Università Cattolica del Sacro Cuore

Le dimensioni dello Stato imprenditore italiano

di Matilde Casamonti e Giulio Gottardo

24 dicembre 2020

Quanto importanti sono le imprese pubbliche nell’economia italiana? E come si è evoluta nel tempo la proprietà pubblica delle imprese? Dai primi anni ’90 fino a pochi anni fa, l’Italia ha eseguito importanti privatizzazioni, abbastanza in linea con i principali paesi europei. Nello stesso periodo, e in controtendenza, è esploso il fenomeno delle partecipate locali, molte delle quali, ancora oggi, tendono ad essere piccole, poco trasparenti e probabilmente poco efficienti. Si dice spesso che le imprese pubbliche in Italia hanno ora un peso minore che in Francia e Germania e che dovrebbero svolgere nel nostro paese un maggiore ruolo “strategico”. In realtà, il minor peso delle imprese pubbliche in Italia rispetto al Pil riflette in larga misura le caratteristiche del tessuto produttivo italiano, caratterizzato da tante piccole e medie imprese. Tuttavia, se si considera il comparto delle maggiori imprese, quelle che possono svolgere un ruolo strategico, le partecipate pubbliche hanno già un peso simile in Italia rispetto alla Francia (e superiore a Germania, Spagna e Regno Unito). Quindi, il nostro Stato imprenditore non è poi così sottodimensionato rispetto a quanto accade negli altri principali paesi europei, anzi.

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In Italia, lo Stato centrale e gli enti locali gestiscono direttamente e indirettamente un “universo” di migliaia di partecipate. Tra queste vi sono sia grandi imprese multinazionali competitive, come Enel e Leonardo, sia piccole partecipate locali costituite per erogare servizi ai cittadini, spesso indicate come meno produttive e trasparenti nella gestione. Come si è arrivati a questa situazione?

Le privatizzazioni in Italia e nei principali paesi europei

In Italia le prime importanti privatizzazioni sono avvenute nei primi anni ‘90.[1] Dal 1993 al 1998, le entrate da privatizzazioni sono salite da poco più di 2 miliardi di dollari all’anno al massimo storico di 13 miliardi (2,1 per cento del Pil). Oltre alla necessità di trovare risorse per ridurre il debito pubblico, prevaleva anche in quel periodo l’idea che le partecipazioni statali fossero diventate strumento di potere politico e di corruzione. Sull’onda di Tangentopoli, un referendum dell’aprile 1993 abrogò la legge del 1956 che aveva istituito il Ministero delle Partecipazioni Statali, con il conseguente passaggio delle partecipazioni pubbliche al Ministero del Tesoro. Favorevoli all’abrogazione fu il 90 per cento dei voti validi, oltre 31 milioni di elettori. Emergeva infine una nuova sensibilità sul ruolo dello Stato, da imprenditore a controllore, basato sulla una maggiore concorrenza e trasparenza.[2] Risalgono infatti a questi anni anche la creazione di autorità indipendenti per la regolamentazione e trasparenza dei mercati.[3] Inoltre, nello stesso periodo si è verificata la “privatizzazione di diritto” di molte società partecipate (cioè la trasformazione in SPA), dotando queste imprese di obblighi e vantaggi in linea con quelle private, ad esempio riguardanti la trasparenza e le nomine della direzione.

Con 98 miliardi di dollari di entrate dal 1993 al 2000 (8,3 per cento del Pil annuale medio del periodo), l’Italia è stato uno dei paesi europei che ha privatizzato di più negli anni ‘90, ma anche in Regno Unito, Francia, Spagna e Germania le entrate da privatizzazioni sono state rilevanti (rispettivamente 64, 63, 51 e 43 miliardi di dollari; Fig. 1). Inoltre, nel Regno Unito privatizzazioni molto più consistenti erano state già effettuate negli anni ’80 durante il governo Thatcher.

