Università Cattolica del Sacro Cuore

Il debito pubblico in Italia: perché è un problema e come se ne esce

Pubblichiamo di seguito le slide e la relazione presentate dal Vice Direttore Giampaolo Galli in occasione della presentazione della Rivista di Politica Economica di Confindustria (Roma, 30 gennaio 2020).

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Perché il debito pubblico è un problema

Non c’è dubbio – come argomenta Codogno – che se si guardano da lontano le grandi variabili economiche, le economie di successo sono quelle che più di altre sono state in grado di evitare, o uscire con danni limitati, dalle grandi crisi economico/finanziarie e in particolare dalle crisi dei debiti sovrani. Questo perché le situazioni di insolvenza o, per usare un termine anglosassone ampiamente in uso, di default, dello stato producono danni spesso permanenti, o quantomeno persistenti, alla struttura dell’economia. A differenza delle normali recessioni, frequentemente intaccano anche il lato dell’offerta e lacerano il rapporto di fiducia che sempre dovrebbe esistere fra i risparmiatori e lo stato.

L’esperienza e la teoria economica non ci consentono di dire in astratto qual è il livello del rapporto debito/PIL che mette a rischio la stabilità finanziaria e la crescita economica e i livelli sembrano variare a seconda delle condizioni specifiche e dei momenti storici. Vi sono stati molti paesi emergenti che hanno compromesso la loro stabilità finanziaria anche con livelli di debito/PIL molto bassi, inferiore al 50% del PIL, mentre il Giappone riesce a finanziare il proprio elevatissimo debito pubblico apparentemente senza un impatto negativo sulla stabilità finanziaria, ma probabilmente con un effetto sfavorevole sulla crescita economica. Per il caso del Giappone, nel confronto con l’Italia, il lavoro di Ugo Panizza propone tre spiegazioni. Primo, mentre il debito lordo giapponese si avvicina al 250% del PIL, il debito netto giapponese è al 150% del PIL. Nel caso dell’Italia, invece, la differenza tra debito lordo e debito netto è quasi irrilevante.

Secondo, il Giappone ha uno spazio fiscale molto più ampio di quello italiano. Le entrate e la spesa primaria dello stato italiano sono circa dieci punti del PIL più alte di quelle giapponesi. Mentre sarebbe difficile per l’Italia portare le entrate molto al di sopra del livello attuale, questo sarebbe molto più facile per il Giappone che ha entrate fiscali che si aggirano attorno al 35% del PIL. Infine, il Giappone è uno dei paesi con la più elevata posizione netta in rapporto PIL (60%); data la tendenza dei risparmiatori a comprare titoli domestici (cosiddetta “home country bias”), il fatto che il Giappone non debba prendere a prestito dall’estero facilita il finanziamento del debito giapponese.

Anche alla luce di queste considerazioni, il giudizio unanime degli autori di questo volume è che per l’Italia il problema del debito pubblico è molto serio. Il punto centrale è che dagli anni Settanta l’Italia fa fatica a mantenere la fiducia dei risparmiatori ed è andata incontro a numerose crisi: ricordiamo quella del 1976, quando nel giro di pochi giorni le fughe di capitali azzerarono le riserve valutarie della nazione, quella del 1992, quando l’Italia fu costretta ad abbandonare il sistema monetario europeo e quella, recente, del 2011. Ma anche negli anni Ottanta, periodo in cui non vi furono gravi episodi di crisi, l’Italia era considerata un paese meno affidabile di quasi tutti gli altri paesi europei: per questo, fu l’unico paese a mantenere una banda di oscillazione allargata rispetto a quella normale dello SME e fu comunque costretta a riallineamenti molto più ampi e frequenti degli altri paesi.

In una delle sue tante brillanti intuizioni, John Maynard Keynes spiegò che la crisi si manifesta nel momento in cui il contribuente non accetta più di pagare tasse extra per soddisfare le richieste del “rentier”, ossia per far fronte alla accresciuta spesa per interessi.[1] Gli investitori non si preoccupano se sanno che lo stato potrà far fronte alla spesa per interessi aumentando le tasse o anche riducendo le spese. Altrimenti, ha buoni motivi per preoccuparsi, specie se il livello del debito è elevato e l’avanzo primario non è sufficiente per determinarne una tendenza alla riduzione in rapporto alla dimensione dell’economia. La situazione è più grave quando il tasso d’interesse è persistentemente maggiore del tasso di crescita dell’economia: questa situazione genera il cosiddetto “effetto palla di neve”, ossia l’accumulo di debito per effetto dell’interesse composto, che obbliga a tenere un livello più elevato dell’avanzo primario.

