Dalla Bce un aiuto da 220 miliardi all’Italia. Ecco perché non c’è soluzione fuori dall’Ue
di Carlo Cottarelli
La Stampa, 28 marzo 2020
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È difficile non reagire emotivamente di fronte alla difficoltà del Consiglio Europeo ad accordarsi giovedì scorso sulla risposta alla crisi del coronavirus. La frase critica del comunicato stampa («A questo punto, invitiamo l’Eurogruppo a presentarci proposte entro due settimane») è in stridente contrasto con l’urgenza della situazione. Comprensibile allora la tentazione, espressa sembra anche ai nostri più alti livelli, di rispondere con un «se questa è la solidarietà europea, allora facciamo da soli». È difficile non reagire emotivamente, ma sarebbe sbagliato farlo. Stiamo ai fatti, riassumibili in cinque punti.
Primo, come ha sottolineato Mario Draghi, l’Italia e gli altri Paesi stanno combattendo una guerra e una guerra richiede un forte aumento del debito pubblico. La perdita di Pil dovuta alle chiusure è inevitabile (il Pil, il prodotto interno lordo, si chiama così perché qualcuno deve produrlo), ma occorre evitare che le chiusure temporanee causino effetti permanenti. Insomma, occorre assicurare che, una volta superata l’emergenza sanitaria (che richiede di per sé risorse adeguate), le imprese possano tornare a produrre e investire e le famiglie a consumare. Per questo serve una politica fiscale eccezionalmente espansiva.
Secondo, dovrebbe essere a tutti evidente che l’Italia non può farcela da sola. Quello che può frenare l’azione italiana non sono le regole europee sui conti pubblici, che fra l’altro sono state sospese. Come sempre è avvenuto, quello che frena il nostro deficit è la difficoltà che abbiamo a prendere a prestito. Insomma, non basta dire «bisogna fare più deficit»: serve qualcuno che ci presti i soldi. Abbiamo difficoltà a indebitarci perché ci siamo indebitati troppo in passato. Ma non è questo il tempo di recriminare. Fatto sta che quando si è capito che il nostro deficit avrebbe cominciato a crescere, i tassi di interesse sul nostro debito si sono impennati, entrando in un territorio pericoloso. Certo, ha contribuito inizialmente l’impressione data dai vertici della Bce che questa non sarebbe intervenuta per impedire un aumento dello spread (impressione peraltro poi smentita dai fatti). Ma questo dimostra, appunto, che non possiamo farcela da soli. Dobbiamo contare sull’aiuto di altri.
Terzo, l’aiuto non potrà venire al di fuori dell’Europa, né con l’uscita dall’Europa. Tutte le aree del mondo sono colpite dalla pandemia e pensano, prima di tutto, ai propri interessi. Le massicce risorse finanziarie di cui abbiamo bisogno non arriveranno certo né dalla Cina, né dalla Russia, né da altre parti del mondo. C’è allora già qualcuno che invoca l’uscita dall’euro. Se l’Europa non ci aiuta, tanto vale andarsene. Che dire? Mi sembra questo il modo migliore per scatenare una bella crisi finanziaria nel momento peggiore. Non credo serva aggiungere altro: sarebbe anzi meglio evitare frasi e toni che possano suggerire che ci si intenda muovere in questa direzione.
Quarto, la risposta dell’Europa alla presente crisi dovrebbe includere l’emissione di titoli da parte di una istituzione europea, i famosi eurobond. Questi eurobond sarebbero ben diversi da quelli di cui si parlava una decina di anni fa. Quelli erano titoli per mutualizzare il debito dei singoli Stati (accumulato magari per effetto di politiche dissennate). Questi nuovi eurobond sarebbero titoli emessi per finanziare e, magari, gestire, nuove spese da parte delle istituzioni europee, per esempio sussidi di disoccupazione europei o progetti infrastrutturali, in presenza di un grave choc comune. Ma su questo non si è trovato un accordo al Consiglio Europeo. I Paesi nordeuropei non hanno bisogno di eurobond. I loro conti sono a posto e possono prendere a prestito dai mercati finanziari tutto quello che a loro serve. E forse temono che questo primo passo porti poi anche alla mutualizzazione del debito passato. Sarà importante riassicurali che questa non è l’intenzione ma non sarà facile. I Paesi nordeuropei si oppongono anche al coinvolgimento del Mes, il Fondo salva-Stati, a meno che, secondo le attuali regole, non si prevedano condizioni sulle politiche economiche dei Paesi coinvolti. L’Italia si oppone invece a qualunque tipo di condizionalità, anche puramente formale o quasi. Fatto sta che in queste due aree (eurobond e Mes) ci si può muovere solo in presenza di una comunanza di intenti che ora sembra mancare. E la Commissione europea, in assenza di tale comunanza e con un bilancio di dimensioni minime (l’1 per cento del Pil europeo), ha le mani legate. Inutile prendersela con l’istituzione guidata da Ursula Von der Leyen.
Quinto, se gli interventi attraverso eurobond e altre iniziative sembrano al momento difficili, non possiamo scordarci di quello che sta facendo la Banca Centrale Europea. La Bce ci sta finanziando in modo massiccio. Si tratta di almeno 220 miliardi (oltre il 12 per cento del Pil) di acquisti di titoli di Stato italiani da qui alla fine dell’anno, realizzati attraverso i programmi di «quantitative easing». Chi denuncia l’inazione dell’Europa dovrebbe ricordarsi che senza la Bce saremmo probabilmente nel mezzo di una pesantissima crisi finanziaria e lo Stato non avrebbe risorse per muoversi. La Bce ha anche dato la propria disponibilità ad aumentare ulteriormente questi acquisti e ha, di recente, rimosso alcuni impedimenti tecnici che ne avrebbero limitato la flessibilità. Possiamo sperare che la Bce mantenga questo approccio costruttivo? Un punto è, in proposito, critico. Mentre l’emissione di eurobond, o l’attivazione del Mes senza condizionalità, richiede l’unanimità dei Paesi dell’area euro, le decisioni della Bce vengono prese a maggioranza e si può pensare che, come avvenuto in passato, l’alleanza tra Italia, Francia, Spagna e altri Paesi continui a mettere in minoranza il Nordeuropa. Cerchiamo quindi di essere concreti e muoviamoci insieme a chi la pensa come noi, in primis Francia e Spagna, evitando inutili polemiche verso un’Europa di cui non possiamo fare a meno.