Perché non è ragionevole chiedere alla Bce di risolvere il problema dello spread
di Giampaolo Galli
16 novembre 2018
Alcuni esponenti del governo sostengono che la soluzione al problema dello spread spetti alla Banca Centrale Europea. Secondo questa tesi, la BCE dovrebbe intervenire sul mercato comprando titoli di Stato italiani fino ad azzerare lo spread o comunque a ridurlo fortemente. Questo sembra essere il nodo centrale dello scontro in atto fra il governo italiano, o alcune sue significative componenti, e l’Unione Europea. L’idea è che l’Europa ci deve consentire di fare una manovra espansiva secondo i desideri dei cittadini espressi nel voto del 4 marzo scorso. L’Europa però si deve far carico, per il tramite della Bce, delle conseguenze che questa stessa manovra, oltre a molte dichiarazioni bellicose, ha sui mercati finanziari e sullo spread.
In questa nota, si spiega perché nell’attuale assetto istituzionale europeo la Bce non può svolgere il ruolo che le viene richiesto. La prima ragione ha a che fare con un ineliminabile principio costitutivo di un’unione fra stati: ognuno deve essere responsabile del proprio bilancio. La violazione di questo principio crea un problema di azzardo morale di entità tale da rendere sostanzialmente impossibile la convivenza all’interno dell’unione. La seconda ragione è che non è accettabile che i problemi di bilancio di qualcuno possano creare rischi di instabilità finanziaria per i cittadini dell’intera Unione. Queste ragioni sono molto solide e sono nell’interesse della maggior parte degli Stati Membri, talché appare molto difficile che nello scontro possa prevalere la posizione italiana.
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Lo scontro con l’Unione Europea
Alcuni sostengono che la soluzione al problema dello spread spetti alla Banca Centrale Europea. Secondo questa tesi, che è espressa sia pure con qualche distinguo anche nel documento inviato alla Commissione Europea dal Ministro Savona[1], la BCE dovrebbe intervenire sul mercato comprando titoli di Stato italiani fino ad azzerare lo spread o comunque a ridurlo fortemente. Questo sembra essere il nodo centrale dello scontro in atto fra il governo italiano, o alcune sue significative componenti, e l’Unione Europea. L’idea è che l’Europa ci deve “lasciare in pace” e ci deve consentire di fare una manovra espansiva secondo i desideri dei cittadini espressi nel voto del 4 marzo scorso. L’Europa però si deve far carico, per il tramite della Bce, delle conseguenze che questa stessa manovra, oltre a molte dichiarazioni bellicose, ha sui mercati finanziari e sullo spread. Chi sostiene questa tesi sembra convinto che l’intervento anti spread rientri nei compiti normali di una banca centrale e che l’Europa non possa permettersi di lasciar fallire l’Italia e sarà quindi costretta ad accettare un salvataggio da parte della Bce.
In questa nota, si ripercorrono gli aspetti principali dell’assetto istituzionale della politica monetaria e se ne spiegano le ragioni. Si argomenta che tali ragioni sono molto solide e sono nell’interesse della maggior parte degli Stati Membri, talché appare molto difficile che nello scontro possa prevalere la posizione italiana.
Il quadro istituzionale
Nell’attuale assetto istituzionale la BCE può intervenire a sostegno di un singolo stato membro, anche in misura illimitata, ma solo nell’ambito delle operazioni OMT (Outright Monetary Transactions) che furono annunciate nell’agosto del 2012 e sono soggette a diverse condizioni[2]. La più importante è che il paese che riceve il sostegno deve aver concordato un programma di aggiustamento con l’Unione Europea (in pratica con il Fondo Salva Stati, ESM). Lo strumento delle OMT non è mai stato mai usato, ma probabilmente è stato un deterrente importante contro la speculazione nel 2012 quando contribuì, assieme al famoso “whatever it takes” di Draghi, a calmierare gli spread di molti paesi e a superare la crisi dei debiti sovrani.
L’OMT, al pari degli altri strumenti di politica monetaria non convenzionale come il Quantitative Easing, è stato oggetto di forti contestazioni da parte dei paesi del Nord- Europa, ma ha superato il vaglio della Corte di Giustizia Europea[3]. La Corte argomentò che l’OMT non sostituisce l’azione dei governi cui spettano le decisioni in materia di politiche di bilancio e non è quindi un modo per consentire a uno stato membro di finanziare con moneta comune i propri disavanzi[4]. Venne così respinta la tesi dei ricorrenti, secondo cui con l’OMT la BCE sarebbe andata oltre il suo mandato e avrebbe agito come “prestatore di ultima istanza” nei confronti degli Stati Membri.
