Crollo del mercato cinese e bolle speculative. Ecco perché lo choc sarà peggiore della Sars
di Carlo Cottarelli
La Stampa, 20 febbraio 2020
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Quali saranno gli effetti sull’economia mondiale del coronavirus?
È ancora troppo presto per dirlo, non fosse altro perché ancora non è chiaro quanto grave sia la crisi dal punto di vista puramente medico. Ma proviamo a fare qualche ragionamento. Il punto di partenza è, inevitabilmente, quello che accadde con la Sars, l’epidemia che colpì la Cina nel 2003. In quell’occasione, la produzione cinese smise di crescere nel secondo trimestre, ma la ripresa fu rapida. Il resto del mondo ne risentì, ma in modo molto limitato. Ci sono quattro motivi per credere che, nel caso del coronavirus, lo choc possa essere più forte.
Il primo riguarda l’aspetto medico. Sappiamo che, per numero di morti e di persone infette, l’epidemia è già più estesa di quella della Sars. Il virus sembra essere meno mortale, ma è più contagioso. Quindi, lo scossone sull’economia sarà più forte. Si noti che, anche a causa della maggiore contagiosità, il governo cinese ha adottato misure più drastiche rispetto a quelle della Sars. Anche per questo, le conseguenze economiche saranno più severe.
Secondo, nel 2003 l’economia cinese era in fase di fortissima espansione con tassi di crescita del Pil superiori al 10 per cento, a seguito dell’entrata del paese nel Wto, che aveva facilitato il boom delle sue esportazioni. In contrasto, l’economia cinese era già in rallentamento anche prima del coronavirus. Ripartire dopo lo choc sarà quindi più difficile.
Terzo, le conseguenze per il resto del mondo di un raffreddamento dell’economia cinese sono ora amplificate dalla crescita della Cina negli ultimi vent’anni e dalla sua maggiore integrazione nel commercio internazionale. Nel 2003 il Pil cinese, misurato in dollari, era pari al 4,3 per cento del Pil mondiale. Ora è arrivato al 16,7 per cento. Anche in termini di Pil «a parità di potere d’acquisto» (forse una migliore misura del peso economico di un Paese) l’aumento è stato molto elevato: dall’8,8 al 19,7 per cento del Pil mondiale. L’impatto sul resto del mondo degli sviluppi economici in Cina avverrà attraverso due canali. Il primo è quello della caduta della domanda di beni e servizi da parte della Cina: imprese e consumatori cinesi importeranno meno. Già è evidente il calo dei turisti cinesi negli altri Paesi. Il secondo riguarda le minori forniture da parte della Cina di prodotti semilavorati che vengono utilizzati dal resto del mondo. La Cina svolge un ruolo importantissimo nella cosiddetta «supply chain», la catena dell’offerta. Per alcuni prodotti farmaceutici di base, per esempio, la Cina è ormai di gran lunga il principale produttore. Naturalmente, col tempo il calo delle forniture cinesi potrà essere compensato da forniture da altri paesi. Ma nell’immediato la produzione in diversi Paesi del mondo potrebbe risentirne. Questo effetto diventerà più evidente nelle prossime settimane. Il fatto che l’epidemia si sia diffusa in Cina in prossimità delle festività dell’anno nuovo cinese ha attenuato inizialmente il suo impatto sulla supply chain, perché le imprese che importavano dalla Cina si erano comunque preparate a una breve riduzione delle forniture. Ma ora, col solo parziale ritorno a ritmi di produzione normali, gli effetti sul resto del mondo saranno più pesanti.
Il quarto motivo riguarda lo stato attuale dell’economia mondiale. L’esperienza del passato ci dice che, di solito, i danni causati all’economia da crisi epidemiche, per quanto forti, sono di breve durata. Il rischio (anche se qui si entra in un terreno più speculativo) è che lo choc derivante dal coronavirus destabilizzi un’economia mondiale già di per sé in precario equilibrio.
Due cose mi preoccupano. La prima è l’esistenza di possibili «bolle speculative», con prezzi di certe attività finanziarie (per esempio le azioni) gonfiati da anni di tassi di interesse bassi e addirittura negativi. La seconda è il forte rallentamento della crescita in alcune aree del mondo, incluso il nostro continente, già in corso prima dell’epidemia. L’Europa è quasi ferma, con una crescita dell’area dell’euro dello 0,1 per cento nell’ultimo trimestre del 2019 e un calo del Pil italiano dello 0,3 per cento. Il rischio è allora che il coronavirus diventi l’occasione per un cambiamento di umore dei mercati finanziari e per una revisione degli investimenti a danno delle attività e dei Paesi considerati più a rischio, compreso il nostro. Certo, un forte rallentamento dell’economia mondiale potrebbe essere alleviato da politiche economiche espansive. I tassi di interesse sono però già molto bassi. Alcuni Paesi potrebbero aumentare ulteriormente il proprio debito pubblico, ma lo stesso non vale per altri. Inoltre, alcuni dei problemi economici causati dall’epidemia, in particolare quelli legati al turbamento della «supply chain», non potrebbero essere curati da misure espansive sul lato della domanda. Le limitate revisioni verso il basso delle previsioni di crescita da parte di vari istituti (il Fmi ha ridotto le proprie stime di crescita per il 2020 di uno o due decimi di punto percentuale) sono da considerarsi ancora relativamente ottimistiche. Potrebbe finire peggio, soprattutto se i segnali di contenimento dell’epidemia delle ultime ore non fossero confermati.