di Marcello Zacché
Il Giornale, 22 aprile 2020
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Carlo Cottarelli, economista e direttore dell’osservatorio dei conti pubblici italiani: chi si oppone al Mes non crede all’assenza di condizioni. Crede che sia una trappola. Come stanno le cose?
«L’impianto del Mes funziona così: un Paese membro fa domanda di finanziamenti associata a un determinato programma. Inizia una discussione che si conclude con determinate condizioni. Solo alla fine di questo processo, se le condizioni vanno bene, il Paese firma. Qui le condizioni dovrebbero essere solo relative all’uso dei fondi per la sanità. Quindi niente riduzione del deficit pubblico. A quel punto, nell’esecuzione del programma, non è più possibile cambiare l’oggetto della condizionalità. C’è chi fa riferimento a un articolo del regolamento del cosiddetto “two pack” per sostenere che la condizionalità sul deficit può essere introdotta anche successivamente. A me non sembra, ma è una questione che può essere facilmente accertata prima di richiedere il prestito. Inutile fare polemiche adesso».
Ma l’articolo 136 del Trattato parla sempre di «rigorosa condizionalità» per ogni tipo di aiuto finanziario.
«E così è. Ma dipende dalla natura della condizionalità. È di questo che ora si sta parlando. Per la pandemia, si è deciso che l’oggetto della condizionalità del finanziamento del Mes deve essere per spese mediche: la scelta politica è stata fatta in partenza. Ci sarà rigore nell’assicurare che i soldi del Mes siano spesi solo per i fini stabiliti».
Eppure c’è chi teme il caso Grecia.
«Ma in quel caso il programma di aiuti prevedeva espressamente, ed era quella la scelta politica, la condizione dell’aggiustamento del debito pubblico. Se questa non è prevista nell’accordo non può essere certo aggiunta dopo».
Ci sono precedenti di prestiti concessi senza condizioni di aggiustamento?
«La Spagna ha avuto un grosso prestito del Mes per le banche, non aveva condizionalità sui deficit pubblici e non sono state aggiunte dopo».
Le condizioni di accesso al Mes saranno standard per tutti i Paesi. Il voto del consiglio europeo ci vincolerà a richiedere un prestito dal Mes?
«No. Votare a favore significherà permettere a chi vuole di accedere ai finanziamenti a quelle condizionalità e non obbliga certo a chiedere gli aiuti. Ma mi lasci chiarire una cosa: io penso che la vera soluzione debba passare per i recovery bond, anche perché i soldi messi a disposizione per questa linea di credito non sono tantissimi. Detto questo, non facciamo passare questa decisione politica per una macchinazione solo perché contraria, si dice, allo spirito con cui il Mes è stato creato. Se si fosse seguita questa logica, non ci sarebbero stati né il quantitative easing della Bce, né il programma Omt. Il punto è che le istituzioni evolvono e molte scelte che in Europa sembravano impossibili poi sono state fatte».
Ha detto che la strada sono i recovery bond. Che differenza c’è con gli eurobond?
«Eurobond è solo un nome, inventato una decina di anni fa per comprendere un insieme di proposte finalizzate a mutualizzare il debito pubblico degli Stati membri attraverso l’emissione di titoli. Esistono molte varianti, ma l’impianto è questo: l’ho sempre considerato impossibile. Infatti non si fa neanche in un sistema federale come gli Usa, dove ogni Stato è responsabile del proprio debito. Figuriamoci in Europa».
E i recovery bond?
«La cosa di cui si sta parlando è diversa: si tratta di emettere titoli in comune che vanno a finanziare una spesa che si decide in comune. Quindi una spesa futura, che non riguarda i debiti passati e nemmeno la spesa corrente degli Stati membri. Anche in questo caso esistono diverse possibilità, compresa una proposta che ho fatto insieme con Giancarlo Galli ed Enrico Letta. L’idea era di erogare i fondi ai singoli Paesi, con tassi bassi e rimborso lontano nel tempo, a trent’anni per esempio».
Chi emette i bond?
«Può farlo la Bei, o anche la Commissione, tramite il suo bilancio. Infatti tutti stanno convergendo sulle stesse idee».
La Bce avrebbe un ruolo?
«Nessun ruolo, tranne che li potrebbe acquistare».
I recovery bond avrebbero un costo che, essendo una media dei tassi Ue, per i Paesi del nord sarebbe più alto di quello a cui potrebbero indebitarsi direttamente.
«È vero ma questo sarebbe l’unico reale svantaggio per i Paesi del nord, il sacrificio che sarebbero chiamati a compiere per solidarietà con il resto d’Europa. Un sacrificio contenuto».
Alla fine della pandemia l’Italia si troverà comunque con i parametri sballati di debito e deficit.
«I rischi ci sono, non c’è dubbio. Se avessimo in partenza un debito più basso sarebbero minori. Ma questi rischi sono attenutati dal fatto che una parte del debito, almeno un quarto, sarà detenuto da Bce, cioè da Banca d’Italia, che certo non si mettono a speculare contro l’Italia. Inoltre gli interessi sul debito rientrano dalla Bce come distribuzione dei profitti, almeno in parte».
Ci aiuta a fare due conti?
«Per il 2020, tra emissioni di debito in scadenza e nuovo deficit, allo Stato serviranno 500 miliardi. Di questi, 220 circa saranno assorbiti dalla Bce con il QE. Se accederemo al Mes e al piano Sure ne arriveranno altri 50-55. Dovremo quindi vendere nuovi Btp per circa 225 miliardi. Con i recovery bond, a seconda dello schema adottato ne potranno entrare almeno altri 100, riducendo di molto il rischio. Addirittura, in termini di euro, a fine 2020, il deficit finanziato dalla Bce potrebbe essere più basso o invariato rispetto al 2019».
Perché, allora, lo spread ha ripreso a salire? Il mercato non crede all’Europa?
«Diciamo che al momento ci sono due spiegazioni. La prima sono le discussioni italiane sul Mes. La seconda è che pian piano i mercati si stanno rendendo conto che il finanziamento garantito dalla Bce non è tutto quello che abbiamo bisogno. Per questo serve con urgenza trovare quello che manca».