Università Cattolica del Sacro Cuore

La spesa per la pubblica istruzione

di Alessandro Caiumi

29 luglio 2019

Nel 2017 la spesa italiana per la pubblica istruzione ammontava a 66 miliardi di euro, leggermente meno della spesa per il pagamento degli interessi sul debito pubblico. Valutando la spesa pubblica per istruzione sia rispetto al Pil, sia rispetto alla spesa pubblica totale, l’Italia si colloca agli ultimi posti delle classifiche europee e dalla crisi del 2007-08 in poi il divario con le medie UE si sta allargando. Il problema riguarda soprattutto l’istruzione terziaria. Tenendo conto della struttura demografica della popolazione, le spese per istruzione pubblica primaria e secondaria del nostro Paese sono poco sopra alle medie UE, mentre quella per istruzione terziaria è al penultimo posto in Europa. Nonostante il recente aumento di spesa privata, la situazione per l’istruzione universitaria è in peggioramento: la spesa complessiva è calata di oltre 600 milioni tra il 2010 e il 2015. L’Italia presenta anche un numero di laureati ben minore della media UE.

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Nel 2017 la spesa per la pubblica istruzione è stata pari a 66,1 miliardi di euro, di cui 25,1 miliardi per l’istruzione primaria (prescolastica e elementare), 30,4 miliardi per quella secondaria (scuole medie, scuole superiori e istruzione post-secondaria non-terziaria), 5,5 miliardi per quella terziaria (università) e i restanti 5,1 miliardi per servizi sussidiari e altre categorie residuali.[1] L’Italia è stata l’unico paese dell’Unione Europea in cui la spesa per interessi sul debito pubblico (e altre spese collegate), pari a 69 miliardi nel 2017, ha ecceduto quella per l’istruzione (per 0,2 punti percentuali di Pil).[2] Mentre l’ultimo caso analogo in Europa è rappresentato dalla Grecia nel 2012, per il nostro Paese questo fatto si ripropone annualmente dal 2011.

La spesa pubblica italiana per istruzione in percentuale di Pil, pari al 3,8 per cento nel 2017, è ben al di sotto della media europea (4,6 per cento). L’Italia si colloca nelle ultime posizioni in Europa, seguita solamente da Bulgaria, Irlanda e Romania (Figura 1). Se invece si considera la spesa pubblica per istruzione in percentuale di spesa pubblica totale, l’Italia è all’ultimo posto in Europa con solo il 7,9 per cento a fronte di una media europea del 10,2 per cento.

Preoccupa anche l’andamento della spesa pubblica per istruzione. Dal 2007, infatti, la spesa per istruzione in percentuale di spesa pubblica totale è scesa di quasi due punti percentuali (Figura 2). Nello stesso intervallo di tempo di tempo la media UE è invece calata solo leggermente, passando dal 10,6 per cento al 10,2 per cento, il che significa che l’Italia oggi è più distante dalla media UE di quanto non lo fosse prima della crisi. La riduzione nel peso della spesa per istruzione sul totale è avvenuto peraltro in un periodo in cui la spesa pubblica totale scendeva dell’1,3 per cento in termini reali. La spesa per istruzione scendeva ancora più rapidamente, del 9,1 per cento in termini nominali e del 19,6 al netto dell’inflazione. Il crescente distacco con la media europea è certificato anche dal rapporto tra spesa per pubblica istruzione e Pil, in calo per l’Italia nel decennio 2007-2017 dal 4,5 al 3,8 per cento e contro un calo della media UE dal 4,9 al 4,6 per cento. Questo declino è avvenuto in modo più rapido rispetto ai cambiamenti demografici: tra il 2007 e il 2017 la quota di popolazione 3-25 anni sul totale della popolazione è calata del 2,3 per cento, mentre la spesa media per popolazione 3-25 anni in pubblica istruzione in rapporto al reddito pro capite è calata del 14,1 per cento.[3]

I dati più preoccupanti riguardano l’istruzione universitaria. Mentre nel 2017 l’Italia riportava cifre in linea con la media europea per l’istruzione primaria e secondaria (1,5 e 1,7 per cento del Pil rispettivamente, a fronte di medie UE di 1,5 e 1,9 per cento), si apre un grosso divario quando si considera la spesa per istruzione terziaria. Lo Stato ha speso, infatti, solo lo 0,3 per cento del Pil per istruzione terziaria, nemmeno la metà della media europea dello 0,7 (Figura 3).[4] In questa voce l’Italia è all’ultimo posto in Europa, a pari merito con il Regno Unito.

Una possibile ipotesi è che la bassa spesa per pubblica istruzione si debba alla struttura demografica della popolazione, ossia che l’Italia spenda meno dei partner europei poiché ha meno giovani. Utilizzando la spesa media per popolazione 3-25 anni in pubblica istruzione in rapporto al reddito pro capite, indicatore che tiene conto sia del diverso numero di studenti sia del diverso livello delle risorse disponibili per finanziare la spesa, rispetto alle statistiche precedenti l’Italia migliora leggermente la sua posizione, avvicinandosi alla media UE ma restandone al di sotto di 1,4 punti percentuali di Pil pro capite (Figura 4). Compiendo questo esercizio per le tre principali categorie di istruzione (primaria, secondaria e terziaria) separatamente, emerge che il nostro Paese è leggermente al di sopra delle medie UE per la spesa media in istruzione primaria e secondaria (Figure 5 e 6), mentre è penultima in Europa per istruzione terziaria, con una spesa media in percentuale di Pil pro capite del 5,3 per cento a fronte di una media UE del 10 per cento (Figura 7). Pur controllando per la struttura demografica, quindi, la spesa italiana per istruzione terziaria è molto bassa.

