Università Cattolica del Sacro Cuore

Ma io difendo Ursula von der Leyen

di Carlo Cottarelli

La Repubblica, 18 marzo 2021

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Le accuse all’Europa sulla questione dei vaccini si sono intensificate nelle ultime settimane di fronte ai più rapidi progressi registrati negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in Israele. Quando parlo di “accuse all’Europa” non mi riferisco ai singoli paesi membri dell’Unione Europea, ma alle istituzioni europee, in primis alla Commissione e alla sua leader Ursula von der Leyen. Il che è paradossale perché, ora come in passato, le decisioni prese nel nostro continente sono in gran parte in mano ai singoli paesi membri. La spiegazione di questo paradosso è però semplice: i paesi membri hanno interesse a usare le istituzioni comunitarie più che come vero centro decisionale, come parafulmine per quando le cose vanno male. È molto più comodo.

Il più recente capo di accusa riguarda lo stop del vaccino AstraZeneca, decisione che ha buttato benzina sul fuoco del malcontento sulla gestione della campagna vaccinale. Chi ha preso questa decisione? Ha cominciato la Danimarca, ma il punto di svolta è stato la scelta di sospendere la somministrazione del farmaco da parte della Germania, seguita a ruota da Francia, Italia e Spagna. Decisioni tutte prese da istituzioni nazionali. Il che non ha impedito che le accuse siano state rivolte all’Unione Europea (“Ma che fanno a Bruxelles?” ha tuonato Salvini). Ora tocca all’EMA riparare il danno. E per farlo in modo credibile, per capovolgere le decisioni prese dai singoli paesi, almeno un paio di giorni sono necessari, o no?

Secondo capo di accusa: aver puntato troppo, nelle forniture negoziate dalla Commissione, su AstraZeneca rispetto agli altri vaccini. Beh, ha puntato su Astrazeneca anche il Regno Unito, da molti citato ora come esempio di gestione efficace della campagna vaccinale. Ci siamo scordati del fatto che, finora, il Regno Unito è il paese al quarto posto nel mondo nella classifica dei decessi per abitanti, e di gran lunga il primo tra i G20? Ma, a parte questo, la Commissione, nell’includere AstraZeneca tra i principali fornitori, non ha fatto altro che seguire la strada presa da Francia, Germania, Italia e Olanda lo scorso giugno, prima che i paesi membri le chiedessero di condurre un’azione coordinata a livello europeo, come ricordato ieri su queste colonne da Andrea Bonanni.

Terza accusa: i contratti conclusi dalla Commissione non prevedevano adeguate protezioni in caso di ritardi e non includevano quel principio di “primi gli europei” adottato da Stati Uniti e Gran Bretagna. Qui si dimenticano tante cose. Primo, Stati Uniti e Regno Unito, avendo un bilancio ampio e flessibile (cosa che l’Unione Europea, per scelta dei paesi membri, non ha), avevano finanziato a suon di miliardi la ricerca delle case farmaceutiche. Ovvio che questo abbia comportato vantaggi. Secondo, alle negoziazioni dei contratti europei avevano partecipato anche i rappresentanti dei principali paesi europei. Comodo ora scaricare eventuali problemi solo su chi guidava la delegazione europea, l’italiana Sandra Gallina. Terzo, i contratti europei fornivano meno protezione in caso di ritardi, ma erano più solidi in termini di responsabilità delle case farmaceutiche in caso qualcosa fosse andato storto dal punto di vista sanitario. Inoltre, per alcuni di questi contratti, si era puntato ad ottenere prezzi più bassi. Perché questa enfasi sul “risparmio” e sulla responsabilità delle compagnie farmaceutiche? Probabilmente hanno influito le intimazioni a non favorire le Big Pharma da parte dei parlamentari europei, soprattutto quelli del fronte populista.   

Nessuna responsabilità quindi per le istituzioni europee? Almeno una c’è e riguarda la comunicazione. La Commissione appare timida nel presentare le proprie ragioni e invece molto pronta ad ammettere che si poteva fare meglio. Timmermans, vice presidente della Commissione, in un’intervista a un giornale tedesco ha ammesso che errori nei contratti sono stati fatti. Ma anche questo è un classico nell’operare di deboli istituzioni internazionali. Forse che Boris Johnson e Trump hanno mai ammesso errori? Eppure ne hanno fatti eccome… Forse l’ha fatto Conte? O Macron? Merkel ha timidamente ammesso qualche errore, ma è l’eccezione, non la regola. La realtà è che gli stessi rappresentanti di istituzioni europee trovano conveniente, quando parlano ai propri media, riconoscere errori delle istituzioni cui appartengono. Tanto quello che interessa loro è di apparire credibili all’opinione pubblica dei loro paesi e non urtare i politici nazionali, quelli che in ultima analisi ancora prendono le decisioni in Europa. La verità è che, in questa Europa ancora divisa, i politici dei paesi membri si avvantaggiano dall’avere un parafulmine che ha poteri e risorse limitate, che non si vuole e non può difendersi mediaticamente e che, se necessario, è pronto a riconoscere errori che sono in gran parte di altri. L’Europa e le sue istituzioni restano deboli, perché questo è quello che vogliono gli stati membri.

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