Università Cattolica del Sacro Cuore

Digital tax: aggiornamento sulle trattative internazionali

di Giampaolo Galli e Raffaela Palomba

3 luglio 2020

A metà dello scorso giugno, gli USA hanno sospeso le trattative in corso presso l’OCSE sul tema della tassazione delle imprese multilocalizzate. In particolare, le trattative si sono bloccate sulla questione della tassazione delle compagnie digitali che operano vendendo beni e servizi, e dunque generando valore, senza alcuna presenza fisica o con una presenza fisica minima – condizione questa che è necessaria, in base alle regole attuali, affinché i profitti di un’impresa possano essere tassati in un paese. Secondo gli americani, un’imposta specifica sulle grandi imprese del web finisce per essere una discriminazione nei confronti degli Stati Uniti. Per gli Europei, si tratta invece di porre fine a trattamenti di favore che finiscono per penalizzare le imprese concorrenti che pagano interamente le tasse nei vari paesi europei. Un accordo internazionale è quanto mai necessario, ma sembra ora molto improbabile.   

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Interruzione delle trattative

A metà dello scorso giugno, con una lettera del Segretario al Tesoro americano Steve Mnuchin indirizzata a quattro ministri delle finanze europei (Gualtieri per l’Italia, Le Maire per la Francia, lo spagnolo Montero e l’inglese Sunak), gli USA hanno deciso di sospendere le trattative in corso presso l’OCSE sul tema della tassazione delle imprese multilocalizzate.[1] In particolare, le trattative si sono bloccate sulla questione della tassazione delle compagnie digitali che operano vendendo beni e servizi, e dunque generando valore, senza alcuna presenza fisica o con una presenza fisica minima – condizione necessaria, in base alle regole attuali, affinché i profitti di un’impresa possano essere tassati in un paese. Un’interruzione era già stata evitata a gennaio dalla Francia, che aveva deciso di rinviare la tassa sui servizi digitali prevista per il 2020 in attesa di un accordo internazionale.[2] Aspettando la conclusione delle trattative, oltre alla Francia anche altri paesi tra cui Italia, Regno Unito e Spagna hanno introdotto (o stanno programmando di farlo) delle digital tax nazionali, che di fatto, secondo gli americani, operano come un dazio sui servizi forniti dalle grandi imprese digitali statunitensi.[3] Gli USA si dichiarano pronti a rispondere con dazi sui prodotti provenienti da tali paesi: d’altro canto questi paesi hanno dichiarato l’intenzione di andare avanti comunque, con un accordo europeo, in caso di mancata intesa internazionale.

Cosa propone l’OCSE[4]

Per comprendere i motivi della rottura, è necessario mettere a fuoco la proposta dell’OCSE che è volta a rafforzare le norme per contrastare le pratiche di erosione della base imponibile e spostamento dei profitti (BEPS) praticate dalle imprese multilocalizzate, in particolare quelle digitali, che sfruttano le regole esistenti per ridurre al minimo la base imponibile. Essa si articola su due pilastri, uno relativo alla digitalizzazione dell’economia e all’allocazione tra paesi dei relativi diritti fiscali e l’altro riguardante le questioni relative ai BEPS non affrontate nel primo Pilastro. L’intervento su due pilastri si è reso necessario alla luce del fatto che per le imprese digitali è più semplice sottrarsi alla tassazione e ottenere un’aliquota effettiva molto bassa. Secondo l’OCSE, è quindi necessario un approccio a tutto tondo che riveda le regole di allocazione dei profitti e il modo di identificare la “presenza” di un’impresa e che introduca nuove norme per risolvere i restanti problemi relativi ai BEPS.

Per quanto riguarda il primo Pilastro, esso tocca due questioni principali: l’individuazione dei paesi a cui spettano diritti fiscali in base ad un criterio (o “nesso”) e la modalità di allocazione dei profitti tra di essi. Vengono proposte tre diverse tipologie di “nesso”: la partecipazione dei consumatori alla creazione di valore, la presenza di fattori intangibili e la significativa presenza economica. Tutti questi criteri comportano maggiori diritti fiscali per i paesi dove sono localizzati i consumatori/utenti nei casi in cui il valore venga creato attraverso la presenza remota (non fisica) di un’impresa in quella giurisdizione, ma essa sia esclusa dagli accordi per l’allocazione dei profitti in base alle norme attuali. Questi criteri prevedono dunque la possibilità di un nesso non basato sulla presenza fisica che si affiancherebbe alle previsioni esistenti. I nuovi nessi individuati riguarderebbero le imprese multilocalizzate che rientrano nell’ambito di applicazione stabilito dalla proposta, che include quelle altamente digitalizzate e più in generale le grandi imprese con rapporto diretto verso il consumatore/utente; limitazioni più precise dell’ambito di applicazione erano in corso di negoziazione.[5] In ogni caso, il superamento del vincolo della presenza fisica è il punto chiave, di rottura rispetto alle regole vigenti, che si adatta alle imprese digitali le quali poggiano sempre meno su organizzazioni materiali nei paesi in cui forniscono beni o servizi.