Non vi è dubbio che queste considerazioni si applicano all’Italia di oggi: un paese che è stato già colpito da gravi crisi di fiducia in passato, in cui il tasso di interesse è maggiore del tasso di crescita (il più basso fra i paesi avanzati da circa un quarto di secolo), in cui anche la spesa pubblica e la pressione fiscale sono considerate quasi come immodificabili. Va aggiunto che la differenza fra tasso di interesse e tasso di crescita è endogena nel senso che una condizione di scarsa fiducia nella capacità dello stato di far fronte alle proprie obbligazioni nei confronti dei detentori dei titoli pubblici spinge verso l’alto il tasso di interesse e verso il basso il tasso di crescita. La prospettiva del default – o anche solo, come argomenta Presbitero, di maggiori tasse per evitare il default – tiene lontani non solo gli investitori finanziari, ma anche le imprese, nazionali ed estere, e deprime gli investimenti in capitale produttivo. Si ingenera così un circolo vizioso, in cui la bassa crescita interagisce con l’alto debito e i due problemi si aggravano a vicenda. Sempre nel lavoro di Presbitero, si mostra come un problema aggiuntivo e molto serio si verifica quando l’economia internazionale va in recessione, come avvenne nel 2009. I paesi che hanno spazio fiscale possono mettere in atto politiche di sostegno dell’economia e riescono spesso ad evitare di importare la recessione. Al contrario, i paesi privi di spazio fiscale, come era indubbiamente l’Italia nel 2008, sono costretti ad importare la recessione, il che peggiora il rapporto debito/PIL e può rendere necessarie politiche restrittive che aggravano i problemi dell’economia reale, causano fallimenti delle imprese, disoccupazione e aumento della povertà e di tutti gli indicatori di disagio sociale.

Uno dei principali canali attraverso i quali l’alto debito si traduce in recessione dell’economia – come argomenta Stefano Caselli attraverso un’accurata ricostruzione della storia recente dell’Italia – è quello dell’aumento dello spread (rispetto ad un titolo privo di rischio, tipicamente il Bund tedesco nel caso dei paesi europei). Questo agisce sul capitale delle banche, specie quando queste detengono una gran quantità di titoli di stato, nonché sul costo della loro raccolta; ciò provoca scarsità di credito per l’economia e aumento del suo costo. Per questa via – quella del cosiddetto doom loop – il debito pubblico agisce da freno allo sviluppo dell’economia.

Quali le vie d’uscita?

In teoria il problema del debito ha una soluzione semplice che consiste in riforme strutturali volte ad accrescere il saggio di sviluppo dell’economia: occorre rendere meno difficile fare impresa. Come noto, da questo punto di vista l’Italia non è messa bene, malgrado un drappello di imprese manifatturiere che in questi anni hanno saputo rinnovarsi e reggere alla sfida dei mercati internazionali. Come certifica l’indicatore Doing Business della Banca Mondiale, l’Italia è uno dei paesi in cui è più difficile fare impresa. Peraltro, le molte riforme che sono state fatte negli ultimi due decenni non sembrano aver dato i risultati sperati. Ancora oggi il tasso di crescita dell’Italia è fra i più bassi dell’Unione europea.

Di fronte a questa realtà, nonché alle prospettive di peggioramento dei conti pubblici legati all’invecchiamento della popolazione, il Fondo Monetario e la Commissione europea hanno iniziato a fare proiezioni a medio e lungo termine che non danno credito agli impegni, sempre ripetuti, delle autorità italiane di realizzare, in futuro, politiche atte ad ampliare l’avanzo primario in modo da piegare la dinamica del rapporto debito/PIL. Le istituzioni internazionali hanno fatto dunque esercizi di previsione a politiche invariate, giungendo a proiettare fortissimi aumenti del rapporto debito/PIL. Nella proiezione base della Commissione il debito aumenterebbe di altri 10 punti di PIL in meno di un decennio; secondo il Fondo monetario, il debito salirebbe oltre il 160% del PIL nell’arco di un quindicennio.

La prova del nove riguardo al fatto che queste proiezioni hanno un certo grado di realismo è che nessun partito politico è disposto ad ammettere che per mettere in sicurezza il paese occorrerebbe – come sostengono le organizzazioni internazionali e la Banca d’Italia – un avanzo primario fra il 3 e il 4% mantenuto per molti anni a venire. Nessun partito accetta di essere etichettato come il partito delle tasse e nessuno ha nemmeno ipotizzato tagli di spesa nell’ordine di quelli che sarebbero necessari. Peraltro, chi propone tagli di spesa lo fa, tipicamente, per far spazio ad altre spese (istruzione, sanità, ricerca ecc.) e chi propone misure per il recupero dell’evasione fiscale si preoccupa sempre di aggiungere che ad ogni euro di recupero deve corrispondere un euro di riduzione delle tasse a favore dei contribuenti in regola. Il debito sembra essere sparito dal discorso pubblico.

Molti ritengono peraltro che un avanzo del 3-4% non sia socialmente e politicamente sostenibile. Questa è anche l’opinione di autorevoli economisti: in particolare, Eichengreen e Panizza[2] hanno studiato molti episodi di consolidamenti fiscali giungendo alla conclusione che avanzi quali quelli che sono richiesti all’Italia non sono realistici. A conclusioni sostanzialmente analoghe giunge un lavoro del Fondo monetario redatto nel corso delle discussioni sulla necessità di ristrutturare il debito pubblico della Grecia nei confronti delle istituzioni europee[3].

