La tua ricerca ha prodotto 11 risultati:
Il menù del Piano Colao: ecco i prezzi
Alcuni caveat prima di procedere: Molte delle misure descritte nel Piano presentano un limitato grado di dettaglio e pertanto, in sede di quantificazione, si sono dovute fare alcune ipotesi arbitrarie (per esempio sul numero di beneficiari o sul significato concreto di una certa proposta). Infine, per semplicità, sono state considerate a costo zero ed escluse dai conteggi tutte le misure che secondo il Piano avranno un finanziamento “principalmente privato”, anche se in alcuni casi è chiaro che qualche costo emergerà anche per il settore pubblico. La quantificazione è riassunta nella Tavola 1 nell’ipotesi che tutte le misure del Piano siano implementate, cosa che anche i proponenti non consideravano necessariamente da attuare, vista la natura di “menù” del Piano stesso. La stima del costo è di circa 4,5 miliardi nel primo anno di implementazione e di 47 miliardi nel secondo, scendendo poi gradualmente a 35 miliardi nel quinto. La discesa sul finire del periodo è dovuta alla natura temporanea di alcuni interventi, compreso il fatto che alcuni investimenti vengono completati prima della fine dei 5 anni. Riprendendo questa classificazione, le aree per cui sono previsti costi complessivi maggiori sono “Individui e famiglie” (56,8 miliardi), “Turismo, arte e cultura” (48,1 miliardi) e “Infrastrutture e ambiente” (43,6 miliardi), che assorbono complessivamente l’89 per cento dei costi totali sui 5 anni. Infine, relativamente alla durata, le azioni previste dal Piano sono quasi ugualmente ripartite (in termini di costi sui 5 anni) tra azioni di natura temporanea e azioni di natura permanente, con una leggera prevalenza di queste ultime.
Tria 01/04/2019 Questa dichiarazione suggerisce che nel momento in cui fondi già stanziati vengono effettivamente spesi, non abbiano alcun impatto né sul deficit né sul debito. Durante la conferenza stampa di presentazione del rapporto dell’OCSE “Economic Survey of Italy 2019”, il ministro Tria ha dichiarato che l’Italia ha molte risorse già stanziate per investimenti pubblici e che un efficiente utilizzo di queste risorse non avrebbe importanti ricadute sulle finanze pubbliche. In effetti la scarsa efficienza dei processi di spesa italiani è nota: i tempi di realizzazione delle opere sono molto lunghi e, a causa di lentezze burocratiche e altri impedimenti, non si riesce spesso a spendere risorse già stanziate. La tesi avanzata dal Ministro e spesso sostenuta da altri esponenti del governo è che un efficientamento dei processi di spesa potrebbe sostenere l’economia senza impattare sullo stato delle finanze pubbliche, visto che i fondi sono già stati stanziati. Questa visione suggerisce che, nel momento in cui i fondi vengono stanziati, questi finiscano direttamente nelle spese del bilancio dello stato e che, quindi, nel momento in cui i fondi vengono effettivamente spesi, non abbiano alcun impatto né sul deficit né sul debito. In conclusione, se, come auspichiamo, il governo dovesse riuscire a sbloccare le risorse già stanziate e dare avvio ad un programma di investimenti pubblici, questo inciderebbero sui livelli di deficit e di debito pubblico. Un aumento della spesa per investimenti è stato già previsto nella legge di bilancio per il 2019 per cui se tale maggior spesa, rispetto all’anno scorso, si verificasse questo non causerebbe uno sforamento rispetto a quanto previsto in legge di bilancio.
