Pubblichiamo di seguito le slide e la relazione presentate dal Vice Direttore Giampaolo Galli in occasione della presentazione della Rivista di Politica Economica di Confindustria (Roma, 30 gennaio 2020).
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Non c’è dubbio – come argomenta Codogno – che se si guardano da lontano le grandi variabili economiche, le economie di successo sono quelle che più di altre sono state in grado di evitare, o uscire con danni limitati, dalle grandi crisi economico/finanziarie e in particolare dalle crisi dei debiti sovrani. Questo perché le situazioni di insolvenza o, per usare un termine anglosassone ampiamente in uso, di default, dello stato producono danni spesso permanenti, o quantomeno persistenti, alla struttura dell’economia. A differenza delle normali recessioni, frequentemente intaccano anche il lato dell’offerta e lacerano il rapporto di fiducia che sempre dovrebbe esistere fra i risparmiatori e lo stato.
L’esperienza e la teoria economica non ci consentono di dire in astratto qual è il livello del rapporto debito/PIL che mette a rischio la stabilità finanziaria e la crescita economica e i livelli sembrano variare a seconda delle condizioni specifiche e dei momenti storici. Vi sono stati molti paesi emergenti che hanno compromesso la loro stabilità finanziaria anche con livelli di debito/PIL molto bassi, inferiore al 50% del PIL, mentre il Giappone riesce a finanziare il proprio elevatissimo debito pubblico apparentemente senza un impatto negativo sulla stabilità finanziaria, ma probabilmente con un effetto sfavorevole sulla crescita economica. Per il caso del Giappone, nel confronto con l’Italia, il lavoro di Ugo Panizza propone tre spiegazioni. Primo, mentre il debito lordo giapponese si avvicina al 250% del PIL, il debito netto giapponese è al 150% del PIL. Nel caso dell’Italia, invece, la differenza tra debito lordo e debito netto è quasi irrilevante.
Secondo, il Giappone ha uno spazio fiscale molto più ampio di quello italiano. Le entrate e la spesa primaria dello stato italiano sono circa dieci punti del PIL più alte di quelle giapponesi. Mentre sarebbe difficile per l’Italia portare le entrate molto al di sopra del livello attuale, questo sarebbe molto più facile per il Giappone che ha entrate fiscali che si aggirano attorno al 35% del PIL. Infine, il Giappone è uno dei paesi con la più elevata posizione netta in rapporto PIL (60%); data la tendenza dei risparmiatori a comprare titoli domestici (cosiddetta “home country bias”), il fatto che il Giappone non debba prendere a prestito dall’estero facilita il finanziamento del debito giapponese.
Anche alla luce di queste considerazioni, il giudizio unanime degli autori di questo volume è che per l’Italia il problema del debito pubblico è molto serio. Il punto centrale è che dagli anni Settanta l’Italia fa fatica a mantenere la fiducia dei risparmiatori ed è andata incontro a numerose crisi: ricordiamo quella del 1976, quando nel giro di pochi giorni le fughe di capitali azzerarono le riserve valutarie della nazione, quella del 1992, quando l’Italia fu costretta ad abbandonare il sistema monetario europeo e quella, recente, del 2011. Ma anche negli anni Ottanta, periodo in cui non vi furono gravi episodi di crisi, l’Italia era considerata un paese meno affidabile di quasi tutti gli altri paesi europei: per questo, fu l’unico paese a mantenere una banda di oscillazione allargata rispetto a quella normale dello SME e fu comunque costretta a riallineamenti molto più ampi e frequenti degli altri paesi.
In una delle sue tante brillanti intuizioni, John Maynard Keynes spiegò che la crisi si manifesta nel momento in cui il contribuente non accetta più di pagare tasse extra per soddisfare le richieste del “rentier”, ossia per far fronte alla accresciuta spesa per interessi.[1] Gli investitori non si preoccupano se sanno che lo stato potrà far fronte alla spesa per interessi aumentando le tasse o anche riducendo le spese. Altrimenti, ha buoni motivi per preoccuparsi, specie se il livello del debito è elevato e l’avanzo primario non è sufficiente per determinarne una tendenza alla riduzione in rapporto alla dimensione dell’economia. La situazione è più grave quando il tasso d’interesse è persistentemente maggiore del tasso di crescita dell’economia: questa situazione genera il cosiddetto “effetto palla di neve”, ossia l’accumulo di debito per effetto dell’interesse composto, che obbliga a tenere un livello più elevato dell’avanzo primario.