In base a questi ragionamenti, non stupisce che, all’estero, sia abbastanza diffusa la preoccupazione che l’Italia non ce la faccia a reggere il peso del crescente debito pubblico e ci si interroghi su come fare a indurre le autorità italiane a prestare la giusta attenzione al problema.

Questo è peraltro - come argomenta nel suo saggio Marcello Messori - una preoccupazione che non è estranea ai processi di riforma in corso riguardo alla governance dell'Eurozona.

Quali sono le vie d’uscita rispetto a questo scenario? Messori propone di rinunciare a chiedere flessibilità alla Commissione europea in modo da avere una posizione più credibile nel negoziato dei prossimi mesi. Bernardini et al. argomentano che il debito italiano è sostenibile, a patto di fare le politiche giuste. Mostrano 11 casi di paesi avanzati che, dagli anni Novanta in poi, hanno ridotto il debito di oltre 25 punti di PIL migliorando l’avanzo primario e mantenendolo a livelli elevati per oltre un decennio. Nel loro campione, in media l’avanzo primario migliora di 4 punti e viene mantenuto attorno al 4% per oltre 12 anni; nello stesso arco di tempo, il debito scende di 41 punti di PIL. Gli autori mostrano anche che il miglioramento dell’avanzo primario non andò a detrimento della crescita, come invece vuole una ampia pubblicistica anti-austerity. Infatti, il tasso di crescita media di questi paesi si mantenne in media al 3,8%, anche più alto del tasso di crescita medio dei paesi avanzati dal 1980 al 2007 (3,1%). Il dato sulla crescita, se da un lato testimonia che si può fare l’aggiustamento senza danneggiare eccessivamente l’economia, dall’altro lato può far sorgere il dubbio che questi paesi siano riusciti a conseguire elevati avanzi primari proprio perché la crescita era particolarmente elevata. Rispetto a questa obiezione, gli autori mostrano la variazione dell’avanzo primario aggiustato per il ciclo fra i tre anni precedenti l’inizio dell’aggiustamento e i tre anni successivi: questa variazione è di circa 2 punti, il che suggerisce che la crescita sia stata di aiuto, ma non sia stata l’unica determinante; sono state anche importanti le politiche adottate, consistenti nella maggior parte dei casi in riduzioni delle spese, ma in alcuni casi importanti anche in aumenti della pressione fiscale. Gli autori mostrano anche che la correlazione fra la dimensione media dell’avanzo primario e il tasso di crescita medio dei vari paesi è negativa, il che suggerisce che i paesi con una crescita più bassa furono quelli che realizzarono gli avanzi primari più elevati proprio perché, avendo una crescita più bassa, furono costretti a mettere in atto politiche di bilancio più prudenti.

La conclusione è che l’Italia deve fare le riforme per la crescita e al tempo stesso aumentare l’avanzo primario, ma entrambe queste politiche sono difficili da attuare. Nasce perciò la domanda di soluzioni alternative.

Esistono soluzioni alternative? Mutualizzazione e European Safe Asset

Negli ultimi anni sono state avanzate varie proposte di mutualizzazione dei debiti pubblici dell’Eurozona. Erroneamente, queste proposte sono state viste da alcuni, specie in Italia, come delle soluzioni alternative alla linea ortodossa dell’accumulo di avanzi primari.

La proposta più influente fu quella avanzata nel 2011 dal Consiglio degli esperti economici tedeschi.

L’idea era quella di mettere i debiti in eccesso della soglia del 60% in un Fondo comune (detto ERF, European Redemption Fund) che si sarebbe finanziato sul mercato per acquisire i debiti degli stati membri[4]. In questo modo, gli stati più solidi dell’Eurozona avrebbero dato prova di una forte solidarietà nei confronti degli stati più fragili. In cambio questi ultimi si sarebbero sottoposti a condizioni assai severe, volte a eliminare i debiti al di sopra della soglia e a far sì che il Fondo potesse cessare l’attività nell’arco di 20–25 anni. Erano previste sanzioni rigorose, quali la cessazione dei riacquisti dei titoli in scadenza, per evitare che i paesi membri venissero meno agli impegni assunti in materia di politiche di bilancio.