Le ragioni della caduta degli investimenti
Le ragioni della caduta degli investimenti Home Studi e documentazione Studi e analisi Archivio studi e analisi Le ragioni della caduta degli investimenti Le ragioni della caduta degli investimenti di Giampaolo Galli 1 marzo 2019 * * * In Italia, negli anni della crisi gli investimenti pubblici sono crollati di circa un terzo. Il motivo fondamentale è che è molto più facile tagliare la spesa per investimenti che la spesa corrente. Un nuovo investimento che non viene fatto comporta un mancato lucro per alcune imprese che in generale non sono univocamente individuate, se non dopo che sono fatti i bandi e le gare sono aggiudicate. La caduta della spesa per investimenti provoca dunque molte proteste, in primis delle organizzazioni che rappresentano le società di costruzione, ma non genera il tipo di reazioni che si hanno, ad esempio, quando viene chiuso un ospedale o un tribunale. Un secondo fattore di blocco delle opere è rappresentato dalla riluttanza a firmare da parte dei funzionari pubblici, riluttanza che è giustificata dal timore di interventi della Corte dei Conti o di interventi della magistratura. Uno degli aspetti del problema è che il danno erariale, di competenza della Corte dei Conti, non ha la natura di una sanzione per una colpa, ma è commisurato al danno presunto per la PA che spesso è del tutto fuori proporzione rispetto le possibilità economiche del funzionario. Il che è giusto, ma se diventa l’unico obiettivo, il risultato rischia di essere che non ci sarà più la corruzione, ma non ci saranno più neanche le imprese che devono fare le opere.
Le misure dello Sblocca Cantieri
Viene modificato il codice degli appalti semplificando le norme nel tentativo di rendere più veloce l’aggiudicazione di contratti pubblici e l’utilizzo delle risorse stanziate in legge di bilancio. Il 14 giugno è stata approvata la legge di conversione del decreto cosiddetto Sblocca Cantieri (“disposizioni urgenti per il rilancio del settore dei contratti pubblici, per l'accelerazione degli interventi infrastrutturali, di rigenerazione urbana e di ricostruzione a seguito di eventi sismici”; legge n. 55/2019). Il governo si propone di semplificare la normativa nel tentativo di ridurre i tempi di attuazione delle opere pubbliche e di facilitare l’acquisto di beni e servizi per la pubblica amministrazione. Riformare i processi di spesa è fondamentale per far ripartire gli investimenti pubblici calati di oltre un terzo, dal 3,3 per cento del Pil nel 2009 al 2,1 per cento del 2018. I tempi di attuazione ed esecuzione Il principale problema che la nuova normativa cerca di affrontare è il tempo medio di attuazione ed esecuzione di un’opera pubblica. D’altro canto, incentivare l’utilizzo del criterio del prezzo minimo rischia da un lato di ridurre l’efficienza delle gare e dall’altro rischia di svantaggiare il tessuto industriale innovativo delle piccole e medie imprese più propense a competere sulla qualità che sul prezzo (non potendo contare sulle economie di scala). Ciò che invece sembra essere completamente assente nel testo dello Sblocca Cantieri per quanto riguarda le opere bloccate è una proposta di risoluzione del problema del danno erariale per i funzionari pubblici.
Investire in opere pubbliche portando a termine quelle incompiute
L’importo ancora da spendere per completarle non è però elevatissimo (circa 750 milioni di euro) e dovrebbe quindi certamente essere integrato dal completamento delle opere incompiute nazionali e da nuovi programmi di investimento che è necessario definire al più presto. Le aree geografiche in cui è presente il maggior numero di opere pubbliche incompiute sono le Isole e le regioni del Sud, le quali beneficerebbero maggiormente degli investimenti integrativi per completare tali opere. Le opere pubbliche incompiute nel 2018 Ogni anno il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti (MIT) pubblica l’Anagrafe regionale delle opere incompiute. La spesa totale prevista inizialmente per opere pubbliche incompiute in Italia, sempre a fine 2018, era pari a 1.607 milioni di euro (Figura 2, che riporta anche la ripartizione per macroregioni). Il totale degli oneri da sostenere per completare tutte le opere pubbliche incompiute degli enti territoriali ammontava invece a 745 milioni di euro (Figura 3). La seguente Tavola riassume i dati regionali relativi al numero di opere incompiute, il totale già investito e gli oneri necessari per ultimare le opere. Le opere vengono inserite direttamente dagli enti locali appaltanti tramite il SIMOI (Sistema informatico di monitoraggio delle opere incompiute).