Riguardo alle modalità di allocazione dei diritti fiscali fra paesi, tra le proposte prese in considerazione ce ne sono due che richiamano il modello adottato internamente dagli USA. Esse sono basate su una allocazione dei profitti complessivi di un’impresa multilocalizzata in base ad una formula (detta “apportionment formula”). L’OCSE ha individuato due versioni possibili. Una è il metodo del “Modified residual profit split” che consiste nell’individuare i profitti “non di routine” di un’impresa e allocare alle giurisdizioni dei consumatori la parte che riflette il valore creato in tali paesi ma non riconosciuto. L’altra è il metodo del “Fractional apportionment”, che usa la stessa logica, ma senza distinguere tra profitti di routine e non.[6] Anche il Fondo Monetario Internazionale ha elaborato un metodo che appartiene alla stessa categoria, definito “Residual Profit Allocation”; questa soluzione prevede l’allocazione del profitto “normale” alle giurisdizioni di origine delle imprese multilocalizzate in cui hanno luogo le attività che generano il profitto e la ripartizione della quota residua sulla base di una formula.[7] Un ulteriore approccio analizzato dall’OCSE è il “Distribution-based”, che alloca ai paesi dei consumatori non solo una parte del profitto non di routine ma anche quello di routine relativo ai due settori della pubblicità e della distribuzione.

Il secondo Pilastro è incentrato sulla risoluzione di ulteriori problematiche relative ai BEPS e propone lo sviluppo di due regole: una regola di inclusione del reddito e una tassa sui pagamenti che erodono la base imponibile. Esse hanno lo scopo di porre un limite inferiore all’aliquota pagata dalle imprese multilocalizzate sui profitti e sui prezzi di trasferimento. La prima opera come una tassa minima da applicare ai guadagni delle filiali di un gruppo che non siano sottoposti ad un’aliquota superiore ad una certa soglia. Ciò assicurerebbe che tutto il reddito di una multinazionale sia soggetto a un’aliquota minima, riducendo sia gli incentivi alle pratiche di traslazione dei profitti verso paesi con aliquote molto basse sia la competizione tra giurisdizioni per accaparrarsi i profitti delle imprese. La seconda, allo stesso modo, impedisce in maniera parziale o totale di dedurre dai profitti determinati pagamenti tra imprese collegate o li tassa a meno che essi non siano già sottoposti ad un’aliquota minima.[8] Questa seconda regola è accompagnata dalla disposizione che i benefici previsti dai trattati fiscali su determinate voci di reddito siano concessi solo se i relativi pagamenti sono soggetti a una tassazione minima. Queste previsioni sono complementari alla precedente e hanno come scopo principale quello di proteggere la giurisdizione di provenienza dell’impresa dalla manipolazione degli scambi infragruppo operati dalle imprese multilocalizzate.

Cosa chiedono gli USA

Lo scorso anno c’è stato un primo blocco nei negoziati, dopo la richiesta di Mnuchin di disegnare il primo Pilastro elaborato dall’OCSE come un regime di “safe harbor” (porto sicuro). Questa proposta è stata avanzata in una lettera al segretario generale dell’OCSE Gurrìa inviata il 3 dicembre 2019.[9] Nel testo Mnuchin condivide la necessità di giungere ad un accordo multilaterale e di generare maggiore certezza fiscale a livello internazionale, ma si oppone all’applicazione di tasse specifiche sui servizi digitali ritenendo che esse abbiano un effetto discriminatorio sugli scambi commerciali statunitensi e non siano coerenti con il corrente sistema internazionale di tassazione. Egli, dunque, suggerisce la possibilità di concedere un porto sicuro alle imprese americane, cioè un modo per evitare il regime di tassazione derivante dai nuovi accordi.

