Università Cattolica del Sacro Cuore

È una buona idea vendere l'oro della Banca d'Italia?

di Alessandro Caiumi

8 marzo 2019

Qualche esponente della maggioranza governativa ha recentemente proposto di vendere le riserve auree della Banca d’Italia al fine di migliorare le finanze pubbliche del paese. Tuttavia, questa azione non comporterebbe alcun beneficio consistente in termini di riduzione del debito pubblico. Al contrario, priverebbe l’Italia di uno scudo di ultima istanza, facilmente mobilitabile e universalmente accettato, molto utile in caso di crisi. La stessa proposta, inoltre, ignora gli accordi internazionali di cui la Banca d’Italia è parte integrante.

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Le riserve ufficiali

Per meglio inquadrare l’importanza delle riserve auree, è bene dapprima soffermarsi sulle riserve ufficiali e sul ruolo che hanno per la stabilità dell’economia.

La Banca d’Italia si occupa, tra le altre cose, di gestire le riserve ufficiali nazionali e, insieme alle banche centrali dell’Area Euro, una quota-parte di quelle della Banca Centrale Europea (BCE). Le riserve ufficiali nazionali, che ammontavano a circa 135,6 miliardi di euro al gennaio 2019, sono parte integrante delle riserve dell’Eurosistema e si compongono di riserve in oro, riserve in valuta estera, diritti speciali di prelievo presso il FMI, posizioni di riserva verso il FMI, e altre attività di riserva.

Tale detenzione svolge un ruolo fondamentale. Le riserve ufficiali, infatti, sono detenute per:

  • rafforzare la credibilità del Sistema europeo delle banche centrali (SEBC) e del sistema finanziario italiano;
  • alimentare la stabilità della moneta unica, in modo particolare in contesti di crisi valutarie o finanziarie. Le banche centrali ricorrono alle riserve ufficiali per sostenere la propria valuta e per intervenire nel mercato dei cambi in caso di squilibri nella bilancia dei pagamenti. Per esempio, per contrastare l’apprezzamento della moneta nazionale, che rende le importazioni più convenienti e le esportazioni più costose, una banca centrale può acquistare riserve valutarie. Viceversa, vendendo riserve estere la banca centrale può intervenire per contrastare l’eccessivo deprezzamento della valuta. Anche se, attualmente, la BCE non interviene sul mercato dei cambi, non si può escludere che questo possa avvenire in futuro per evitare una eccessiva volatilità del tasso di cambio dell’euro.

Inoltre, adeguate riserve nazionali permettono di ottemperare alle eventuali richieste da parte della BCE, che può richiedere ulteriore conferimento di riserve in circostanze specifiche, e di rispettare gli impegni verso organismi internazionali, come il Fondo Monetario Internazionale.

Le riserve auree della Banca d’Italia

Le riserve auree della Banca d’Italia corrispondono al 66,9 per cento del totale delle riserve ufficiali nazionali, per un valore pari a 90,8 miliardi di euro, e sono interamente composte dalle riserve auree nazionali, poiché le riserve in oro della BCE sono gestite direttamente dall’istituzione di Francoforte.[1] Le riserve auree nazionali appartengono giuridicamente alla Banca d’Italia che ha il compito di gestirle in armonia con il Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE): deve dunque sottostare a norme comunitarie in quanto banca centrale dell’Italia, nazione parte dell’Eurosistema.

Con circa 2.500 tonnellate, la Banca d’Italia è il quarto detentore di riserve auree nel mondo, dopo la Federal Reserve degli Stati Uniti, la Bundesbank tedesca e il Fondo Monetario Internazionale. Tuttavia, solamente circa il 45 per cento delle riserve auree nazionali è conservato in Italia, mentre la restante porzione è custodita presso le banche centrali degli Stati Uniti, della Svizzera e del Regno Unito. Tale allocazione dipende principalmente da tre ragioni. La prima è legata alla minimizzazione dei costi che si sarebbero dovuti sostenere per trasportare in Italia parte dell’oro quando fu comprato; la seconda è legata alla diversificazione del rischio ottenibile conservando l’oro in luoghi differenti; e la terza è legata alla minimizzazione di costi e di tempistiche qualora emergesse la necessità di vendere rapidamente una parte di riserve auree, che hanno come principali piazze di scambio proprio quei luoghi. Non vi è pertanto alcuna necessità né beneficio proveniente dal rimpatrio dell’oro conservato all’estero, tranne in caso di eventi catastrofici piuttosto improbabili quali conflitti bellici con i paesi che detengono il nostro oro.