Non vi è dubbio che queste considerazioni si applicano all’Italia di oggi: un paese che è stato già colpito da gravi crisi di fiducia in passato, in cui il tasso di interesse è maggiore del tasso di crescita (il più basso fra i paesi avanzati da circa un quarto di secolo), in cui anche la spesa pubblica e la pressione fiscale sono considerate quasi come immodificabili. Va aggiunto che la differenza fra tasso di interesse e tasso di crescita è endogena nel senso che una condizione di scarsa fiducia nella capacità dello stato di far fronte alle proprie obbligazioni nei confronti dei detentori dei titoli pubblici spinge verso l’alto il tasso di interesse e verso il basso il tasso di crescita. La prospettiva del default – o anche solo, come argomenta Presbitero, di maggiori tasse per evitare il default – tiene lontani non solo gli investitori finanziari, ma anche le imprese, nazionali ed estere, e deprime gli investimenti in capitale produttivo. Si ingenera così un circolo vizioso, in cui la bassa crescita interagisce con l’alto debito e i due problemi si aggravano a vicenda. Sempre nel lavoro di Presbitero, si mostra come un problema aggiuntivo e molto serio si verifica quando l’economia internazionale va in recessione, come avvenne nel 2009. I paesi che hanno spazio fiscale possono mettere in atto politiche di sostegno dell’economia e riescono spesso ad evitare di importare la recessione. Al contrario, i paesi privi di spazio fiscale, come era indubbiamente l’Italia nel 2008, sono costretti ad importare la recessione, il che peggiora il rapporto debito/PIL e può rendere necessarie politiche restrittive che aggravano i problemi dell’economia reale, causano fallimenti delle imprese, disoccupazione e aumento della povertà e di tutti gli indicatori di disagio sociale.Uno dei principali canali attraverso i quali l’alto debito si traduce in recessione dell’economia – come argomenta Stefano Caselli attraverso un’accurata ricostruzione della storia recente dell’Italia – è quello dell’aumento dello spread (rispetto ad un titolo privo di rischio, tipicamente il Bund tedesco nel caso dei paesi europei). Questo agisce sul capitale delle banche, specie quando queste detengono una gran quantità di titoli di stato, nonché sul costo della loro raccolta; ciò provoca scarsità di credito per l’economia e aumento del suo costo. Per questa via – quella del cosiddetto doom loop – il debito pubblico agisce da freno allo sviluppo dell’economia.
In teoria il problema del debito ha una soluzione semplice che consiste in riforme strutturali volte ad accrescere il saggio di sviluppo dell’economia: occorre rendere meno difficile fare impresa. Come noto, da questo punto di vista l’Italia non è messa bene, malgrado un drappello di imprese manifatturiere che in questi anni hanno saputo rinnovarsi e reggere alla sfida dei mercati internazionali. Come certifica l’indicatore Doing Business della Banca Mondiale, l’Italia è uno dei paesi in cui è più difficile fare impresa. Peraltro, le molte riforme che sono state fatte negli ultimi due decenni non sembrano aver dato i risultati sperati. Ancora oggi il tasso di crescita dell’Italia è fra i più bassi dell’Unione europea.
Di fronte a questa realtà, nonché alle prospettive di peggioramento dei conti pubblici legati all’invecchiamento della popolazione, il Fondo Monetario e la Commissione europea hanno iniziato a fare proiezioni a medio e lungo termine che non danno credito agli impegni, sempre ripetuti, delle autorità italiane di realizzare, in futuro, politiche atte ad ampliare l’avanzo primario in modo da piegare la dinamica del rapporto debito/PIL. Le istituzioni internazionali hanno fatto dunque esercizi di previsione a politiche invariate, giungendo a proiettare fortissimi aumenti del rapporto debito/PIL. Nella proiezione base della Commissione il debito aumenterebbe di altri 10 punti di PIL in meno di un decennio; secondo il Fondo monetario, il debito salirebbe oltre il 160% del PIL nell’arco di un quindicennio.