Gli investimenti pubblici nel Mezzogiorno
Va peraltro detto che il fatto che la somma delle risorse ordinarie e aggiuntive sia all’incirca proporzionale alla popolazione comporta che il rapporto investimenti/Pil nel mezzogiorno sia molto più alto, a volte quasi doppio, rispetto al Centro-Nord. A livelli un po' più elevati (35,7% in media) si è mantenuta la quota della spesa in conto capitale che, oltre agli investimenti, include principalmente i trasferimenti per gli investimenti a imprese pubbliche e private: questa voce contiene una buona parte degli incentivi a favore degli investimenti nel Mezzogiorno. Ebbene con riferimento all’aggregato SPA, la situazione è un po' meno favorevole al Mezzogiorno, dal momento che le quote sul totale nazionale di investimenti (29,6%) e di spesa in conto capitale (32,5%) sono inferiori alla quota della popolazione (si veda ancora la Tavola 1). Si noti però che anche in questo caso, il rapporto con il Pil è decisamente favorevole al Mezzogiorno: nella media del periodo 2000 - 2017 infatti questo rapporto si è collocato al 6,9% nel Mezzogiorno e al 4,4% nel Centro Nord con un gap a favore del Mezzogiorno del 58%. La spesa ordinaria e quella aggiuntiva Come si è detto sopra, l’idea delle politiche di sviluppo è che la spesa specificamente dedicata alle aree in ritardo debba essere aggiuntiva e che la spesa ordinaria debba essere distribuita sul territorio nazionale in ragione della popolazione. In conclusione, è chiaro che il Mezzogiorno ha sofferto in questi anni di fenomeni negativi occorsi a livello nazionale: la lunga recessione, con una forte caduta del Pil che ancora non è stata recuperata, e il taglio di circa un terzo degli investimenti pubblici. Va però osservato che, in rapporto al Pil, la spesa per investimenti è sempre stata ed è tutt’ora molto più alta nel Mezzogiorno che nel resto del Paese.
Dal lato della domanda una delle principali novità riguardava l’introduzione di un sistema di qualificazione delle stazioni appaltanti, gestito dall’ANAC (Autorità Nazionale Anticorruzione), che avrebbe dovuto modificare i livelli di autonomia operativa sulla base dei risultati ottenuti. Le tre direttive contenevano (i) disposizioni a recepimento vincolato, (ii) disposizioni che lasciavano margini di flessibilità agli Stati membri e (iii) disposizioni che imponevano agli Stati membri di lasciare spazi di discrezionalità alle stazioni appaltanti. Al contempo, la spinta all’utilizzo di strumenti elettronici e telematici da parte di stazioni appaltanti e operatori economici mostrava la chiara intenzione del legislatore comunitario di far leva sulla digitalizzazione del settore pubblico e del tessuto imprenditoriale, anche in chiave di trasparenza e lotta alla corruzione. Un’ulteriore criticità riguarda il numero di stazioni appaltanti che risultano essere più di 32.000, un numero elevato che disperde le competenze e non favorisce il loro sviluppo impedendo alla pubblica amministrazione di essere in grado di valutare nella maniera più efficiente le offerte che vengono presentate. In questo contesto andrebbero infine integrati trasversalmente i processi di trasformazione digitale, a partire dalla razionalizzazione delle normative di attuazione delle piattaforme telematiche di e-procurement, in chiave di semplificazione, trasparenza e ottimizzazione, fino alla piena implementazione di una banca dati nazionale dei contratti pubblici. Con l’introduzione di queste modifiche viene semplificato il processo di selezione a scapito di una minore trasparenza e di un maggior rischio di ridurre la produttività delle imprese aggiudicatarie e quindi avere un impatto negativo in fase di esecuzione dei lavori. La modifica di questi articoli ha portato rispettivamente il ritorno della concezione di stazioni appaltanti “diffuse”, la sospensione del divieto di appalto integrato e la sospensione dell’obbligo di ricorrere all’albo unico dei commissari di gara gestito dall’ANAC.
