma scadente e risparmi bassi. È fatta per creare una nuova casta
Di Carlo Cottarelli
La Stampa, 14 settembre 2020
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Voterò no al referendum sul taglio del numero dei parlamentari perché, nella sua evidente semplicità, è una riforma fatta male, senza una chiara motivazione, senza ben definiti e significativi vantaggi e con qualche probabile svantaggio. Ma, soprattutto, voterò no perché, approvando riforme della nostra Costituzione che non sono fondamentali, ma sono solo di facciata, si alimenterebbe la convinzione che i problemi sociali ed economici della nostra Italia possono essere risolti con approcci superficiali e approssimativi. Un cattivo esempio per il futuro.
La riforma è semplice: un taglio secco dei parlamentari senza cambiare altro. Non si cambia la struttura bicamerale del nostro parlamento, non si cambia la legge elettorale, non si cambia niente del resto. Si è detto che altre cose potranno seguire. Ma per ora sono solo promesse. E perché allora tagliare il numero dei parlamentari lasciando il resto invariato?
Si dice: per ridurre i costi della politica. Il risparmio è modesto: 57 milioni l’anno, il famoso “costo di una tazzina di caffè all’anno” per italiano (assumendo che si possa trovare una tazzina di caffè a meno di un euro!). Non è questo un motivo sufficiente per non risparmiare, ma non si dia l’impressione, come è stato fatto da tanti sostenitori della riforma, che il taglio risolva i problemi delle finanze pubbliche italiane: il risparmio è equivalente allo 0,007 percento della spesa pubblica. Fra l’altro, prendendo il prestito “sanitario” del MES si risparmierebbe, per 10 anni dalle 7 alle 9 volte in più del risparmio dal taglio dei parlamentari. E poi, se lo scopo della riforma era ridurre il “costo della casta” allora non era meglio ridurre il costo per parlamentare (che è più elevato che negli altri principali paesi europei) invece di ridurre il numero dei parlamentari?
Si dice anche: abbiamo troppi parlamentari. Ne abbiamo certo tanti rispetto agli altri principali paesi europei. L’avevo sostenuto anche quando facevo il Commissario per la revisione della spesa. Ma qui occorre tener conto di un fatto: abbiamo due camere che fanno esattamente la stessa cosa. Se, nel fare confronti europei, teniamo conto di questo vincolo che non abbiamo voluto eliminare, allora il numero attuale di parlamentari appare ora solo di un centinaio sopra la norma, mentre col taglio proposto finiremmo per averne circa 230 sotto quanto appropriato in base ai confronti europei (trovate i dettagli di queste stime sul sito dell’Osservatorio sui conti pubblici italiani in una nota curata da Raffaela Palomba, Federica Paudice e dallo scrivente). La carenza sarebbe particolarmente forte per il Senato. La conclusione è, quindi, che, se si voleva ridurre il numero dei parlamentari, il modo giusto di farlo era passare a un sistema monocamerale, il che avrebbe anche consentito una vera semplificazione nella approvazione delle leggi. Ma non si è voluto farlo. Si è voluto tenere un Senato con tutte le sue competenze ma con un numero di senatori che è troppo basso.
A fronte di questi mancati vantaggi (e anzi di fronte allo svantaggio di avere un Senato sottodimensionato) ci stanno i noti problemi di rappresentanza a livello territoriale, particolarmente rilevanti sempre per il Senato e per le regioni più piccole. Non mi dilungo su questi problemi perché altri lo hanno già fatto.
Ma non è solo una questione di numeri a convincermi a votare no. Mi sembra chiaro che un taglio dei parlamentari fatto in questo modo serva solo a uno scopo: quello di consentire a certe parti politiche di vantare di aver fatto qualcosa di apparentemente fondamentale quando, invece, si è fatto qualcosa di molto modesto, e, nel complesso, dannoso. Non si dovrebbero spendere ingenti risorse politiche (oltre al referendum ci sono stati quattro voti parlamentari, con relative tensioni politiche) per riforme che non sono essenziali e che sono pure mal fatte per apparire semplici. È sbagliato farlo in generale e anche peggio quando ci sono tante riforme arenate che il Parlamento dovrebbe approvare in via prioritaria (si pensi soltanto alla riforma della giustizia civile). Qualcuno dirà: è vero ma ormai è troppo tardi per recuperare le risorse spese. Già, ma il sì al referendum incoraggerebbe nuovi tentativi dello stesso genere. Se al popolo italiano piace questo approccio, allora proseguiamo su questa strada. E la strada, lo ripeto, è quella di riforme di facciata, di ricette semplicistiche più che semplici, spinte da slogan di facile comprensione (aboliamo la casta, dopo aver abolito la povertà). Se passa il sì, è il trionfo dell’apparenza sulla sostanza, dell’approssimazione sulla attenzione, delle cose fatte male su quelle fatte bene. E non si dica: ma almeno si fa qualcosa quando prima non si è fatto niente. Anche ora non si fa niente, ma si finge di aver fatto tutto. E si fornisce un alibi a chi, invece, dovrebbe fare riforme che sono davvero rilevanti per il nostro Paese. State tranquilli: se passa il sì, la nuova casta ci spiegherà come, loro sì, sono riusciti a sconfiggere la vecchia casta e a salvare l’Italia con riforme vitali. La vittoria del no manderebbe invece un chiaro segnale a chi ci governa: basta con l’apparenza, vogliano riforme davvero utili al Paese.