Il lavoro che qui presentiamo di Marika Cioffi et al. si inserisce in quel filone di letteratura e cerca di disegnare un ERF che non comporti redistribuzioni implicite di risorse dai paesi deboli ai paesi forti, o, usando un linguaggio improprio ma assai comune, dal centro dell’Eurozona alla periferia. Questo risultato viene ottenuto sostanzialmente prevedendo che ogni paese si impegni a trasferire annualmente al Fondo un flusso di risorse commisurato al proprio rischio creditizio. In pratica, il trasferimento sarebbe calibrato in modo che il valore scontato del flusso atteso dei pagamenti futuri sia all’incirca uguale a quello della spesa per interessi che il paese avrebbe pagato per il debito trasferito, se il ERF non fosse stato introdotto. Al di là degli aspetti tecnici, la cosa che preme mettere in evidenza è che «al paese non verrebbe richiesto uno sforzo di bilancio di entità diversa rispetto a quello richiesto in assenza del ERF. Rispetto a proposte precedenti (ad esempio quella del Consiglio degli esperti tedeschi), l’invarianza del bilancio rende la proposta meno ambiziosa, ma forse proprio per questo più accettabile politicamente». Ciò significa che lo sforzo dell’aggiustamento (raggiungere il 3-4% di avanzo primario) rimane invariato con l’introduzione del Fondo. Ci si può chiedere dunque a cosa serva il Fondo. La risposta è che rende meno probabili crisi di liquidità lungo il percorso dell’aggiustamento. L’esperienza degli ultimi anni ha mostrato che anche in presenza di debiti sostenibili si possono generare delle crisi, dovute ad aspettative che si autorealizzano o a fattori esogeni che vengono amplificati e trasformano una temporanea crisi di liquidità in insolvenza. In realtà, anche la proposta del 2011 dei saggi tedeschi aveva lo stesso scopo e non quello di alleggerire l’onere dell’aggiustamento, ma dato che prevedeva che i contribuiti al Fondo non fossero commisurati alla rischiosità dei singoli paesi, essa comportava un pur modesto trasferimento di risorse fra paesi, il che la rendeva politicamente poco attraente nei paesi più stabili.

La storia ci dice in ogni caso che nessuna delle proposte sin qui avanzate è stata presa in seria considerazione dalle autorità dei paesi europei. Il motivo di fondo – come argomenta Lorenzo Codogno – è la sfiducia reciproca, quella stessa sfiducia che ha portato al blocco della terza gamba dell’Unione bancaria, l’assicurazione comune sui depositi, al rifiuto di creare un budget dell’Eurozona con finalità di stabilizzazione macroeconomica e alle proposte di riforma dell’ESM di cui si è detto sopra.

Un insieme di proposte che sembra invece avere qualche possibilità di successo riguarda la creazione di uno European Safe Asset, ossia di un titolo europeo privo di rischio[5]. L’idea è quella di aggirare l’ostacolo della scarsa fiducia che si frappone a progetti di mutualizzazione, creando al tempo stesso un titolo europeo privo di rischio. La finalità è di mettere fine all’asimmetria che si registra oggi, per cui quasi solo i titoli tedeschi sono considerati privi di rischio; il titolo dovrebbe sostituire i debiti nazionali nei bilanci delle banche che, come abbiamo ricordato sopra, sono oggi una primaria fonte di aggravamento delle crisi dei debiti sovrani (doom-loop). Una nuova proposta, che ha già suscitato notevole interesse, è quella degli E–bond elaborata da Gabriele Giudice e contenuta in questo volume[6]. In sintesi, gli E–bond sarebbero emessi da un emittente comune con un carattere istituzionale europeo che concederebbe gli importi così raccolti sul mercato agli stati membri attraverso prestiti privilegiati. Gli stati membri utilizzerebbero i fondi ricevuti per sostituire il debito esistente.

Giudice argomenta che l’uso della prelazione di questo credito (ossia della subordinazione degli altri debiti di nuova emissione a questo), limitato ad una percentuale massima del PIL nazionale, sarebbe sufficiente a rendere gli E–bond sicuri senza ricorrere alla cartolarizzazione, alla mutualizzazione del debito (attuale o futuro) o a delle garanzie comuni. I prestiti totali rappresenterebbero approssimativamente la stessa percentuale del PIL per ciascuno stato membro. Dato che la prelazione a favore del Fondo avrebbe l’effetto di aumentare la rischiosità del debito rimanente, Giudice propone di limitare l’operazione a un ammontare di debito corrispondente a circa il 30% del PIL. Questa proposta, come tutte le proposte di creazione di European Safe Assets, non ha la finalità di alleggerire l’onere dell’aggiustamento. Essa però, secondo Giudice, avrebbe per molti versi effetti analoghi a quelli delle proposte di mutualizzazione, nel senso che ridurrebbe l’instabilità finanziaria dell’Eurozona, rendendo meno probabili il verificarsi di crisi di liquidità che si avvitano su se stesse.

In conclusione, si può dire che né le proposte di mutualizzazione né, a maggior ragione, quelle di creazione di safe assets hanno l’effetto di alleggerire l’onere dell’aggiustamento. Entrambe però possono dare un contributo importante alla stabilità dell’Eurozona, riducendo la probabilità che il cammino lungo il faticoso sentiero che porta alla stabilità venga interrotto o comunque reso più difficile per il verificarsi di incidenti di percorso.

Le false soluzioni

Di fronte alle oggettive difficoltà dell’aggiustamento di bilancio, fioriscono teorie o pseudo teorie alternative volte a illudere le persone, o meglio, gli elettori che esistono soluzioni facili a problemi difficili. Queste false soluzioni possono essere così elencate: aumentare il deficit per spingere il denominatore, ripudiare il debito, monetizzarlo, uscire dall’euro.