Subito dopo gli anni ‘90, le privatizzazioni sono diminuite in tutti i paesi. Il forte calo tra il 2000 e il 2003 è stato principalmente dovuto allo scoppio della bolla finanziaria “Dot.com”. Dopo una ripresa tra il 2004 e il 2007, le privatizzazioni sono scese notevolmente. La discesa è stata rapida in Italia dove le entrate da privatizzazioni sono poi rimaste pressoché stabili al di sotto dello 0,1 per cento del Pil dal 2006 al 2011. In Spagna, Germania e Regno Unito sono rimaste in media attorno a 0,2 e 0,5 per cento del Pil. La Francia, invece, ha realizzato più privatizzazioni negli anni ’00 che negli anni ’90 (con entrate che hanno raggiunto il 7,1 per cento del Pil contro il 4,1 negli anni ‘90).

Dal 2012 al 2014 si è verificata una nuova fase di privatizzazioni, molto più contenuta rispetto a quella dei precedenti vent’anni (le privatizzazioni britanniche post-2008 hanno riguardato la ri-privatizzazione delle banche che erano state salvate durante la crisi). Le transazioni più rilevanti hanno riguardato le ulteriori cessioni di quote di imprese, come Eni e Enel e Poste Italiane, che comunque hanno continuato a essere controllate dal settore pubblico.

Negli ultimi anni le privatizzazioni si sono arrestate. In Italia le ultime transazioni risalgono infatti al 2016, con cessioni di partecipazioni minoritarie di Poste italiane e Enav Spa e la privatizzazione dell’attività di retail di Grandi Stazioni Spa.

Occorre infine ricordare che, soprattutto dopo il 2000, la riduzione del ruolo dello Stato imprenditore italiano è stata in parte compensata da un rapido aumento delle partecipate locali, il cui numero è cresciuto nel tempo.  Gli enti locali infatti hanno fatto sempre più utilizzo di società di diritto privato per la gestione di servizi e per l’esercizio di attività pubbliche, il che ha posto la necessità di limitare l’utilizzo dello strumento societario da parte dei piccoli comuni e di razionalizzare le partecipate locali.[4] Sempre per quanto riguarda l’azione dello Stato imprenditore subito dopo la prima ondata di privatizzazioni, è bene ricordare che nel settore bancario, nonostante la privatizzazione di diritto e la cessione delle quote pubbliche alle fondazioni bancarie, il controllo di fatto di diversi istituti è rimasto indirettamente nelle mani della Pubblica Amministrazione, tramite il controllo delle fondazioni stesse (ad esempio, il principale azionista di Intesa San Paolo è la Compagnia di San Paolo, il cui board è espressione di alcuni enti locali).

Le partecipazioni pubbliche italiane e dei principali paesi europei

Le fonti dei dati sull’incidenza attuale delle imprese partecipate da Stato ed enti locali (direttamente e indirettamente) sono abbastanza dispersive. Da una parte, il MEF ha compilato solo fino al 2017 il “Rapporto annuale sulle partecipazioni delle PA”, che dovrebbe corrispondere ad un censimento delle partecipate, anche se, oltre a non essere aggiornato, per molte società mancano informazioni fondamentali come il numero di dipendenti e il giro d’affari.[5] Dall’altro, l’ISTAT compila il “Registro delle Unità economiche a partecipazione pubblica”, di cui fornisce dati aggregati. Anche per queste informazioni, l’ultimo anno disponibile è il 2017, in cui le partecipate, comprese quelle locali, ammontavano a 6.310 unità e impiegavano oltre 847mila dipendenti.

Ci sono poi le fonti internazionali. L’Eurostat riporta, per ciascun paese europeo a partire dal 1998/1999, una stima del valore di tutte le partecipazioni dello Stato e degli enti locali. Dal 1999 al 2019, in Italia, Francia, Germania, Spagna e Regno Unito il livello del valore delle partecipazioni rimane stabile o aumenta nel tempo (a maggior ragione se si tiene conto che il denominatore, cioè il Pil, cresce), nonostante le privatizzazioni intraprese nello stesso periodo (Fig. 2). Di conseguenza, il valore delle partecipazioni non dismesse deve essere aumentato in tutti e quattro i paesi, dato che sono mancate nazionalizzazioni rilevanti in seguito alla crisi del 2008. È possibile che questo sia dovuto, oltre che all’inflazione, al miglioramento della profittabilità e della trasparenza nella governance delle imprese pubbliche, ottenuto tramite le modificazioni del loro status giuridico e il maggior allineamento al mercato del loro operato, incoraggiati dall’Unione Europea e dai governi nazionali. Nel caso italiano, può poi aver influito anche la crescita nel numero delle partecipate locali nel primo decennio del secolo.