Come illustrato dall’attuale Direttore Generale della Banca d’Italia Salvatore Rossi nel suo libro Oro (Il Mulino, 2018), ben 30.000 delle 190.000 tonnellate d’oro estratte sino ad oggi sono detenute dalle banche centrali. Vista l’entità dei volumi detenuti, per evitare episodi di turbamento nel mercato dell’oro simili a quanto avvenuto nel 1999, è emersa tra le banche centrali una volontà di coordinare eventuali vendite.[2] Nel maggio 2014 quindi, insieme alla BCE e ad altre 21 banche centrali, la Banca d’Italia ha firmato il quarto Central Bank Gold Agreement, che certifica la volontà dei firmatari di coordinarsi nelle transazioni per evitare shock nel mercato dell’oro e rende noto che nessuna delle nazioni rappresentate ha in programma la vendita di significative quantità d’oro. L’accordo quinquennale, in vigore dal 27 settembre 2014, scadrà quest’anno, il che forse spiega il dibattito sorto in Italia su questo tema negli ultimi mesi.

Perché le banche centrali conservano oro e l’uso che ne fece la Banca d’Italia nel 1974

La detenzione di oro da parte delle banche centrali è motivata da svariate ragioni. Innanzitutto, l’oro è considerato il bene rifugio per eccellenza, il cui valore è riconosciuto da qualsiasi attore economico, data l’incorruttibilità, la scarsità in natura e l’assenza di rischio di insolvenza, proprio perché non emesso da alcuna autorità, ad esso collegate. L’oro rappresenta dunque un presidio di sicurezza e può essere facilmente mobilitato in caso di emergenza. È l’estrema risorsa cui ricorrere in caso di crisi di fiducia nei confronti di un paese. In periodi di difficoltà finanziarie, infatti, le riserve devono poter essere liquidate in modo rapido ed efficiente, una possibilità assicurata dall’elevata frequenza di scambi di oro nei mercati finanziari, dai bassi costi di transazione e dall’universale accettazione del metallo prezioso. Tra l’altro, il prezzo dell’oro è meno correlato ai prezzi degli altri strumenti finanziari, essendo influenzato da eventi economici differenti, ed il suo possesso assicura dunque una maggiore diversificazione e una minore volatilità al portafoglio di riserve. Anche alla luce delle crescenti tensioni geopolitiche e dell’incertezza del quadro macroeconomico, il 2018 è stato non a caso un anno record per la domanda di oro da parte delle banche centrali, che ha toccato un livello mai più raggiunto dopo il 1971 e la fine del sistema di Bretton Woods, registrando un incremento del 74 per cento rispetto al 2017.[3],[4]

Un chiaro esempio del ruolo che le riserve auree possono svolgere per un paese è proprio rappresentato dall’uso che ne fece la Banca d’Italia in un momento di crisi. Nell’agosto del 1974, in un contesto di grave sfiducia, la Bundesbank accettò di erogare un prestito all’Italia solo a fronte della garanzia rappresentata dall’oro italiano. Ben 515 tonnellate d’oro, pari circa a un quinto delle riserve auree della Banca d’Italia, furono date in pegno per ottenere 2 miliardi di dollari dalla banca centrale tedesca. Il prestito venne estinto completamente nel 1978, con l’oro impegnato che non fu mai trasferito fisicamente, ma ebbe un ruolo chiave nel permettere alla Bundesbank l’erogazione del prestito.

La vendita delle riserve auree può risolvere il problema del debito pubblico?