  1. L’idea di aumentare il deficit per aumentare il PIL e per questa via sostenere le entrate fiscali e ridurre il rapporto debito/PIL è spesso sostenuta dai politici prima delle elezioni. È una strategia che permette loro di promettere il paradiso senza sacrifici: ridurre il debito senza dover aumentare le tasse o tagliare la spesa. Quest’idea ha una versione “di sinistra”, aumentare la spesa, promossa dai politici che spesso si definiscono keynesiani. Oppure ha una versione “di destra”, tagliare le tasse, promossa dai politici che non sopportano di essere considerati keynesiani. Entrambe le versioni promettono miracoli che non fanno. Tutti i casi di successo analizzati nel lavoro di Bernardini et al. mostrano che l’unica strategia di successo per ridurre il debito è stata quella ortodossa, ovvero un miglioramento dell’avanzo primario. Come argomenta anche Panizza, una riduzione significativa del debito non è mai stata raggiunta aumentando la spesa o tagliando le tasse. Per diminuire il debito è necessario avere un avanzo primario sufficientemente elevato. Inoltre, mentre nel breve periodo è sensato perseguire politiche espansive per sostenere il ciclo, se la crescita è strutturalmente bassa al fine di mantenere il debito lungo un sentiero sostenibile non vi è altra strada se non quella di migliorare l’avanzo primario. Questa politica dovrebbe essere accompagnata da riforme strutturali volte a innalzare il tasso di crescita attraverso maggior produttività e competitività. Lungi dal risolvere i problemi, l’aumento del deficit può anzi essere recessivo, come argomenta Becchetti. Ciò avviene perché i risparmiatori nazionali ed esteri che devono finanziare il debito acquistando titoli pubblici possono considerare quei titoli più rischiosi e chiedono in cambio rendimenti più elevati. Lo spread aumenta rischiando di innescare una speculazione che si autoalimenta e in cui le profezie di default finiscono per autoavverarsi. Si tratta di vicende che – argomenta Becchetti – abbiamo vissuto nel nostro Paese e che hanno portato alla caduta del governo Berlusconi e all’arrivo del governo Monti, e che abbiamo temuto di dover rivivere nello scorso autunno quando il governo Lega-Cinquestelle ha dichiarato di non voler rispettare i limiti di deficit stabiliti dalla Commissione UE.
  1. La seconda soluzione illusoria consiste nel ripudio del debito. Questa soluzione ha due versioni completamente diverse. Una prima versione muove dalla convinzione che, in caso di crisi, i contribuenti degli altri paesi europei possano venire in aiuto dell’Italia a patto che gli italiani, a cominciare dai detentori dei titoli pubblici, facciano anch’essi uno sforzo per risanare il bilancio pubblico. Una seconda versione è quella populista, sostenuta in Italia fino a qualche anno fa da Beppe Grillo: il debito non lo abbiamo fatto noi e dunque non lo paghiamo. Di più, per alcuni esponenti politici, il debito farebbe parte di un sistema di oppressione dei popoli e dunque il ripudio sarebbe giustificato anche sul piano morale. Il lavoro di Panizza fornisce una risposta convincente ad entrambe le posizioni, facendo notare due punti importanti. È vero che molti paesi hanno fatto default nella storia recente e che in molti casi questo non ha avuto effetti drammatici sulla crescita economica e anche sulla stessa capacità dei paesi di tornare ad attingere a finanziamenti sul mercato. Ma in tutti i casi si è trattato di paesi in via di sviluppo che hanno fatto default nei confronti degli investitori esteri, mentre in Italia solo il 31% del debito è detenuto da investitori esteri. Inoltre, il default non è stato quasi mai una scelta dei paesi – ciò che viene definito default strategico – ma una necessità dovuta al fatto che il paese non aveva più le risorse per pagare. Un default strategico, ossia la scelta esplicita di ripudiare il debito – avrebbe costi molto più elevati di un default legato all’impossibilità di pagare. Oggi in Italia il 43% del debito pubblico italiano è detenuto da banche, assicurazioni e fondi e un altro 6% è in mano alle famiglie italiane (il rimanente 20% è detenuto da Banca d’Italia). Ripudiare il debito porterebbe a grandi perdite per questi soggetti e a un impoverimento di famiglie e intermediari finanziari che avrebbe conseguenze gravi per tutta l’economia italiana.
    Il primo effetto di un ripudio sarebbe una riduzione diretta della ricchezza delle famiglie che detengono obbligazioni italiane direttamente o indirettamente tramite fondi e assicurazioni. Questa riduzione della ricchezza porterebbe ad una riduzione del consumo con conseguenze negative per il PIL. Data l’enorme quantità di titoli pubblici detenuti dalle banche italiane (il 25% del totale, circa 580 miliardi di euro) un ripudio del debito porterebbe anche a una catena di fallimenti bancari.
    Dato però che il sistema finanziario è necessario per finanziare le imprese e per le operazioni di pagamento, lo stato è praticamente obbligato ad intervenire per salvare il sistema finanziario. La necessità di salvare le banche non è legata al desiderio di salvare i plutocrati, ma alla necessità di salvare l’economia. Il fallimento di un importante operatore finanziario potrebbe causare effetti a catena e il crollo dell’intero sistema finanziario e industriale.
    Chiaramente – aggiunge Panizza – se un giorno l’Italia si trovasse in una situazione in cui non può rifinanziare i titoli in scadenza, una ristrutturazione sarebbe l’unica opzione possibile. L’Italia è sopravvissuta a due guerre mondiali e può anche sopravvivere a una ristrutturazione del debito. Però questa non è un’opzione da prendere alla leggera; una ristrutturazione preventiva del debito italiano sarebbe una strategia molto rischiosa, con costi elevati e risultati limitati in termini di riduzione del rapporto debito/PIL.
    Oltre a queste considerazioni, nel lavoro di Bernardini et al. si argomenta che la complessa vicenda della ristrutturazione del debito greco nel 2011–2012 suggerisce tre lezioni importanti. La prima è che ristrutturare ha effetti recessivi sulla domanda interna perché è una tassa sulla ricchezza e può causare una crisi del credito a causa sia delle perdite delle banche che del peggioramento della reputazione che colpisce le imprese locali quando c’è un default dello stato. La seconda è che anche grandi tagli del debito possono avere un effetto piccolo sul rapporto debito/PIL, a causa della caduta del PIL e la necessità di prevenire il collasso del sistema bancario attraverso una ricapitalizzazione che obbliga a contrarre nuovi debiti. Le riduzioni del rapporto debito/PIL sarebbero anche inferiori in caso di paesi in cui il debito è detenuto prevalentemente a livello nazionale, come in Italia. La terza lezione, forse la più importante, è che ristrutturare può essere un doloroso ma necessario complemento al ritorno alla rettitudine fiscale, ma non è un’alternativa ad essa: qualsiasi cosa si pensi sui tempi della ristrutturazione e l’ampiezza del pacchetto di misure di austerity richieste dalla Troika, non si può dubitare della necessità che la Grecia ritornasse alla responsabilità fiscale. Questi sono fattori importanti da ricordare quando si parla della ristrutturazione come un modo per risolvere il problema del debito.
