Di Gianni Trovati
Il Sole 24 Ore, 11 gennaio 2020
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«Per provare a riprendere il cammino della crescita serve un piano ambizioso e strutturale, incluso un taglio drastico alla burocrazia e una riduzione della pressione fiscale di due punti di Pil nei prossimi tre anni. Ma non in deficit». Carlo Cottarelli, alla guida dell'Osservatorio conti pubblici della Cattolica, ha appena pubblicato un'analisi sulle cause della sostanziale stagnazione italiana degli ultimi 10 anni. Il tema dovrebbe farsi largo nell'agenda di governo, ma per ora anima il dibattito fra economisti mentre continua a latitare nel confronto interno alla maggioranza, in vista di una verifica che per il momento rimane in stand by in attesa delle elezioni regionali. Ma l’anno inizia anche con un'Italia ancora una volta in fondo alle classifiche europee sulla crescita, e con venti freddi che soffiano sulle prospettive economiche continentali.
Tra concessioni autostradali, salvataggi bancari, prescrizione e legge elettorale il dibattito nella maggioranza sembra trascurare i temi chiave della crescita e della produttività. Da dove si deve ripartire?
Prima di tutto bisogna mettersi d'accordo sulle ragioni per le quali l'Italia ha avuto un tasso di crescita inadeguato negli ultimi vent'anni. Questo impone di porsi la domanda su quale sia il fattore che porta crescita in un'economia di mercato: e questo fattore, indiscutibilmente, è rappresentato dagli investimenti delle imprese che sono troppo bassi e non per colpa loro.
Che cosa li frena oggi?
difficile essere imprenditori in Italia. Da anni i sondaggi fra gli imprenditori indicano tre deterrenti strutturali all’investimento: livello della tassazione, burocrazia e lentezza della giustizia, in particolare civile. Qualsiasi programma di rilancio deve ripartire da lì.
È un aspetto secondario. Non era essenziale eliminarlo, non è essenziale ora reintrodurlo.
Sulla tassazione, il governo ha annunciato l'apertura dei cantieri per la riforma dell'Irpef e per il taglio alle tasse. È la strada giusta?
Vedremo. Prima di tutto bisogna considerare che una riduzione fiscale non si può fare in deficit, per due ragioni. Il debito pubblico elevato, certo, ma anche il fatto che un taglio fiscale in deficit alimenta l'aspettativa che sia temporaneo. Quindi non risolve il problema. Nel programma di governo si parla di riduzione della pressione fiscale, ma per ora mancano i risultati perché quest'anno la pressione non diminuisce anche se è positivo che per lo meno non aumenti.
A tenerla alta, però, contribuiscono anche le misure antievasione, che negli obiettivi del governo porteranno oltre tre miliardi.
Il governo fa bene a sottolineare l'importanza della lotta all'evasione e la riduzione prevista servirà a finanziare una piccola limatura al cuneo fiscale. Però per avere effetti sulla crescita servono piani più ambiziosi, come un taglio di almeno due punti della pressione fiscale in tre anni. Ma bisogna anche mettersi d'accordo su come finanziarla. Altrimenti si rimane all'interno della solita azione a strappi, priva di visione. Un problema di questo tipo non c'è per esempio in Germania, che ha avuto tre presidenti del consiglio negli ultimi trent'anni. Noi ne abbiamo avuti 17.
A frenare gli investimenti non interviene anche l'impressione, alimentata per esempio dalla polemica sulle concessioni, che il governo possa intervenire a cambiare regole e contratti in corso, al di là delle ragioni che motivano queste scelte?
Questo elemento non mi pare influisca sulle performance del passato, ma sta diventando rilevante negli ultimi due anni. Ma l'instabilità politica crea anche un altro problema.
Quale?
Ogni governo ha l'esigenza di intervenire con qualche misura che lo caratterizzi, e ha bisogno di trovare in fretta le fonti di finanziamento. Questo moltiplica gli interventi tampone sul sistema fiscale, che così si fa sempre più complicato alzando nuovi ostacoli all'attività delle imprese. Basta guardare i codici tributari per mettersi le mani nei capelli.
La giustizia è l'altro dei “deterrenti strutturali” che citava prima. Di questo tema, a differenza di quanto accade su crescita e produttività, la politica sta invece parlando molto.
Si parla però soprattutto della giustizia penale, mentre il problema economico più rilevante è rappresentato dai tempi infiniti della giustizia civile. È questa a incidere negativamente sui nostri risultati economici.
Sulle cause di mancata crescita, c'è chi punta il dito contro l'austerità della prima parte dello scorso decennio, e sull'eccessiva brevità della “stagione riformatrice” che ne sarebbe seguita. È una lettura corretta?
Bisogna partire da un dato di fatto. L'ultimo decennio è stato il peggiore in termini di crescita dall'unità d'Italia. Certo su questo ha influito la crisi del 2011-12, ma perché la crisi ha colpito noi in misura maggiore? Guardi, non è stato il governo Monti a creare la crisi, semmai è stata la crisi a creare il governo Monti, cioè a determinare l'esigenza di quelle politiche di austerità che, se le riforme fossero state fatte per tempo, si sarebbero potute evitare. La crisi era già forte nella seconda metà del 2011: come avrebbe potuto Monti fare una politica più espansiva, mentre sui mercati pagavamo tassi del 7-8%? Semmai è più utile chiedersi perché siamo arrivati a quella situazione. E la risposta è nel fatto che negli anni di crescita migliore, fra il 1993 e il 2007, non abbiamo colto l'occasione di aggiustare i nostri conti pubblici. È questo il periodo da dividere in due segmenti. Nel secondo, dopo il 1999, con un aumento della spesa primaria di tre punti di Pil ci siamo mangiati l'avanzo primario che nel periodo precedente era arrivato al 5%. Per questo la crisi ha colpito noi e non per esempio il Belgio, che aveva ridotto tra il 1993 e il 2007 il suo debito pubblico/Pil di 50 punti.
Che cosa insegna questa ricostruzione per il prossimo futuro, visti i segnali di crisi che tornano a pesare sul quadro europeo?
Di questo sono preoccupato, perché prima o poi le recessioni arrivano, anche se Europa e Germania oggi non sono ancora in recessione e, anzi, vedo qualche segno di stabilizzazione e ripresa. Ma restiamo esposti al rischio di shock esterni. Le crisi di finanza pubblica di solito arrivano quando un debito, già alto rispetto al Pil, ricomincia a crescere. Il nostro debito è senz'altro alto e in una recessione europea che colpisse l'Italia riprenderebbe a crescere. Dobbiamo al più presto riformare l'economia italiana per far riprendere la crescita su basi stabili, con una minore pressione fiscale finanziata da risparmi sul lato della spesa, un taglio drastico alla burocrazia e un efficientamento della pubblica amministrazione, a partire dalla giustizia. Questo migliorerebbe la nostra competitività e produttività. Sul lato della spesa corrente, a parte pubblica istruzione e, in parte, sanità, il resto non può essere considerato come prioritario. Ma il tempo che abbiamo sprecato ci impone di sperare anche nella fortuna, cioè che lo shock esterno non colpisca l’Italia prima che queste riforme siano attuate. Occorre far presto.