La gestione delle autostrade: un confronto europeo
Guardando al quadro europeo, si trova un’ampia varietà di modelli di gestione, il che suggerisce che nessuno di essi si sia dimostrato chiaramente superiore agli altri. Inoltre, da un’analisi preliminare dei dati disponibili, non sembra si possa affermare che le spese per investimenti e per manutenzione in Italia siano inferiori a quelle della generalità degli altri paesi europei, così come non sembra che i pedaggi sulle autostrade italiane siano particolarmente elevati. In particolare, è emerso nuovamente il tema del modello di gestione delle autostrade, in relazione al livello apparentemente insufficiente di investimenti e spese di manutenzione sulla rete italiana rispetto alla situazione di altri paesi. Come si vede dalla Tavola 1, il modello della concessione ad imprese private è prevalente in otto paesi (Francia, Grecia, Irlanda, Italia, Polonia, Portogallo, Spagna, Ungheria), mentre negli altri paesi prevale o la concessione ad impresa pubblica oppure la gestione pubblica diretta da parte dell’ente territoriale. Un confronto internazionale per investimenti, manutenzione ordinaria e livello delle tariffe L’ampia varietà di modelli di gestione riscontrabili nei vari paesi europei riflette, in qualche misura, il fatto che nessuna analisi è riuscita a dimostrare che esista un modello chiaramente superiore agli altri. Si può anche osservare che i tre paesi che hanno la più alta spesa per investimento e manutenzione (Austria, Regno Unito e Svizzera) sono caratterizzati da gestione pubblica diretta o mediante affidamento ad un’impresa pubblica; le osservazioni sono però troppo poche per poterne trarre una qualche generalizzazione. Per quanto riguarda i veicoli pesanti (per i quali anche Austria e Germania applicano il pedaggio) il nostro paese presenta invece un livello del pedaggio particolarmente basso rispetto agli altri paesi europei, con l’eccezione della Germania che si colloca al nostro stesso livello, come emerge dalla Tavola 4.
Il piano francese di rilancio dell’economia
Il piano francese di rilancio dell’economia Home Studi e documentazione Studi e analisi Archivio studi e analisi Il piano francese di rilancio dell’economia Il piano francese di rilancio dell’economia di Giulio Gottardo 11 settembre 2020 Il Governo francese ha pubblicato il piano di rilancio dell’economia per i prossimi anni. Il piano contiene 100 miliardi di misure negli ambiti di sostenibilità ambientale, competitività e coesione sociale e territoriale. Il piano sarà in parte finanziato dai fondi europei del Recovery Fund (40 miliardi), in parte dallo Stato francese (60 miliardi), probabilmente tramite debito. Le priorità principali di questo piano sono l’ambiente (che assorbirà 30 miliardi), la competitività (34 miliardi) e la coesione sociale e territoriale (36 miliardi), anche se alcuni interventi in un dato ambito possono indirettamente riguardarne altri. In questo campo, le misure principali sono 6,7 miliardi destinati all’efficientamento energetico di edifici pubblici, di abitazioni popolari e di abitazioni private; 4,7 miliardi di investimenti nella rete e nei servizi ferroviari e 7 miliardi a favore della diffusione e del miglioramento delle tecnologie inerenti ai combustibili a idrogeno. Per quanto riguarda la competitività, il piano si concentra su due grandi misure: taglio delle tasse alle imprese (20 miliardi su due anni) e investimenti in ricerca e sviluppo (11 miliardi distribuiti tra imprese e università). Infine, per quanto riguarda la coesione, 6 miliardi sono destinati all’ammodernamento delle strutture e delle apparecchiature sanitarie; 8,8 miliardi alle politiche attive del lavoro; 7,6 miliardi al rafforzamento della cassa integrazione e 5 miliardi al sostegno degli enti locali (Fig. 1).
