L’inflazione non fa paura
di Carlo Cottarelli
La Stampa, 14 maggio 2021
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Tanto tuonò che piovve, dirà qualcuno. A forza di aumentare la spesa pubblica in deficit e a forza di finanziare questi deficit col credito delle banche centrali (cioè stampando moneta), l’inflazione è ripartita nei principali paesi avanzati. In realtà, il problema è meno preoccupante di quanto i dati suggerirebbero a prima vista. Andiamo allora a vedere i dati sull’inflazione, capiamo perché non ci dobbiamo preoccupare troppo, ma anche perché qualche rischio esiste.
Il dato che più ha impressionato è stato quello degli Stati Uniti dove l’inflazione nei 12 mesi terminanti ad aprile 2021 è balzata al 4,2 per cento. Nei soli primi quattro mesi dell’anno i prezzi sono cresciuti del 2,6 per cento, ossia a una velocità annualizzata di quasi l’8 per cento. Che è successo nell’area dell’euro? Nei 12 mesi terminanti ad aprile l’inflazione è ancora bassa (1,6 per cento). Ma anche nell’area euro i primi quattro mesi del 2021 sono stati da record. L’aumento dei prezzi è vicino al 2 per cento, ossia 6 per cento annualizzato. Da quando c’è l’euro l’aumento dei prezzi non era mai stato così alto nei primi quattro mesi dell’anno.
Calma e sangue freddo. È prematuro preoccuparsi troppo per due motivi. Primo: è normale che, uscendo da una recessione forte e rapida come quella da Covid, i prezzi aumentino. La domanda torna a livello normale, i prezzi tornano a livello normale. Secondo: l’inflazione è stata spinta dai prezzi di molte materie prime la cui produzione sembrerebbe essere stata frenata temporaneamente da fattori contingenti, come la ministra del tesoro americana Yellen ha prontamente ricordato.
Al tempo stesso, è da qualche mese che diversi economisti, tra cui Larry Summers e Olivier Blanchard (che non sono certo due falchi fiscali), hanno notato i rischi per l’inflazione derivanti dal nuovo pacchetto di stimolo fiscale introdotto dall’amministrazione Biden, pacchetto che manterrà il rapporto tra deficit pubblico e Pil negli Stati Uniti vicino a quel record del 16 percento registrato nel 2020, il più alto dal 1943). Questo, in un’economia che già da tempo era in ripresa. E ancora buona parte di tale pacchetto deve essere implementato e sarà rafforzato dall’annunciato piano infrastrutturale (solo in parte finanziato da nuove tasse).
A questo punto ci aprono due scenari. Il primo è quello in cui, dopo la fiammata nel primo quadrimestre di quest’anno, i prezzi rallentano via via che la domanda, dopo il rimbalzo post Covid (ammesso che ne siamo usciti), torna a crescere a ritmi più normali. Il secondo è quello in cui l’inflazione resta persistentemente alta, nel contesto di politiche fiscali e monetarie troppo espansive. Il primo scenario resta quello più probabile (il tasso di disoccupazione negli Stati Uniti è ancora al 6 per cento, moderando le spinte inflazionistiche), ma il primo non è certo da escludere.
Se il secondo scenario si realizzasse, quali sarebbero i rischi per il nostro paese? Si potrebbe dire: che ci importa un po’ più di inflazione? Restiamo su livelli ben più bassi di quelli a cui eravamo abituati prima dell’euro! E, fra l’altro, l’inflazione da noi è inferiore a quella dell’area euro (0,9 per cento nel primo quadrimestre di quest’anno). Il problema però non è la nostra inflazione. Il problema è la possibilità che la BCE debba aumentare i tassi di interesse per raffreddare l’inflazione nell’area euro. I falchi tedeschi (alcuni media parlano già di iperinflazione) sono stati per ora contenuti. Ma sempre nei primi quattro mesi di quest’anno, l’inflazione in Germania ha viaggiato a un tasso annualizzato dell’8 per cento (proprio come negli Stati Uniti). La BCE ha come compito di tenere l’inflazione al di sotto del 2 per cento. Conscia delle conseguenze che un aumento prematuro dei tassi di interesse avrebbe sugli equilibri dell’area euro, eviterà di reagire a temporanei aumenti dell’inflazione (e, qualche scettico direbbe, potrebbe persino ritardare un inevitabile intervento per paura che il sistema finanziario e l’economia reale, molto indebitata sia nel pubblico sia nel privato, non regga a un aumento dei tassi di interesse). Ma non potrà evitare un aumento dei tassi di interesse e una revisione della propria politica di acquisti di titoli di stato se i segnali di una ripresa dell’inflazione fossero evidenti.
Purtroppo, per un paese come il nostro che si avvia verso un rapporto tra debito pubblico e Pil del 160 per cento, se i tassi di interesse aumentassero prima che il nostro paese abbia almeno iniziato le riforme necessarie per porre la nostra crescita economica di lungo termine su basi solide l’impatto sarebbe pesante, soprattutto in termini di possibili reazioni di mercato. Il rischio di un aumento dell’inflazione rende quindi ancora più necessaria la realizzazione delle riforme per rilanciare la crescita, senza ritardi.