La prova del nove riguardo al fatto che queste proiezioni hanno un certo grado di realismo è che nessun partito politico è disposto ad ammettere che per mettere in sicurezza il paese occorrerebbe – come sostengono le organizzazioni internazionali e la Banca d’Italia – un avanzo primario fra il 3 e il 4% mantenuto per molti anni a venire. Nessun partito accetta di essere etichettato come il partito delle tasse e nessuno ha nemmeno ipotizzato tagli di spesa nell’ordine di quelli che sarebbero necessari. Peraltro, chi propone tagli di spesa lo fa, tipicamente, per far spazio ad altre spese (istruzione, sanità, ricerca ecc.) e chi propone misure per il recupero dell’evasione fiscale si preoccupa sempre di aggiungere che ad ogni euro di recupero deve corrispondere un euro di riduzione delle tasse a favore dei contribuenti in regola. Il debito sembra essere sparito dal discorso pubblico.
Molti ritengono peraltro che un avanzo del 3-4% non sia socialmente e politicamente sostenibile. Questa è anche l’opinione di autorevoli economisti: in particolare, Eichengreen e Panizza[2] hanno studiato molti episodi di consolidamenti fiscali giungendo alla conclusione che avanzi quali quelli che sono richiesti all’Italia non sono realistici. A conclusioni sostanzialmente analoghe giunge un lavoro del Fondo monetario redatto nel corso delle discussioni sulla necessità di ristrutturare il debito pubblico della Grecia nei confronti delle istituzioni europee[3].
In base a questi ragionamenti, non stupisce che, all’estero, sia abbastanza diffusa la preoccupazione che l’Italia non ce la faccia a reggere il peso del crescente debito pubblico e ci si interroghi su come fare a indurre le autorità italiane a prestare la giusta attenzione al problema.
Questo è peraltro - come argomenta nel suo saggio Marcello Messori - una preoccupazione che non è estranea ai processi di riforma in corso riguardo alla governance dell'Eurozona.
Quali sono le vie d’uscita rispetto a questo scenario? Messori propone di rinunciare a chiedere flessibilità alla Commissione europea in modo da avere una posizione più credibile nel negoziato dei prossimi mesi. Bernardini et al. argomentano che il debito italiano è sostenibile, a patto di fare le politiche giuste. Mostrano 11 casi di paesi avanzati che, dagli anni Novanta in poi, hanno ridotto il debito di oltre 25 punti di PIL migliorando l’avanzo primario e mantenendolo a livelli elevati per oltre un decennio. Nel loro campione, in media l’avanzo primario migliora di 4 punti e viene mantenuto attorno al 4% per oltre 12 anni; nello stesso arco di tempo, il debito scende di 41 punti di PIL. Gli autori mostrano anche che il miglioramento dell’avanzo primario non andò a detrimento della crescita, come invece vuole una ampia pubblicistica anti-austerity. Infatti, il tasso di crescita media di questi paesi si mantenne in media al 3,8%, anche più alto del tasso di crescita medio dei paesi avanzati dal 1980 al 2007 (3,1%). Il dato sulla crescita, se da un lato testimonia che si può fare l’aggiustamento senza danneggiare eccessivamente l’economia, dall’altro lato può far sorgere il dubbio che questi paesi siano riusciti a conseguire elevati avanzi primari proprio perché la crescita era particolarmente elevata. Rispetto a questa obiezione, gli autori mostrano la variazione dell’avanzo primario aggiustato per il ciclo fra i tre anni precedenti l’inizio dell’aggiustamento e i tre anni successivi: questa variazione è di circa 2 punti, il che suggerisce che la crescita sia stata di aiuto, ma non sia stata l’unica determinante; sono state anche importanti le politiche adottate, consistenti nella maggior parte dei casi in riduzioni delle spese, ma in alcuni casi importanti anche in aumenti della pressione fiscale. Gli autori mostrano anche che la correlazione fra la dimensione media dell’avanzo primario e il tasso di crescita medio dei vari paesi è negativa, il che suggerisce che i paesi con una crescita più bassa furono quelli che realizzarono gli avanzi primari più elevati proprio perché, avendo una crescita più bassa, furono costretti a mettere in atto politiche di bilancio più prudenti.
La conclusione è che l’Italia deve fare le riforme per la crescita e al tempo stesso aumentare l’avanzo primario, ma entrambe queste politiche sono difficili da attuare. Nasce perciò la domanda di soluzioni alternative.