Dai dati Eurostat, sembrerebbe che lo Stato imprenditore italiano sia molto meno sviluppato e attivo di quello francese, tedesco e spagnolo e abbastanza in linea con quello britannico. Nell’ultimo ventennio il valore delle partecipazioni pubbliche rispetto al Pil in Italia è sempre stato al di sotto dello stesso dato per Francia, Germania, Spagna (salvo per un breve periodo nel 2004) e, tranne che nel 2019, addirittura per il Regno Unito, in cui negli ultimi decenni lo Stato ha svolto un ruolo limitato. Da qui la tesi che, nell’assetto attuale, le imprese pubbliche non stiano svolgendo quel ruolo strategico che invece svolgono negli altri principali paesi europei e, in particolare, in Francia e Germania. Tuttavia, la Fig. 2, seppur utile per individuare il trend temporale del valore delle partecipazioni rispetto alla dimensione dell’economia, può essere ingannevole nel valutare il ruolo delle imprese pubbliche nei diversi paesi, soprattutto in certi comparti strategici.

Infatti, il ruolo delle piccole e medie imprese, in termini di produzione e di impiego, è particolarmente elevato nel nostro paese rispetto a Germania, Francia, Regno Unito e, probabilmente, Spagna. Visto che, soprattutto nel caso delle partecipazioni statali, l’investimento pubblico è prevalentemente orientato alle grandi imprese, è inevitabile che in un paese di piccole e medie imprese la presenza dello stato imprenditore appaia più contenuta rispetto al Pil. Ciò non significa che le grandi imprese pubbliche abbiano un peso minore in termine di potenziale ruolo strategico. Di conseguenza, per avere un’idea dell’intervento dello Stato imprenditore nelle grandi imprese che possono avere un ruolo strategico, è più utile utilizzare dati diversi, che si focalizzano direttamente sulle grandi imprese.[6]

Tav. 1: Confronto delle partecipazioni pubbliche strategiche

(società non bancarie, 2019)

 

Italia

Francia

Germania

Spagna

Regno Unito

Partecipate pubbliche tra le 50 società più grandi

 

numero

13

15

6

5

0

Dipendenti delle partecipate pubbliche tra le 50 società più grandi

 

numero (migliaia)

556

1.938

1.681

158

0

percentuale (sul totale delle 50)

34,3

29,0

25,5

7,1

0

Fonte: Elaborazione OCPI su dati Orbis (2019).

 


In Italia 13 tra le 50 società italiane non bancarie più grandi sono partecipate (direttamente o indirettamente) dallo Stato e impiegano circa 556 mila dipendenti sugli 1,6 milioni impiegati da queste maggiori 50 (più del 34 per cento).[7] Lo stesso dato per la Francia (peso dello Stato imprenditore tra le prime 50 società) è simile a quello italiano: tra le 50 maggiori imprese, 15 sono partecipate dalla PA e rappresentano il 29 per cento dell’impiego. In Germania, anche se le partecipate pubbliche sono solo 6 su 50, impiegano comunque più del 25 per cento dei dipendenti delle 50 maggiori società (a causa di grandissime partecipate come Volkswagen), un dato comunque minore dell’Italia.[8] In Spagna, invece, lo Stato imprenditore è molto meno attivo tra le imprese strategiche, impiegando il 7,1 per cento della forza lavoro delle maggiori 50 società non bancarie (attraverso solo 5 partecipate). Infine, lo Stato britannico non possiede alcuna partecipazione nelle sue 50 maggiori imprese non bancarie e, per inciso, ha ceduto molte delle partecipazioni bancarie acquisite con i salvataggi del 2008/2009 (Tav. 1).

