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section --> L'Osservatorio Studi e documentazione Stampa, Video e Podcast Chiedi all'Osservatorio Chi siamo Dove Siamo Finanziatori Lavora con noi Studi e analisi Pachidermi e pappagalli Finanza pubblica per tutti Banche dati Serie storiche Documentazione ufficiale Stampa Video Podcast. Senza questa fonte di copertura, si rischia un buco di bilancio di 150 milioni nel 2019 e di 600 milioni annui dal 2020. Mentre il governo italiano è impegnato a recuperare risorse aggiuntive per evitare l’avvio di una procedura per deficit eccessivo da parte delle istituzioni europee, una delle fonti di copertura individuate nell’ultima Legge di Bilancio risulta al momento mancante. La ISD prevede l’applicazione di un’aliquota del 3 per cento ai ricavi delle società che forniscono servizi digitali e realizzano un fatturato annuo superiore ai 750 milioni di euro (di cui almeno 5,5 milioni in Italia). Tuttavia, per far sì che l’imposta entri in vigore ad ottobre, cioè all’inizio dell’ultimo trimestre, è necessario che il decreto attuativo venga emanato entro fine luglio, poiché il comma 47 stabilisce che le disposizioni si applicano a partire dal sessantesimo giorno successivo alla pubblicazione del decreto in Gazzetta Ufficiale. Pur avendo sforato i termini previsti dalla legge, al governo resta quindi un mese di tempo per evitare un buco di bilancio contenuto nel 2019 ma che potrebbe allargarsi dal prossimo anno. La ISD sostituisce l’Imposta sulle transazioni digitali introdotta dal precedente governo con la Legge di Bilancio 2018 ma mai applicata (l’entrata in vigore era prevista a partire dall’1 gennaio 2019).
La web tax italiana: prospettive e problemi
Terzo, non è chiaro come possa essere reso compatibile con la normativa sulla privacy l’obbligo che viene imposto alle imprese del web di geolocalizzare gli utenti al fine di sapere se la transazione è avvenuta in Italia. Tutto questo non toglie che è necessario trovare una rapida soluzione a livello europeo, probabilmente basata su una formula per la ripartizione dei profitti tra paesi, per evitare che i profitti delle compagnie multinazionali del web finiscano per essere sottotassati. Il risultato è che, per quanto riguarda l’Italia, un recente rapporto dell’Area Studi di Mediobanca informa che nel 2018 il fisco ha ricevuto dalle filiali italiane delle 25 principali aziende mondiali del web solo 64 milioni di euro a fronte di un fatturato di oltre 2,4 miliardi di euro. L’utilizzo della formula di ripartizione dei profitti sarebbe un vantaggio in termini di facilità di gestione anche per i vari stati: essi non dovrebbero più soffermarsi su “la natura ontologica di una particolare unità produttiva, congetturando se questa rispetti o meno i criteri della stabile organizzazione”. Poiché, la pubblicità on line è una delle poche fonti di utili per i giornali che in Italia, come quasi ovunque nel mondo, attraversano una crisi epocale, appare probabile che la norma venga cambiata o interpretata in modo da evitare di pesare ancora una volta sugli editori. Al momento dunque, sembra che si sia arrivati ad una situazione di tregua bloccando sul nascere quello che si prospettava come l’inizio di una guerra commerciale; ancora però non si è fatto alcun passo in avanti verso una risoluzione concreta della questione. Secondo alcuni ciò sarebbe possibile in virtù del fatto che il punto a) del comma 37 parla di “veicolazione” della pubblicità, il che potrebbe essere interpretato nel senso che, per applicare la tassa, occorre che il messaggio pubblicitario sia veicolato da una piattaforma.