Il finanziamento monetario nell’ambito di un’unione
Questo assetto istituzionale ha una sua logica stringente quando un paese fa parte di un’unione monetaria perché in qualunque comunità, un ente pubblico, ad esempio un comune o una regione, è responsabile del proprio bilancio e ne risponde individualmente. Non è pensabile che un comune si finanzi emettendo titoli di stato che impegnano non solo i contribuenti di quel comune, ma quelli dell’intera nazione. In alcuni paesi vi sono spesso operazioni di ripianamento ex post dei debiti da parte dello Stato o di altre entità sovraordinate (ad esempio, la regione nei confronti di un comune), ma esse sono quasi sempre soggette a condizionalità e comunque mai viene data una garanzia generalizzata ex ente.
Questo invece è ciò che chiedono in sostanza coloro che sostengono che la BCE dovrebbe intervenire sistematicamente per mantenere gli spread a zero o comunque ad un livello basso e predeterminato[5]. È infatti evidente che ciò sarebbe equivalente a dare una garanzia generalizzata ed ex-ante ad un particolare Stato. Questa idea è sostenuta in modo esplicito in un recente lavoro di Marcello Minenna che addirittura giunge a teorizzare i Btp con clausola di risk sharing, una novità assoluta nel panorama finanziario mondiale, in base alla quale un singolo stato emette titoli con la garanzia di tutti gli stati dell’Unione[6].
In quasi tutte le varianti di questa teoria, la garanzia verrebbe data indipendentemente dalle politiche seguite dallo Stato in questione che potrebbero essere del tutto incompatibili con la sostenibilità del debito pubblico. Si determinerebbe quindi un caso tipico di azzardo morale. Proprio perché si sa che la c’è l’assicurazione della BCE, si possono mettere in atto politiche poco responsabili.
A queste considerazioni, talvolta si obietta che una banca centrale crea moneta dal nulla e che può farlo in misura illimitata senza che ciò generi disagio alcuno ai cittadini degli altri Stati dell’Unione. Questo non è corretto perché delle due l’una. O la banca centrale non sterilizza le operazioni di sostegno ad un paese e allora cresce la base monetaria complessiva e si generano rischi di instabilità finanziaria (inflazione dei prezzi o degli assets finanziari e immobiliari) in tutta l’unione; oppure la banca centrale sterilizza queste operazioni, in modo tale da lasciare invariata la quantità di base monetaria, ma questo comporta che venda sul mercato titoli di altri stati o comunque riduca la sua esposizione nei confronti delle banche degli altri stati. Nel primo caso, le politiche di bilancio di un singolo stato membro metterebbero a rischio la stabilità finanziaria per tutti i cittadini dell’Unione; nel secondo caso, la banca centrale dell’Unione finirebbe per finanziare uno Stato a danno di tutti gli altri.
In effetti, una delle condizioni per l’attivazione dell’OMT è che l’operazione sia sterilizzata, ossia non corra il rischio di generare instabilità nell’intera unione[7]. È difficile argomentare che questa condizione non sia ragionevole: perché mai un paese con disavanzi pubblici eccesivi dovrebbe mettere a rischio la stabilità finanziaria dell’intera unione?
È utile chiarire che l’argomento che la banca centrale non può farsi carico dei problemi di finanza pubblica di uno stato membro non implica che debbano essere rifiutate a priori proposte volte a utilizzare la Bce per risolvere una tantum e in maniera simmetrica fra paesi il problema degli alti debiti pubblici[8]. Non è questo la sede per discutere di queste proposte; qui si intende solo rimarcare che gli argomenti che sono stati sin qui sviluppati possono contribuire a spiegare perché queste proposte non hanno avuto seguito, ma non implicano affatto che tali proposte debbano essere rifiutate. Sul piano logico, si tratta di due diversi piani di ragionamento.
Assetto istituzionale dell’Unione e mandato della banca centrale: il caso della Riserva Federale
Si dice talvolta che l’assetto istituzionale europeo è figlio di una particolare concezione del mandato della banca centrale, quello secondo cui essa avrebbe come unico obiettivo l’inflazione. Questo non è corretto e lo dimostra il fatto che negli Stati Uniti la Riserva Federale, che pure ha un mandato più articolato di quello della BCE, non interviene e non è mai intervenuta a sostegno dei singoli Stati dell’Unione. Non solo: negli Stati Uniti, non esiste un programma analogo al OMT della BCE. Va inoltre rimarcata una fondamentale differenza fra il programma di Quantitative Easing della BCE e quello della FED. Il programma della BCE ha comportato principalmente acquisti di titoli emessi dagli stati membri, mentre la Fed è intervenuta in acquisto di una grande varietà di titoli, a cominciare dai mutui sub prime cartolarizzati, e dei Tbond emessi dal Tesoro USA. Ciò riflette naturalmente il diverso assetto istituzionale -non esistono titoli federali in Europa- e la diversa natura della crisi, che in Usa ha colpito soprattutto le banche, mentre in Europa ha colpito gli Stati. Riflette altresì i limiti ben noti della costruzione monetaria europea, segnatamente la mancanza di una politica di bilancio comune; a questi limiti tuttavia non si può certo ovviare chiedendo alla Bce di offrire una garanzia illimitata ex ante al debito pubblico di un paese.