In conclusione, in questa nuova classifica, l’Italia è tutto fuorché fanalino di coda, e si mantiene a un livello simile rispetto alla Francia, nonché leggermente superiore ad essa per quanto riguarda la quota di impiego. In altre parole, il ruolo dello Stato italiano nelle maggiori imprese non appare più contenuto che altrove, nonostante il minor valore contabile delle partecipazioni italiane (Fig. 2) e le dimensioni contenute delle stesse. Infatti, anche se impiegano circa un terzo dei dipendenti delle corrispondenti francesi e tedesche, le principali partecipate pubbliche italiane hanno comunque una quota superiore al 30 per cento della forza lavoro delle 50 maggiori imprese del paese, un dato di 5,3 e 8,8 punti percentuali superiore rispetto a Francia e Germania (Tav. 1).

Conclusione

In conclusione, nonostante le privatizzazioni, il valore delle partecipazioni non è calato in modo considerevole in nessuno dei quattro grandi paesi dell’Europa continentale. È probabile che questo sia almeno in parte dovuto alla buona performance delle imprese di pubbliche o para-pubbliche che hanno beneficiato di una gestione più trasparente ed efficiente, grazie alla privatizzazione di diritto (ad es. Eni ed Enel in Italia). Detto questo, la valutazione delle dimensioni dello Stato imprenditore è complicata, soprattutto in Italia, in primis per la mancanza di dati completi e capillari. Tuttavia, si può affermare che l’intervento pubblico tra le imprese strategiche non appare inferiore in Italia rispetto alla Francia e sembrerebbe superiore se paragonato alla Germania.


[3] Nel 1990 fu istituita l’Autorità Garante della Concorrenza nel Mercato (ACGM), nel 1995 l'Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente (ARERA) e nel 1997 l'Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (AGCOM).

[6] L’analisi si focalizza, paese per paese, sulle 50 imprese non bancarie più grandi per numero di dipendenti. I dati sono di fonte Orbis (Bureau Van Dijk) e si riferiscono al 2019. Le banche sono state escluse a causa della difficoltà di categorizzazione di alcuni grandi istituti (ad es. Intesa Sanpaolo e Credit Agricole), aventi come azionisti di maggioranza relativa fondazioni private a loro volta partecipate da molteplici enti pubblici (ad es. enti locali o casse di risparmio degli enti locali).

[7] Nel nostro calcolo includiamo tutte le società tra le maggiori 50 in cui lo Stato (tramite un qualsiasi ente pubblico, ad es. CDP) ha una partecipazione azionaria rilevante. Per essere rilevante, una partecipazione deve essere tra le maggiori 5 della società stessa e superare il 5 per cento. In questo modo si includono le partecipazioni in grado di influenzare la governance di un’impresa e si escludono quelle residuali. In ogni caso, la quasi totalità delle partecipazioni pubbliche considerate è molto superiore alla soglia fissata (in Italia solo 2 imprese sono partecipate con meno del 30 per cento).

[8] Lo Stato tedesco, grazie alla recente nazionalizzazione di Commerzbank, ha indirettamente acquisito una quota delle partecipazioni di questo grande istituto, che possiede a sua volta piccole quote in moltissime grandi imprese private tedesche. Tuttavia, gli investimenti di Commerzbank non costituiscono una quota di maggioranza o di controllo in alcuna società delle 50 considerate (ammontando sempre a meno dell’1 per cento). Allo stesso tempo, gli investimenti della Deutscher Sparkassen (una società di investimento indirettamente controllata dagli enti locali) sono altrettanto distribuiti tra molteplici società. Tuttavia, anche in questo caso, si tratta solo raramente di quote rilevanti che consentono di influenzare le decisioni dell’impresa partecipata. Quindi, sono state considerate partecipate dalla PA tramite Deutscher Sparkassen solo le società in cui questo ente era tra i primi azionisti in base alla regola già descritta.