Si potrebbe argomentare che per colmare il divario di spesa pubblica per istruzione terziaria l’Italia faccia affidamento alla spesa privata. Tuttavia, sebbene la quota di spesa privata sul totale in Italia (attorno al 30 per cento) sia leggermente più alta rispetto alla media UE, il totale tra spesa pubblica e privata per l’istruzione universitaria in percentuale di Pil è stato dello 0,6 per cento nel 2015, al di sotto della media UE (0,9 per cento).[5] Inoltre, occorre notare che tra il 2010 e il 2015 l’Italia è stata tra i paesi che hanno visto aumentare maggiormente la quota di spesa privata sul totale dell’istruzione universitaria (236 milioni in più nel 2015 rispetto a 5 anni prima), ma questo non ha compensato il calo della quota della spesa pubblica nello stesso periodo, generando una riduzione complessiva di 637 milioni.[6]

È difficile pensare che la carenza di spesa pubblica per istruzione universitaria non sia strettamente legata alla percentuale di persone che conseguono una laurea, solamente il 26,9 per cento in Italia a fronte di una media europea del 39,9 per cento.[7] Se da un lato è possibile che minori risorse impiegate (meno docenti, strutture peggiori, ecc.) non creino le condizioni ottimali per il conseguimento della laurea, non si può però escludere che tra le spiegazioni del basso numero di laureati vi sia una bassa propensione ad iscriversi all’università a causa dei rendimenti attesi. In Italia gli adulti laureati guadagnano in media solo il 38 per cento in più di coloro che dopo la scuola superiore non hanno proseguito gli studi, mentre la media OCSE è del 55 per cento in più.[8] Questo fatto potrebbe essere motivato dalla scelta del percorso universitario: in Italia, infatti, la percentuale di laureati in discipline umanistiche, in media meno remunerative nel mercato del lavoro, è più alta rispetto agli altri paesi (il 39 per cento contro una media del 23). 

In conclusione, anche tenendo conto degli aspetti demografici, l’Italia spende meno in istruzione terziaria rispetto agli altri paesi europei. Pur essendo difficile stabilire se la bassa percentuale di laureati sia un problema di domanda (i giovani non sono interessati ad iscriversi o a portare a termine il percorso) o di offerta (si spende meno e ciò riduce la qualità nell’istruzione terziaria e quindi l’interesse degli studenti), ciò non toglie che una seria lotta agli sprechi in altri settori potrebbe liberare risorse da far confluire nell’istruzione universitaria. Anche alla luce dell’effetto che l’istruzione terziaria ha sull’inserimento nel mercato del lavoro e sulla formazione del capitale umano, sarebbe auspicabile assestarci su una spesa per l’università più vicina alle medie UE ed OCSE.

 

[1] La categoria di spesa “istruzione post-secondaria non-terziaria” ammonta a 0,4 miliardi e comprende le spese destinate a programmi di apprendimento, dopo le scuole superiori, volti a preparare all’ingresso nel mercato del lavoro o al proseguimento degli studi nelle università. Come avviene nelle pubblicazioni OCSE sul tema dell’istruzione, in questa nota la spesa per istruzione post-secondaria non-terziaria viene inclusa nella macro-categoria “istruzione secondaria” al fine di facilitare i confronti internazionali (ridotti alle 3 macro-categorie di istruzione primaria, secondaria, terziaria).

[2] La cifra riportata si riferisce alla voce COFOG 01.7.1 (“operazioni in materia di debito pubblico”) che include gli interessi sul debito e le spese per la sottoscrizione e l’emissione dei titoli di stato. Non sono invece compresi i costi amministrativi della gestione del debito.

[3] Utilizziamo la popolazione nella fascia di età 3-25 anni per approssimare il numero di studenti nelle scuole italiane di ogni ordine e grado.

[4] Si escludono i costi di “ricerca e sviluppo”, ossia i costi per amministrazione e funzionamento di enti pubblici impegnati nella ricerca applicata e nello sviluppo sperimentale relativo all’istruzione (voce COFOG 09.7.0).

[5] Per le statistiche comprensive dei dati sulla spesa privata si utilizza la seguente pubblicazione: OECD (2018), Education at a Glance 2018: OECD Indicators, OECD Publishing, Paris. Si veda: https://doi.org/10.1787/eag-2018-en. Inoltre, a differenza di quanto fatto sinora, da qui in avanti per “media UE” si farà riferimento alla media dei 23 paesi UE appartenenti all’OCSE.

[6] In questo calcolo sono inclusi anche i costi di “ricerca e sviluppo” per l’istruzione terziaria.

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