Riforma del processo civile e meno burocrazia: ecco dove trovare le risorse per ridurre l’Irpef
di Carlo Cottarelli
La Stampa, 10 febbraio 2020
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Continuano le discussioni sulla riforma dell’Irpef. Quest’anno le tasse sul lavoro si ridurranno con un effetto a regime (nel 2021) di 5 miliardi, passo utile, ma modesto: occorre fare di più per rendere il nostro lavoro e le nostre imprese più competitive. Ma non sono state ancora trovate le coperture per il 2021 neanche per i 5 miliardi. Anzi. Abbiamo messo in bilancio per il prossimo anno la solita cambiale: le clausole di salvaguardia (l’aumento dell’Iva già approvato dal parlamento ma che nessuno vuole) valgono 20 miliardi. In più i dati del Pil del quarto trimestre, usciti una decina di giorni fa, fanno pensare che il Pil e quindi le entrate dello stato, quest’anno e il prossimo, saranno più basse del previsto. I tassi di interesse, scesi un po’ dal momento dell’approvazione della legge di bilancio, ci aiuteranno, ma potrebbero risalire date le incertezze legate al Coronavirus e ad altri possibili shock globali.
Sarebbe utile aumentare l’Iva, almeno in modo selettivo, e con questa finanziare il taglio delle tasse sul lavoro? Beh, questo è appunto quello che già è stato previsto: una parte dell’aumento dell’Iva legato alle clausole di salvaguardia serve, appunto, a finanziare il taglio del cuneo fiscale. Ma si vuole andare oltre al taglio già previsto, per esempio per sostenere gli incapienti. In ogni caso, non sono convintissimo che rimpiazzare tasse dirette (l’Irpef) con tasse indirette (l’Iva) faccia poi una gran differenza. Dal lato della domanda di bene e servizi, non fa nessuna differenza perché non si «mettono più soldi in tasca agli italiani». Dal lato della produzione, si può sostenere che tassare il consumo sia meglio che tassare il lavoro perché detassando il lavoro aumentano gli incentivi a lavorare. Probabilmente è vero, ma quanto è importante? Perché dovrei lavorare di più se poi i beni costano più caro per l’aumento dell’Iva?
Lo stato potrebbe prendere più soldi a prestito, aumentando il deficit pubblico rispetto ai piani attuali. Il prossimo anno il deficit è previsto scendere dal 2,2 per cento del Pil all’1,8 per cento del Pil. Probabilmente il governo punta ad aumentare, come è avvenuto negli ultimi sei anni, l’obiettivo di deficit. Ma questo rinvia ancora nel tempo il momento in cui il nostro debito pubblico scenderà, rispetto al Pil. Anzi, forse prolungherà il periodo in cui, come è avvenuto negli ultimi due anni, il debito aumenta, esponendoci sempre più al rischio di un innalzamento dei tassi di interesse.
Si potrebbe fare una spending review? Si farà ma la mia esperienza mi fa pensare che, in quest’area, il mare che separa il dire dal fare sia particolarmente ampio.
La coperta è corta. Non c’è allora che cercare di ampliarla facendo crescere di più l’economia. Ma non servono più soldi pubblici per far crescere l’economia? No. Ci sono riforme a costo zero che possono aiutarci. Ne cito due. La riforma della giustizia civile e la riduzione della burocrazia. Sulla prima il governo si è mosso, ma la proposta di riforma della giustizia inviata in parlamento sta attirando attenzione soprattutto rispetto alla questione della prescrizione, questione importantissima, ma che riguarda il penale. Per quanto riguarda il civile, la reazione più negativa è venuta dai giudici che non vogliono essere considerati «come un jukebox». Nessuno li dovrebbe considerare tali, vista la delicatezza del ruolo da essi svolti. Ma occorre capire che la riduzione dei tempi della giustizia (i processi che arrivano in cassazione durano 8 anni in media, contro 2 anni in Germania e poco più di 2 in Spagna) sono inaccettabili in un’economia moderna. La proposta di riforma ha alcuni elementi positivi, ma non affronta adeguatamente la questione degli incentivi. Dal lato del cittadino e degli avvocati servono disincentivi a far durare troppo il processo anche quando si ha torto. Dal lato dei tribunali, dato che spendiamo più o meno come gli altri paesi europei rispetto al Pil per la giustizia, occorrono cambiamenti nell’organizzazione del lavoro e, perché questi diventino effettivi, incentivi a considerare da parte dei giudici la durata dei processi come un aspetto essenziale della loro attività. Il fattore tempo è critico in qualunque servizio fornito. Deve essere così anche per i servizi forniti da un tribunale.
Per la burocrazia, non c’è al momento un progetto di riduzione drastica, forse l’unica cosa che potrebbe dare un vero scossone nell’immediato alla nostra economia. Ricevo spesso segnalazioni di mostri burocratici nel settore pubblico (ieri uno, oggi un altro). E nessuno fa niente. Ho però un timore. Che il problema sia di mentalità. A ben vedere anche il settore privato italiano è più burocratico che all’estero. Oggi non sono potuto entrare nella mia palestra (Virgin Active, Piazza Diaz, Milano) perché sembra non fosse pervenuto il rinnovo annuale del certificato medico (che a me risultava inviato). Ma perché uno non può, come avviene in America, andare in palestra a suo rischio e pericolo (la legge non richiede un certificato medico)? Non è possibile firmare una liberatoria? Si, ma solo un giorno all’anno! Cioè, sono libero del mio futuro in palestra solo un giorno all’anno. Poi basta. Ogni singola volta che vado in televisione, devo firmare una liberatoria.
Firmiamo tonnellate di moduli per il rispetto della privacy (questi richiesti dalla legge). Quando chiamiamo un taxi una voce registrata ci dice sempre che i nostri dati saranno usati in conformità della legge sulla privacy (vorrei vedere che fosse il contrario). Possiamo cercare di ridurre la burocrazia, ma per farlo occorre un cambio di mentalità, accettare di dare più responsabilità agli individui, fidarci più degli altri. Non c’è modo di competere nel mondo moderno se non risolviamo questo problema. Dobbiamo evolverci ed evitare che la nostra economia muoia di burocrazia.