Sul piano dei contenuti, un primo cambiamento riguarda il fatto che nel precedente piano il tema centrale era l’andamento deludente della crescita economica italiana rispetto agli altri paesi avanzati negli ultimi decenni; nel nuovo piano è dedicata molta più attenzione alle disuguaglianze di età, di genere e territoriali. Crescono inoltre gli investimenti pubblici a scapito degli incentivi, una scelta che suscita qualche perplessità, alla luce dei tempi che richiedono gli investimenti pubblici e del fatto che le risorse europee devono essere impegnate entro il 2023 e spese entro il 2026. Tuttavia, i contenuti di questa bozza erano ancora vaghi, poiché erano definite soltanto le risorse destinate a ciascuna missione e componente (6 missioni con 17 sottocomponenti), ma, per ogni componente del piano, non erano state ancora stabilite le risorse destinate ai singoli progetti, che erano solo elencati e brevemente descritti. Anche il contenuto del piano è cambiato, per alcuni aspetti in modo considerevole, soprattutto se si tiene conto che è stato redatto dallo stesso governo e con lo stesso ammontare di risorse europee a disposizione. Gli investimenti pubblici e gli effetti del piano sulla crescita L’inversione di rotta a favore degli investimenti pubblici è lungamente motivata nell’analisi d’impatto del PNRR contenuta nella nuova bozza. Qui si sostiene che il moltiplicatore degli investimenti pubblici è maggiore di quello degli incentivi, ovvero che un euro di spesa pubblica destinato agli investimenti provoca un aumento del Pil maggiore rispetto a un euro speso per incentivi. Per quanto riguarda le riforme della giustizia si riconosce che sono importanti, ma, come nella bozza precedente, il nuovo piano si limita a rilevare che al momento queste riforme sono “pendenti in Parlamento”, il che, come già è stato argomentato, non garantisce che la giustizia sarà adeguatamente riformata.
Fondi strutturali e d’investimento europei: a che punto siamo?
Si sostiene spesso che l’Italia non riesca ad utilizzare le risorse dei fondi strutturali e d’investimento europei (fondi SIE). La normativa europea all’epoca consentiva infatti di spendere le risorse entro il 31 dicembre 2015, ma per alcuni progetti è stato possibile spendere le risorse fino al 2019 e in alcuni casi la spesa sarà possibile fino addirittura al 2023. Cosa è successo nella programmazione 2014-2020? L’attuazione del piano è iniziata in ritardo, in parte a causa della tardiva adozione del quadro normativo europeo, e in parte anche per l’accavallamento di risorse che si è creato per l’utilizzo degli strumenti di flessibilità consentiti dalla Commissione Europea. A che punto siamo nella spesa dei fondi europei per il 2014-20? Nel Quadro finanziario pluriennale appena concluso (QFP 2014-2020) per l’Italia erano stati stanziati 44,6 miliardi da cinque dei Fondi strutturali e d’investimento europei (fondi SIE). Da questi tre fondi provengono 50,5 miliardi – 33,6 miliardi di risorse comunitarie e 16,9 di risorse nazionali – dei 75,1 miliardi complessivamente stanziati. L’Italia riceve risorse da cinque Fondi strutturali e d’investimento europei (fondi SIE): il Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR), il Fondo sociale europeo (FSE), il Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale (FEASR), il Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca (FEAMP) e l’Iniziativa Occupazione Giovani (IOG). In realtà i dati sulle risorse allocate e spese effettuate sono disponibili al 30 giugno 2020 solo per i progetti cofinanziati, oltre che da risorse nazionali, anche dai fondi FSE, FESR e IOG. I dati disponibili per i progetti cofinanziati dai fondi FAMP e FEASR sono aggiornati al 31 dicembre 2019.