Vendere l’oro della Banca d’Italia significherebbe, in sostanza, rinunciare a tutti i vantaggi sopra elencati, senza peraltro trarne alcun beneficio considerevole per la diminuzione del debito pubblico, tantomeno in una prospettiva di medio o lungo periodo. I 90,8 miliardi di euro cui ammonta la valutazione dell’oro italiano equivalgono infatti a poco meno del 4 per cento del debito pubblico. Gli introiti della vendita di tali riserve sarebbero tuttavia ben minori, alla luce dell’effetto negativo che l’ingente quantità avrebbe sul prezzo di equilibrio nel mercato dell’oro. Tale effetto sarebbe tutt’altro che trascurabile, considerando che le circa 2.500 tonnellate della Banca d’Italia impatterebbero enormemente sulle poco meno di 5.000 tonnellate che hanno rappresentato l’offerta globale di oro nel 2018.[5] Per di più vendere l’oro significherebbe anche venire meno ad accordi stipulati con altre nazioni, come ad esempio il Central Bank Gold Agreement. L’alternativa di vendere oro poco per volta, offrendo quote ridotte delle riserve auree in diverse tranches, potrebbe ridurre l’impatto delle vendite sul prezzo dell’oro, ma solo se il mercato non riflettesse nei suoi comportamenti correnti le aspettative delle future vendite, il che è improbabile.

Occorre anche tener conto del segnale che la vendita di riserve auree darebbe ai mercati. Si tratterebbe di un segnale molto negativo che desterebbe preoccupazione e che potrebbe affrettare una crisi da fronteggiare senza più oro cui attingere come riserva ultima.

La vendita delle riserve auree non porterebbe vantaggi nemmeno in termini di spread. Il giudizio degli investitori sull’affidabilità dell’Italia, infatti, non migliorerebbe semplicemente grazie a un’operazione una tantum che ridurrebbe solo marginalmente il debito pubblico. L’iniziativa non sarebbe che un escamotage per rimandare ulteriormente azioni volte a mantenere ed incrementare l’avanzo primario al fine di ottenere effetti positivi e duraturi sulla dinamica del rapporto debito pubblico-Pil, e dunque migliorare la valutazione dei mercati.

Inoltre, se proprio ci si volesse privare di qualcosa al fine di ottenere maggiore spazio di manovra, la scelta dell’oro non sarebbe la più saggia. Cedendo l’oro si venderebbero attività in un mercato tra i più liquidi in assoluto, il quale potrebbe assicurare introiti rapidi e sicuri in tempi ben peggiori. Varrebbe piuttosto la pena di considerare la cessione di altre attività del settore pubblico, le quali presentano invece un basso grado di liquidità e che quindi non possono essere vendute in periodi di crisi profonda. Ciò comporterebbe sì una riduzione sia delle attività sia delle passività dello Stato, ma diminuirebbe anche il rischio di crisi di illiquidità. Ovviamente, alla base di questo ragionamento c’è la premessa che la valorizzazione di tali attività non sia possibile, strategia che sarebbe, secondo alcuni osservatori, preferibile alla vendita.

Infine, un’ulteriore conseguenza derivante dalla vendita delle riserve auree sarebbe il segnale di ingerenza dello Stato nei confronti della banca centrale italiana, la cui indipendenza rappresenta un aspetto di vitale importanza.


[1] Si vedano le serie storiche sui valori delle riserve ufficiali disponibili sul sito della Banca d’Italia, disponibili a https://infostat.bancaditalia.it/inquiry/#eNpzDbDycbb1DNFx9Quz9fEMc9VxDomwdfF0c9Nx9rV1cvTz9gxx9PF01A%2FzdA23cg51cvV0CbYN%0ACQp1MzA0MNAvLqhMz0ksLtZPLcBljj4AcYgcRQ%3D%3D

[2] Nel 1999 il governo inglese si rese protagonista della vendita di un’ingente quantità d’oro che provocò un vertiginoso crollo del prezzo nel mercato globale.

[3] Fonte: World Gold Council. Si veda https://www.gold.org/goldhub/research/gold-demand-trends/gold-demand-trends-full-year-2018/central-banks-and-other-institutions

All’aumento della domanda è probabile che abbia contribuito anche l’insieme dei requisiti bancari imposti da Basilea 3, in vigore pienamente solo dal 2019, che considera, tra le altre cose, l’oro equivalente al denaro e lo qualifica come privo di rischio. Questo elemento avrebbe un effetto positivo sulla richiesta di oro delle banche.

[5] Fonte: World Gold Council. Si veda https://www.gold.org/goldhub/data/gold-supply-and-demand-statistics

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