Negli ultimi anni sono state avanzate varie proposte di mutualizzazione dei debiti pubblici dell’Eurozona. Erroneamente, queste proposte sono state viste da alcuni, specie in Italia, come delle soluzioni alternative alla linea ortodossa dell’accumulo di avanzi primari.
La proposta più influente fu quella avanzata nel 2011 dal Consiglio degli esperti economici tedeschi.
L’idea era quella di mettere i debiti in eccesso della soglia del 60% in un Fondo comune (detto ERF, European Redemption Fund) che si sarebbe finanziato sul mercato per acquisire i debiti degli stati membri[4]. In questo modo, gli stati più solidi dell’Eurozona avrebbero dato prova di una forte solidarietà nei confronti degli stati più fragili. In cambio questi ultimi si sarebbero sottoposti a condizioni assai severe, volte a eliminare i debiti al di sopra della soglia e a far sì che il Fondo potesse cessare l’attività nell’arco di 20–25 anni. Erano previste sanzioni rigorose, quali la cessazione dei riacquisti dei titoli in scadenza, per evitare che i paesi membri venissero meno agli impegni assunti in materia di politiche di bilancio.
Il lavoro che qui presentiamo di Marika Cioffi et al. si inserisce in quel filone di letteratura e cerca di disegnare un ERF che non comporti redistribuzioni implicite di risorse dai paesi deboli ai paesi forti, o, usando un linguaggio improprio ma assai comune, dal centro dell’Eurozona alla periferia. Questo risultato viene ottenuto sostanzialmente prevedendo che ogni paese si impegni a trasferire annualmente al Fondo un flusso di risorse commisurato al proprio rischio creditizio. In pratica, il trasferimento sarebbe calibrato in modo che il valore scontato del flusso atteso dei pagamenti futuri sia all’incirca uguale a quello della spesa per interessi che il paese avrebbe pagato per il debito trasferito, se il ERF non fosse stato introdotto. Al di là degli aspetti tecnici, la cosa che preme mettere in evidenza è che «al paese non verrebbe richiesto uno sforzo di bilancio di entità diversa rispetto a quello richiesto in assenza del ERF. Rispetto a proposte precedenti (ad esempio quella del Consiglio degli esperti tedeschi), l’invarianza del bilancio rende la proposta meno ambiziosa, ma forse proprio per questo più accettabile politicamente». Ciò significa che lo sforzo dell’aggiustamento (raggiungere il 3-4% di avanzo primario) rimane invariato con l’introduzione del Fondo. Ci si può chiedere dunque a cosa serva il Fondo. La risposta è che rende meno probabili crisi di liquidità lungo il percorso dell’aggiustamento. L’esperienza degli ultimi anni ha mostrato che anche in presenza di debiti sostenibili si possono generare delle crisi, dovute ad aspettative che si autorealizzano o a fattori esogeni che vengono amplificati e trasformano una temporanea crisi di liquidità in insolvenza. In realtà, anche la proposta del 2011 dei saggi tedeschi aveva lo stesso scopo e non quello di alleggerire l’onere dell’aggiustamento, ma dato che prevedeva che i contribuiti al Fondo non fossero commisurati alla rischiosità dei singoli paesi, essa comportava un pur modesto trasferimento di risorse fra paesi, il che la rendeva politicamente poco attraente nei paesi più stabili.
La storia ci dice in ogni caso che nessuna delle proposte sin qui avanzate è stata presa in seria considerazione dalle autorità dei paesi europei. Il motivo di fondo – come argomenta Lorenzo Codogno – è la sfiducia reciproca, quella stessa sfiducia che ha portato al blocco della terza gamba dell’Unione bancaria, l’assicurazione comune sui depositi, al rifiuto di creare un budget dell’Eurozona con finalità di stabilizzazione macroeconomica e alle proposte di riforma dell’ESM di cui si è detto sopra.
