Gender tax: tra criticità e alternative
di Raffaela Palomba
9 febbraio 2021
La gender tax, cioè una tassazione agevolata per i redditi percepiti dalle donne, è stata proposta da tempo per incentivare la partecipazione delle donne al mondo del lavoro. A fronte di critiche relative alla costituzionalità della misura, alla mancanza di equità o alla difficoltà di implementazione, alcuni autori hanno proposto alternative indipendenti dal genere che possano comunque stimolare l’occupazione femminile.
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Disuguaglianza di genere in Italia
La disparità di genere nel mondo del lavoro è un tema che potremmo (tristemente) definire evergreen, in quanto difficile da superare. Come sottolineato anche dal bilancio di genere dello Stato per il 2019, l’indice europeo di uguaglianza di genere (EIGE) relativo alla componente del lavoro, che tiene conto di tasso di occupazione, durata della vita lavorativa e occupazione in attività educative, sociali e sanitarie, è il più basso per l’Italia tra i paesi dell’Unione Europea (63,3 nel 2018 contro una media di 72,2 e su una scala in cui 100 coincide con una situazione di perfetta uguaglianza di genere). Inoltre, tra 2005 e 2018, è aumentato di soli 2,5 punti.[1]
La lentezza con cui ci muoviamo verso l’obiettivo (parità di genere prevista dall’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile) non dovrebbe sorprendere visto quanto poco viene fatto per raggiungerla. Il bilancio di genere riclassifica le spese dello Stato tra spese neutrali rispetto al genere, spese sensibili al genere (che possono generare effetti diversi per uomini e donne non per un’esplicita previsione basata sul genere, ma per loro natura) e spese che contrastano attivamente la disuguaglianza di genere (per esempio le politiche di conciliazione vita lavoro). Nel 2019 le spese sensibili erano pari al 16,5 per cento del totale delle spese; quelle destinate a ridurre le disuguaglianze, invece, erano solo lo 0,3 per cento.[2]
Oltre alla spesa, anche la tassazione può influire sulla riduzione delle disparità di genere. In Italia, come nella maggior parte dei paesi OCSE, il sistema di tassazione è su base individuale e, quindi, indipendente dallo stato coniugale. Nonostante questo, esistono disincentivi per una donna sposata a entrare nel mondo del lavoro o a lavorare di più. Ciò accade perché le donne sposate sono tipicamente il secondo percettore di reddito all’interno di una famiglia e, quando un altro membro della famiglia decide di lavorare, il primo percettore perde alcuni benefici fiscali (per esempio, la detrazione per coniuge a carico).
Cos’è la gender tax?
In questo contesto si inserisce il dibattito sulla “gender tax”, o tassazione di genere. Si tratta di uno strumento di cui si discute da circa 15 anni, ma che ancora non ha trovato applicazione pratica per una serie di motivi. La misura consisterebbe in una tassazione agevolata dei redditi da lavoro per le donne.
Tra i primi a proporre tale misura ci furono Alesina e Ichino (2007). Nel loro lavoro (rivisto nel 2011) Alesina e Ichino sostennero che, vista la maggiore elasticità dell’offerta di lavoro femminile rispetto a quella maschile (dovuta nel loro lavoro a una allocazione dei lavori domestici all’interno della famiglia che favorisce il marito), l’aliquota sul lavoro femminile dovrebbe essere inferiore, coerentemente con il principio di tassazione ottimale (introdotto da Ramsey nel 1927) per cui le basi fiscali che sono più elastiche alla tassazione dovrebbero essere tassate di meno. Gli autori sostengono che la gender tax potrebbe concorrere con le altre misure (congedi parentali, le quote rosa, ecc.) a ridurre il divario di genere in termini di offerta di lavoro, salario e formazione, ed essere meno distorsiva in quanto non basata su restrizioni ma su incentivi. Inoltre secondo gli autori potrebbe essere implementata senza alcun effetto sul deficit, compensando una minore tassazione per le donne con una maggiore tassazione per gli uomini: la diversa elasticità consentirebbe, a parità di gettito, di aumentare l’occupazione. Secondo gli autori, questa misura porterebbe nel lungo periodo ad una convergenza tra le elasticità (dovuta ad una più equa distribuzione dei carichi familiari) e quindi, sempre nel lungo periodo, non sarebbe necessario avere una aliquota differenziata per genere. L’aliquota media per le donne non dovrebbe eccedere il 67 per cento di quella per gli uomini, ma quasi certamente il livello ottimale potrebbe essere anche più basso.[3]
Colonna e Marcassa (2013) confrontano il sistema di tassazione italiano con alcune alternative ipotizzando un gettito fiscale costante. Questi autori concludono che una riduzione dell’aliquota per le donne del 50 per cento, accompagnata da una riduzione dei crediti d’imposta incondizionati e per coniuge a carico, porterebbe a un aumento del tasso di partecipazione delle donne al mondo del lavoro (definito come rapporto tra la forza lavoro e la popolazione in età lavorativa) di oltre due punti percentuali, indipendentemente dallo stato coniugale e dalla presenza di figli. Inoltre, un risultato molto simile si otterrebbe anche con trasferimenti vincolati all’occupazione.