  1. La monetizzazione del debito è una tentazione forte in un mondo in cui l’inflazione appare sconfitta e sembra che addirittura si sia perso il ricordo degli alti costi che essa inflisse ai cittadini di molti paesi non molti decenni addietro. Il problema, affrontato nei lavori di Panizza e di Becchetti, è che chi sostiene la soluzione della monetizzazione trascura la questione cruciale della credibilità delle banche centrali. Il quantitative easing attuato dalle principali banche centrali, a cominciare da quella giapponese, non ha prodotto significativi effetti sull’inflazione anche perché nessuno ha mai creduto che l’immissione di grandi quantità di moneta fosse dettata dalla necessità di finanziare lo stato. Se però per ripagare i propri debiti lo stato deve stampare molta moneta, questa moneta perde valore e i creditori ricevono un pagamento che, in termini reali, vale meno di quanto avevano prestato allo stato. Dal punto di vista legale questo non è un default, ma per il creditore le conseguenze sono identiche a quelle di un default. Inoltre, l’inflazione modifica il valore di tutti i contratti di debito stipulati in termini nominali e quindi trasferisce ricchezza dai creditori ai debitori (anche quelli privati, non solo lo stato) e questo trasferimento di ricchezza, tende ad essere regressivo perché i grandi creditori sono sovente in grado di proteggersi dall’inflazione con strumenti indicizzati, oppure portando i soldi all’estero.
    Inoltre – sostiene Panizza – l’affermazione che una banca centrale sovrana può eliminare il vincolo di bilancio dello stato non ha nessun fondamento empirico o teorico. Se questo fosse vero, i paesi con una banca centrale sovrana e che emettono debito nella propria moneta non avrebbero bisogno di finanziare la spesa pubblica tassando i propri cittadini. I sostenitori dell’idea che la moneta sovrana elimina i vincoli di bilancio dovrebbero spiegare perché in paesi come gli Stati Uniti, il Regno Unito e la Svizzera esistono le tasse.
  1. L’uscita dall’euro è una delle conseguenze dell’illusione di poter risolvere il problema del debito con la monetizzazione, senza pagare costi elevati in termini di inflazione, ciò che Leonardo Becchetti definisce “irredentismo monetario”. L’“irredentismo monetario” – argomenta Becchetti – ha una visione tutta particolare di ciò che costituisce la ricchezza di un paese che è molto simile al numero di banconote stampate; dunque, avere il controllo a livello nazionale dell’offerta di moneta e aumentarla vuol dire avere in mano la chiave per lo sviluppo e la prosperità. In realtà, il valore di un’economia non è il numero di banconote stampate e non aumenta aumentandone la stampa a prescindere, ma è la forza dell’economia reale e, collegata ad essa, la capacità di chi gestisce l’offerta di moneta di mantenere la fiducia e il potere d’acquisto della moneta stessa, evitando di innescare processi inflattivi e dinamiche speculative sul mercato dei cambi. La conclusione di Becchetti è che le idee troppo semplici devono essere sempre guardate con un certo sospetto. Come per il metodo Stamina nel campo della lotta ai tumori e i no vax in materia di vaccini l’“irredentismo monetario” ha un sapore “terrapiattista” e fa parte di una più ampia rivolta della gente comune verso le competenze e gli esperti nei diversi campi del sapere facilitata dall’esplosione della comunicazione sui social che abbatte ogni gerarchia e meritocrazia. L’idea che fuori dall’euro saremmo più liberi è totalmente fuorviante e priva di fondamento. Su questo punto, Becchetti ricorda un episodio nel quale Carlo Azeglio Ciampi, in un convegno che precedeva la nostra entrata nella moneta unica, alla domanda sul perché fosse a favore dell’ingresso dell’Italia affermava “per avere almeno una mano nella stanza dei bottoni”. Fuori dall’euro eravamo tutt’altro che liberi, andavamo a rimorchio di decisioni di politica monetaria prese in sedi nelle quali non potevamo intervenire. La differenza con l’avvento dell’euro è che ora siamo parte di quel board di esperti di tutti i paesi dell’Eurozona che prende le decisioni di politica monetaria. La verità è che abbiamo più sovranità monetaria oggi che prima dell’avvento dell’euro.
    Inoltre – ci ricorda Becchetti – una parte molto rilevante del problema si trova nel percorso che ci porta dalla situazione attuale alla “terra promessa” che vorremmo raggiungere. Come già ipotizzato da diversi economisti e commentatori, se le aspettative di un’uscita dall’euro aumentano e diventano molto elevate, il rischio di corsa agli sportelli è un rischio tangibile. Tutti i risparmiatori razionali, prevedendo una forte svalutazione dei loro risparmi convertiti dagli euro in nuova valuta locale, cercheranno di ritirarli e di trasferirli su conti esteri al riparo dal rischio di conversione. Non a caso nelle trame fantasiose di Eurexit si parla sempre di annuncio a sorpresa e a mercati chiusi e di restrizioni di accesso al bancomat per un congruo periodo di tempo. La temuta corsa agli sportelli si è effettivamente realizzata all’apice della crisi greca quando il governo chiuse le banche per venti giorni e, alla riapertura, consentì di ritirare non più di 60 euro al giorno dagli sportelli e dal Bancomat.
    L’altro “incidente” nella transizione da un equilibrio all’altro è legato al fatto che se il debito pubblico non viene ridenominato nella nuova valuta, il suo valore in rapporto al PIL aumenta in ragione della svalutazione rispetto all’euro. Peraltro, la ridenominazione nella nuova valuta verrebbe considerata come un default da parte delle agenzie di rating e dai mercati e darebbe luogo a infinite controversie legali. Un problema analogo si pone per i debiti esteri degli operatori privati: se non vengono ridenominati, le imprese debitrici potrebbero trovarsi nell’impossibilità di farvi fronte; se invece venissero ridenominati, queste imprese perderebbero lo standing creditizio e l’accesso al mercato per molto tempo.
    La stragrande maggioranza degli addetti ai lavori è consapevole di tutti questi problemi e ha sempre considerato per questo motivo l’ipotesi di Italexit devastante oltre che inutile. Per usare una metafora, è come se un consesso di medici si trovasse a consulto di fronte ad un malato con due ipotesi. Un’operazione pericolosissima (Italexit) che, quand’anche riuscisse, ha poche probabilità di migliorare la vita del paziente e portare ad una guarigione. O la scelta di non operare che può portare alla guarigione attraverso molte diverse terapie, non ultime quelle del quantitative easing della BCE e dell’assicurazione europea contro la disoccupazione proposta dalla nuova presidente della Commissione UE Ursula von der Leyen. Non è difficile scegliere la seconda opzione quando tutti gli elementi sono messi sul tavolo. Eppure, nell’epoca della rivoluzione contro le competenze, l’idea di Eurexit ha esercitato il suo fascino sulla gente comune e ha raggiunto una parte degli obiettivi che si proponeva di raggiungere: essere utilizzata come specchietto per le allodole in sede elettorale facendo leva sull’irredentismo monetario e sul fascino indiscutibile che esso esercita su una parte dei non addetti ai lavori.