Un insieme di proposte che sembra invece avere qualche possibilità di successo riguarda la creazione di uno European Safe Asset, ossia di un titolo europeo privo di rischio[5]. L’idea è quella di aggirare l’ostacolo della scarsa fiducia che si frappone a progetti di mutualizzazione, creando al tempo stesso un titolo europeo privo di rischio. La finalità è di mettere fine all’asimmetria che si registra oggi, per cui quasi solo i titoli tedeschi sono considerati privi di rischio; il titolo dovrebbe sostituire i debiti nazionali nei bilanci delle banche che, come abbiamo ricordato sopra, sono oggi una primaria fonte di aggravamento delle crisi dei debiti sovrani (doom-loop). Una nuova proposta, che ha già suscitato notevole interesse, è quella degli E–bond elaborata da Gabriele Giudice e contenuta in questo volume[6]. In sintesi, gli E–bond sarebbero emessi da un emittente comune con un carattere istituzionale europeo che concederebbe gli importi così raccolti sul mercato agli stati membri attraverso prestiti privilegiati. Gli stati membri utilizzerebbero i fondi ricevuti per sostituire il debito esistente.
Giudice argomenta che l’uso della prelazione di questo credito (ossia della subordinazione degli altri debiti di nuova emissione a questo), limitato ad una percentuale massima del PIL nazionale, sarebbe sufficiente a rendere gli E–bond sicuri senza ricorrere alla cartolarizzazione, alla mutualizzazione del debito (attuale o futuro) o a delle garanzie comuni. I prestiti totali rappresenterebbero approssimativamente la stessa percentuale del PIL per ciascuno stato membro. Dato che la prelazione a favore del Fondo avrebbe l’effetto di aumentare la rischiosità del debito rimanente, Giudice propone di limitare l’operazione a un ammontare di debito corrispondente a circa il 30% del PIL. Questa proposta, come tutte le proposte di creazione di European Safe Assets, non ha la finalità di alleggerire l’onere dell’aggiustamento. Essa però, secondo Giudice, avrebbe per molti versi effetti analoghi a quelli delle proposte di mutualizzazione, nel senso che ridurrebbe l’instabilità finanziaria dell’Eurozona, rendendo meno probabili il verificarsi di crisi di liquidità che si avvitano su se stesse.
In conclusione, si può dire che né le proposte di mutualizzazione né, a maggior ragione, quelle di creazione di safe assets hanno l’effetto di alleggerire l’onere dell’aggiustamento. Entrambe però possono dare un contributo importante alla stabilità dell’Eurozona, riducendo la probabilità che il cammino lungo il faticoso sentiero che porta alla stabilità venga interrotto o comunque reso più difficile per il verificarsi di incidenti di percorso.
Di fronte alle oggettive difficoltà dell’aggiustamento di bilancio, fioriscono teorie o pseudo teorie alternative volte a illudere le persone, o meglio, gli elettori che esistono soluzioni facili a problemi difficili. Queste false soluzioni possono essere così elencate: aumentare il deficit per spingere il denominatore, ripudiare il debito, monetizzarlo, uscire dall’euro.
Un tema che non può essere eluso è quello dei tassi d’interesse negativi. Olivier Blanchard, nella sua lezione presidenziale all’ultimo meeting dell’American Economic Association, ha espresso in modo chiaro le implicazioni per la gestione debito in condizioni di tassi di interesse negativi[7]. Sebbene il suo argomento principale sia che, in questo contesto, il debito pubblico potrebbe avere costi minori di quelli che generalmente gli vengono attribuiti, egli conclude affermando che «l’obiettivo della mia lezione non è di argomentare per più debito, specialmente nell’attuale contesto politico. L’obiettivo è di arricchire, rispetto alla situazione attuale, la discussione sui costi del debito e delle politiche di bilancio» (p. 1197). Tuttavia, non sono mancate interpretazioni distorte della sua lezione. Secondo alcuni, Blanchard avrebbe detto che il debito pubblico è un falso problema e che la teoria economica dominante è sbagliata. Come è argomentato nel lavoro di Presbitero, questa è un’interpretazione sbagliata; peraltro – egli sostiene – il mondo della finanza potrebbe diventare pericoloso se i governi fossero indotti a credere che viviamo nel paese delle meraviglie in cui non è più operante il vincolo di bilancio.