Un sistema di tassazione di questo tipo presenta, tuttavia, alcune criticità. Come sottolineato da molti, un sistema esplicitamente basato sul genere potrebbe essere interpretato come una forma di discriminazione e sarebbe di dubbia costituzionalità rispetto alla parità di trattamento prevista dall’art.3 della Costituzione.[4] Inoltre, tale previsione non prenderebbe in considerazione l’esistenza di famiglie diverse da quelle tradizionalmente composte da moglie e marito, come le coppie omosessuali o i genitori single. Alcuni autori affermano anche che una tassazione basata sul genere potrebbe portare a una perdita di equità: un uomo con un reddito più basso potrebbe essere tassato con un’aliquota maggiore rispetto ad una donna con un reddito più alto. Infine, anche se la misura venisse introdotta senza effetti sul deficit di lungo termine, ci sarebbe comunque una prima fase di perdita di gettito poiché l’aggiustamento dell’offerta di lavoro femminile rispetto ad una tassazione più bassa non sarebbe immediata.
Possibili alternative
Il citato problema di costituzionalità potrebbe però essere facilmente aggirato prevedendo di alleggerire il carico fiscale per il secondo percettore di reddito, indipendentemente dal genere. Visto che il secondo percettore di reddito è solitamente donna, tale misura faciliterebbe comunque di fatto il lavoro femminile.
Tra i lavori che individuano la tassazione sul secondo percettore come un elemento determinante dell’occupazione femminile c’è un working paper di economisti del Fondo Monetario Internazionale (2016), secondo cui una riduzione della tassazione sul secondo percettore o dei contributi familiari (che creano il disincentivo) è associato ad un incremento dell’occupazione femminile. Un risultato simile si trova in un lavoro di Jaumotte (2003).
Saint Paul (2007) critica l’idea di una tassazione basata sul genere, ma propone, comunque, un sistema di tassazione che, di fatto, agevola il secondo percettore di reddito, e quindi solitamente la donna. L’autore sostiene che la diversa capacità di guadagno tra i membri di una coppia genera una differenza nelle elasticità delle ore di lavoro marginali e inframarginali. Sarebbe quindi ottimale tassare di più le ore di lavoro inframarginali, cioè quelle del primo percettore di reddito con maggiore capacità di guadagno (meno elastiche) e applicare, invece, un’aliquota più bassa alle ulteriori ore di lavoro, in modo da creare un incentivo nella decisione di iniziare a lavorare o lavorare di più da parte del secondo percettore.
Infine, Colombino e Narazani (2012) concludono che effetti simili a quello ottenuti con la gender tax in termini di occupazione femminile, ma migliori dal punto di vista dell’equità, potrebbero essere ottenuti tramite sussidi vincolati all’occupazione (come quelli esistenti negli Stati Uniti o nel Regno Unito), ossia con trasferimenti indipendenti dal reddito o una combinazione degli stessi (tutte misure indipendenti dal genere). In particolare, la misura ottimale per incrementare l’occupazione delle donne sposate sarebbe un sussidio condizionato all’occupazione pari al 10 per cento del salario orario, con una esenzione dalle tasse, per salari che non superino il 50 per cento della soglia di povertà (25 per cento per i membri di una coppia). La giustificazione teorica di tale misura risiede nell’evidenza mostrata da alcune analisi, per cui l’elasticità dell’offerta di lavoro differisce anche tra redditi alti e bassi e, in particolare, si riduce all’aumentare del reddito familiare. Il sussidio ai redditi bassi, quindi, allevierebbe il carico fiscale per la porzione più elastica dell’offerta di lavoro; vista la coincidenza frequente tra percettori di redditi bassi e donne, ciò aiuterebbe comunque a raggiungere lo scopo della gender tax.
Bibliografia
Alesina, Alberto, Andrea Ichino and Loukas Karabarbounis (2007), "Gender-based taxationand the Division of Family Chores ", mimeo, Harvard University and CEPR DP.
Alesina, Alberto, Andrea Ichino, and Loukas Karabarbounis (2011), "Gender-Based Taxation and the Division of Family Chores." American Economic Journal: Economic Policy, 3 (2): 1-40.
Colonna, Fabrizio and Marcassa, Stefania (2013), “Taxation and Labor Force Participation: The Case of Italy”. Bank of Italy Occasional Paper No. 191.
Christiansen, Lone, Lin, Huidan, Pereira, Joana, Topalova, Petia, and Turk, Rima (2016), “Individual choice or policies? Drivers of female employment in Europe”. Washington, D.C.: International Monetary Fund. (IMF Working Paper, European Department WP/16/49).
Jaumotte, Florence (2003), “Female Labour Force Participation: Past Trends and Main Determinants in OECD Countries”. OECD Working Paper No. 376.
Saint-Paul, Gilles (2007), “Against Gender-based taxation”. CEPR Discussion Papers 6582. C.E.P.R. Discussion Papers.
Colombino, Ugo and Narazani, Edlira (2012), “What's Best for Women: Gender Based Taxation, Wage Subsidies or Basic Income?”. IZA Discussion Paper No. 6828.
[1] Con il termine bilancio di genere, o gender budgeting, si intende il documento di bilancio che analizza e valuta in ottica di genere le scelte politiche e gli impegni economici-finanziari di un’amministrazione. Esso offre una rappresentazione delle spese del bilancio dello Stato riclassificate contabilmente in chiave di genere, una serie di indicatori statistici per monitorare le azioni intraprese per incidere sulle disuguaglianze di genere e la loro associazione alla struttura del bilancio, nonché un’analisi dell’impatto sul genere delle principali misure di politica tributaria.
[2] Alcuni interventi non trovano espressione nel bilancio di genere in quanto di natura regolamentare e quindi privi di effetti in termini di spesa, o perché composti da trasferimenti ad altre PA, come le norme su “quote rosa” e femminicidio, o le spese per servizi all’infanzia erogati dai comuni.
[4] “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.