Il concetto di “safe harbor” si riferisce ad una situazione in cui imprese che rispettano determinati requisiti (definite “eligible”) possono scegliere di seguire un insieme semplificato di regole o essere dispensate dall’applicazione delle norme generali. Tramite questo concetto, quindi, Mnuchin ha voluto proporre un modo per sottrarre le imprese USA alla tassa digitale eventualmente stabilita dagli accordi. Tale richiesta ha costituito il primo punto di stallo e un ostacolo durante le trattative; è stato rilevato, infatti, che un approccio di questo tipo potrebbe comportare maggiori difficoltà applicative e un aumento dell’incertezza, il che impedirebbe il raggiungimento degli obiettivi della proposta.[10] Questo punto quindi si è rivelato fondamentale per il mancato raggiungimento di un accordo.

Nel testo della lettera di Mnuchin del giugno scorso viene ribadita la contrarietà degli Stati Uniti all’applicazione di misure riguardanti esclusivamente le imprese digitali e viene sottolineato, inoltre, come il primo Pilastro per giungere a tale scopo proponga modifiche sostanziali ai principi fondamentali della tassazione internazionale, cosa che gli Stati Uniti non sarebbero disposti ad accettare neanche temporaneamente. Ribadendo, infine, la richiesta di un regime di “safe harbor” e il rifiuto (non ancora definitivo) ricevuto dall’OCSE a riguardo, secondo Munchin, le trattative sul primo Pilastro si troverebbero a un punto di stallo. Per quanto riguarda il secondo Pilastro, invece, l’accordo sull’imposizione di un regime di tassazione minima come sopra descritto sembra procedere senza particolari ostacoli, almeno nei rapporti fra USA e UE. Potrebbe porre maggiori problemi all’interno dell’UE.

Scenario attuale

Il primo Pilastro, dunque, costituisce un punto critico nei rapporti atlantici in quanto è volto a creare una pressione fiscale verso una specifica categoria di imprese che attualmente hanno base principalmente negli Stati Uniti, dove sono localizzati strutture e “cervelli”; per questo motivo il governo americano ritiene che solo agli USA spetterebbe il diritto di tassare tali imprese. Il problema però è che parte del valore di queste attività dipende fortemente dagli utenti/consumatori e dalle informazioni da essi rilasciate a fronte di un utilizzo spesso gratuito del servizio fornito.[11] Proprio questo aspetto viene colto da una delle modalità fornite dall’OCSE per individuare la presenza di un’impresa, basata appunto sulla partecipazione dei consumatori alla creazione di valore.

A fronte di tale situazione, alcuni paesi (europei e non) hanno introdotto, in mancanza di una legislazione internazionale, tasse nazionali sui servizi digitali.[12] Gli USA in risposta hanno annunciato l’inizio di un’indagine per valutare il carattere discriminatorio di tali misure unilaterali basandosi sulla Sezione 301 del Trade Act del 1974, che dà al governo la possibilità di rispondere a pratiche scorrette che si ripercuotono negativamente sul commercio statunitense. Si tratta della stessa strategia messa in atto contro la Cina, che ha portato alla tassazione su oltre 360 miliardi di dollari di prodotti cinesi.[13] Al riguardo, nell’ultima lettera ai Ministri Mnuchin è stato molto chiaro e ha avvertito che il governo statunitense risponderà con nuovi dazi sui prodotti provenienti da paesi che applicano tasse ai servizi digitali. Gli USA ritengono che le trattative debbano essere sospese perché le modifiche ai principi fondamentali del sistema di tassazione internazionale contenute nel primo Pilastro penalizzano le imprese americane. Una ripresa dei negoziati richiederà dunque tempi lunghi e, secondo Mnuchin, sarà difficile arrivare ad un accordo entro il 2020.


[3] Per dettagli sulla digital tax italiana si veda la precedente nota di Giampaolo Galli e Beatrice Bonini al link https://osservatoriocpi.unicatt.it/cpi-archivio-studi-e-analisi-la-web-tax-italiana-prospettive-e-problemi.

[6] I profitti definiti “di routine” vengono calcolati attribuendo (con diversi metodi possibili) un tasso di ritorno normale agli asset di un’impresa. Tutto quello che è in eccesso al normale tasso di ritorno è considerato “non di routine”.

[8] La tipologia di pagamenti tra collegate soggetti alla regola sarà tra le questioni affrontate dal programma di lavoro.

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