Il debito pubblico nel tempo dei tassi d’interesse negativi

Un tema che non può essere eluso è quello dei tassi d’interesse negativi. Olivier Blanchard, nella sua lezione presidenziale all’ultimo meeting dell’American Economic Association, ha espresso in modo chiaro le implicazioni per la gestione debito in condizioni di tassi di interesse negativi[7]. Sebbene il suo argomento principale sia che, in questo contesto, il debito pubblico potrebbe avere costi minori di quelli che generalmente gli vengono attribuiti, egli conclude affermando che «l’obiettivo della mia lezione non è di argomentare per più debito, specialmente nell’attuale contesto politico. L’obiettivo è di arricchire, rispetto alla situazione attuale, la discussione sui costi del debito e delle politiche di bilancio» (p. 1197). Tuttavia, non sono mancate interpretazioni distorte della sua lezione. Secondo alcuni, Blanchard avrebbe detto che il debito pubblico è un falso problema e che la teoria economica dominante è sbagliata. Come è argomentato nel lavoro di Presbitero, questa è un’interpretazione sbagliata; peraltro – egli sostiene – il mondo della finanza potrebbe diventare pericoloso se i governi fossero indotti a credere che viviamo nel paese delle meraviglie in cui non è più operante il vincolo di bilancio.