In ogni caso, in situazioni in cui c’è ampia capacità produttiva inutilizzata e ci sono gap infrastrutturali da colmare, ma al tempo stesso lo stock di debito pubblico è elevato, i policy maker devono affrontare il trade-off tra la necessità di sostenere la domanda aggregata e gli investimenti e quella di contenere il rischio che il debito pubblico si avvii su una traiettoria insostenibile. Allo stato attuale, molti paesi si trovano a dover affrontare queste scelte, in una condizione in cui tassi di interesse a livelli storicamente bassi rendono particolarmente conveniente indebitarsi. La questione fondamentale, allora, è capire se il tasso di crescita dell’economia è superiore al costo del finanziamento. In Italia questo non è il caso oggi, e non lo è stato quasi mai in passato. Inoltre, se la politica di bilancio non è compatibile con un sentiero di sostenibilità del debito, i tassi di interesse sono destinati ad aumentare. Ne consegue che la presenza di un elevato debito pubblico, specialmente con una dinamica crescente, costituisce un fattore di vulnerabilità particolarmente importante, in grado di alterare le scelte di spesa, anche in periodi di tassi di interesse straordinariamente bassi. In Italia nel 2018, l’incertezza sulle politiche di bilancio e, in particolar modo, sulla volontà di cooperare con le istituzioni europee – fino ad arrivare a uno scenario di uscita dall’euro – ha messo chiaramente in luce i costi economici di politiche fiscali incompatibili con la sostenibilità del debito pubblico. Nel corso dell’estate del 2018, lo spread sui titoli del debito pubblico italiano è aumentato considerevolmente, riflettendo sia un maggiore rischio fiscale – ovvero il rischio che un deficit troppo elevato porti il debito su una traiettoria non sostenibile – che un maggior rischio di ridenominazione – ovvero il rischio legato all’abbandono della moneta unica.
Ma la questione centrale è che, come si è accennato, il differenziale tra tasso di crescita dell’economia e tasso di interesse è endogeno rispetto al livello di debito. Ciò implica che anche nei casi in cui il differenziale è negativo non è detto che rimanga tale in futuro, soprattutto in presenza di alti livelli di debito pubblico. Peraltro, tassi d’interesse negativi in termini reali non sono una novità: gran parte degli anni Settanta sono stati caratterizzati da questa condizione. E – come mostra Panizza nella sua bella ricostruzione della storia del debito italiano nel dopoguerra – i policy maker di allora si illudevano di poter fare deficit spending senza che questo si traducesse in un più elevato debito pubblico. Il conto fu pagato negli anni Ottanta quando i tassi d’interesse reali s’impennarono, in Italia come in tutti gli altri paesi, e l’Italia non riuscì, a differenza di quasi tutti gli altri paesi, a reagire con sufficiente prontezza e finì per accumulare quel debito altissimo che ancora oggi, dopo tre decenni di vani sforzi di risanamento, pesa come un macigno sulla nostra economia e, in particolare, sulle giovani generazioni.
Anche alla luce di questa vicenda, appare evidente che tassi di interesse molto bassi o addirittura negativi sono di grande aiuto per un paese ad alto debito come il nostro. Ma prudenza nella gestione del bilancio pubblico e riforme per eliminare i molti ostacoli alla competitività delle imprese restano componenti necessari e imprescindibili per la stabilità finanziaria e per la crescita economica.
[1] Keynes J.M., A Tract on Monetary Reform, p. 66, Mac Millan&co. limited, 1924.
[2] Eichengreen B., Panizza U. (2016), A Surplus of Ambition: Can Europe Rely on Large Primary Surpluses to Solve its Debt Problem?, Economic Policy 31 (85), pp. 5-49.
[3] International Monetary Fund (2016), Greece, Preliminary Debt Sustainability analysis – Updated Estimates and further Considerations, International Monetary Fund, Country Report No.16/130
[4] German Council of Economic Experts (2011), Assume Responsibility for Europe, Annual Report, 2011/12 (Wiesbaden).
[5] Il riferimento principale è al lavoro di Brunnermeier M.K., Langfeld S., Pagano M., Reis R., Nieu- werburgh S.V., Vayanos D. (2017), Esbies: Safety in the Tranches, Economic Policy, 32 (90), aprile.
[6] La proposta è stata avanzata per la prima volta in: Monti M. (2010) nella sezione “Supporting the Single Market and Financial Integration, through the Issuance of E-bonds” in A new strategy for the Single Market: at the service of Europe’s economy and society, Report to the President of the European Commission José Manuel Barroso, pp. 61-64, maggio.
[7] Blanchard O. (2019), Lezione presidenziale all’American Economic Association