In ogni caso, in situazioni in cui c’è ampia capacità produttiva inutilizzata e ci sono gap infrastrutturali da colmare, ma al tempo stesso lo stock di debito pubblico è elevato, i policy maker devono affrontare il trade-off tra la necessità di sostenere la domanda aggregata e gli investimenti e quella di contenere il rischio che il debito pubblico si avvii su una traiettoria insostenibile. Allo stato attuale, molti paesi si trovano a dover affrontare queste scelte, in una condizione in cui tassi di interesse a livelli storicamente bassi rendono particolarmente conveniente indebitarsi. La questione fondamentale, allora, è capire se il tasso di crescita dell’economia è superiore al costo del finanziamento. In Italia questo non è il caso oggi, e non lo è stato quasi mai in passato. Inoltre, se la politica di bilancio non è compatibile con un sentiero di sostenibilità del debito, i tassi di interesse sono destinati ad aumentare. Ne consegue che la presenza di un elevato debito pubblico, specialmente con una dinamica crescente, costituisce un fattore di vulnerabilità particolarmente importante, in grado di alterare le scelte di spesa, anche in periodi di tassi di interesse straordinariamente bassi. In Italia nel 2018, l’incertezza sulle politiche di bilancio e, in particolar modo, sulla volontà di cooperare con le istituzioni europee – fino ad arrivare a uno scenario di uscita dall’euro – ha messo chiaramente in luce i costi economici di politiche fiscali incompatibili con la sostenibilità del debito pubblico. Nel corso dell’estate del 2018, lo spread sui titoli del debito pubblico italiano è aumentato considerevolmente, riflettendo sia un maggiore rischio fiscale – ovvero il rischio che un deficit troppo elevato porti il debito su una traiettoria non sostenibile – che un maggior rischio di ridenominazione – ovvero il rischio legato all’abbandono della moneta unica.

Ma la questione centrale è che, come si è accennato, il differenziale tra tasso di crescita dell’economia e tasso di interesse è endogeno rispetto al livello di debito. Ciò implica che anche nei casi in cui il differenziale è negativo non è detto che rimanga tale in futuro, soprattutto in presenza di alti livelli di debito pubblico. Peraltro, tassi d’interesse negativi in termini reali non sono una novità: gran parte degli anni Settanta sono stati caratterizzati da questa condizione. E – come mostra Panizza nella sua bella ricostruzione della storia del debito italiano nel dopoguerra – i policy maker di allora si illudevano di poter fare deficit spending senza che questo si traducesse in un più elevato debito pubblico. Il conto fu pagato negli anni Ottanta quando i tassi d’interesse reali s’impennarono, in Italia come in tutti gli altri paesi, e l’Italia non riuscì, a differenza di quasi tutti gli altri paesi, a reagire con sufficiente prontezza e finì per accumulare quel debito altissimo che ancora oggi, dopo tre decenni di vani sforzi di risanamento, pesa come un macigno sulla nostra economia e, in particolare, sulle giovani generazioni.

Anche alla luce di questa vicenda, appare evidente che tassi di interesse molto bassi o addirittura negativi sono di grande aiuto per un paese ad alto debito come il nostro. Ma prudenza nella gestione del bilancio pubblico e riforme per eliminare i molti ostacoli alla competitività delle imprese restano componenti necessari e imprescindibili per la stabilità finanziaria e per la crescita economica.


[1] Keynes J.M., A Tract on Monetary Reform, p. 66, Mac Millan&co. limited, 1924.

[2] Eichengreen B., Panizza U. (2016), A Surplus of Ambition: Can Europe Rely on Large Primary Surpluses to Solve its Debt Problem?, Economic Policy 31 (85), pp. 5-49.

[3] International Monetary Fund (2016), Greece, Preliminary Debt Sustainability analysis – Updated Estimates and further Considerations, International Monetary Fund, Country Report No.16/130

[4] German Council of Economic Experts (2011), Assume Responsibility for Europe, Annual Report, 2011/12 (Wiesbaden).

[5] Il riferimento principale è al lavoro di Brunnermeier M.K., Langfeld S., Pagano M., Reis R., Nieu- werburgh S.V., Vayanos D. (2017), Esbies: Safety in the Tranches, Economic Policy, 32 (90), aprile.

[6] La proposta è stata avanzata per la prima volta in: Monti M. (2010) nella sezione “Supporting the Single Market and Financial Integration, through the Issuance of E-bonds” in A new strategy for the Single Market: at the service of Europe’s economy and society, Report to the President of the European Commission José Manuel Barroso, pp. 61-64, maggio.

[7] Blanchard O. (2019), Lezione presidenziale all’American Economic Association