Interventi temporanei a fronte di problemi di liquidità
Un’altra obiezione che viene mossa all’attuale assetto istituzionale muove dalla considerazione che vi sono circostanze in cui, in linea teorica, è ragionevole che la banca centrale intervenga in acquisto di titoli di un particolare Stato membro. Come nel caso delle banche, l’intervento è giustificato quando ci sono problemi di liquidità, non quando ci sono problemi di solvibilità[9]. In teoria, la distinzione fra i due casi è molto chiara, in pratica può essere molto difficile. È quindi possibile che temporanei problemi di liquidità, se non curati tempestivamente, possano generare problemi più seri. In altre parole non è detto che la situazione dei mercati rifletta sempre quelli che sono i fondamentali dell’economia. Possono dunque esserci equilibri multipli e uno Stato può avere difficoltà ad uscire da un cattivo equilibrio, anche dopo aver messo in atto le politiche giuste.[10]
Questo argomento è convincente e dovrebbe poter giustificare interventi temporanei della banca centrale, anche se non certo politiche volte a fissare il livello degli spread. In pratica, la messa in atto di una politica di questo tipo richiede un elevato grado di fiducia reciproca fra stati membri che sembra mancare da gran tempo; diventa pressoché improponibile nel momento in cui uno o più Stati membri pretendono che la BCE intervenga in modo sistematico e si faccia carico dei loro problemi di finanza pubblica. In questa situazione, la credibilità dell’istituzione Bce è messa seriamente in discussione, il che le impone di perseguire una linea più rigida di quella che sarebbe in teoria desiderabile. Il risultato è che aumentano i rischi di cattivi equilibri in cui temporanei problemi di liquidità si trasformano in gravi situazioni di crisi.
La favola della moneta creata dal nulla
Molte delle incomprensioni sul ruolo e i limiti della Bce derivano dalla convinzione che le banche centrali abbiano una sorta di potere magico per risolvere tutti i problemi, dato che creano moneta. Negli ultimi anni si sono diffuse idee strampalate secondo cui tali poteri non verrebbero usati per una qualche sorta di complotto dell’establishment ai danni del benessere dei popoli.
Chiunque abbia un po’ di buon senso capisce che il benessere dei popoli o comunque la crescita economica dipende da fattori di fondo come il progresso tecnologico e la capacità di una organizzazione sociale di adattarsi ai cambiamenti, di innovare e competere nell’arena internazionale. Da questo punto di vista, hanno molta più influenza le istituzioni educative o le strutture, più o meno concorrenziali, dei mercati che non le banche centrali. Peraltro se le banche centrali avessero i poteri che vengono loro attribuiti non si capirebbe perché neanche nei paesi più ricchi e più democratici si sia riusciti a debellare la povertà. O perché in tanti paesi del terzo e quarto mondo vi siano ancora milioni di persone che soffrono la fame.
La questione è che il valore della moneta fiduciaria, diversamente ad esempio da quello dell’oro, non è legato all’uso che se può fare[11] ed è fortemente influenzato dalla fiducia che il pubblico ha nei confronti dell’emittente.[12]. Se la collettività ha fiducia che la moneta manterrà il suo valore, ossia che l’inflazione sarà bassa, allora è probabile che ciò avvenga effettivamente. Ma se, come in Giappone dopo lo scoppio della bolla finanziaria dei primi anni novanta, prevale l’idea della deflazione, ossia che i prezzi non possano che scendere, allora l’esperienza degli ultimi decenni dimostra che questo esito non è facile da rovesciare[13]. A sua volta la fiducia dipende in parte dalla storia (nella memoria delle persone conta di più il ricordo di episodi di deflazione o di inflazione?) e in parte dagli assetti istituzionali.
Fra questi ultimi, l’esperienza ha dimostrato che un ruolo cruciale lo svolge l’indipendenza della banca centrale dal potere politico. Ovunque, sotto ogni cielo, i politici vorrebbero avere tassi d’interesse bassi e una banca centrale disposta ad acquistare il debito dello stato. E si sa che quando i politici riescono ad ottenere queste cose, tipicamente la crescita della massa monetaria in circolazione tenderà a creare non più benessere, ma più inflazione nei prezzi dei beni e/o degli attivi finanziari e immobiliari.
In epoca moderna, il problema divenne evidente negli anni settanta, dopo il crollo del sistema di Bretton Woods che, sia pure in modo indiretto, aveva mantenuto un aggancio all’oro. Venuto meno quel punto di riferimento, in molti paesi si registrarono tassi di inflazione elevati, variabili e difficilmente prevedibili, con conseguenze ritenute dannose per il buon andamento dell’economia e, soprattutto, per la coesione sociale. Da quella esperienza, in quasi tutti i paesi, e anche nell’Eurozona, si giunse alla conclusione che fosse opportuno scindere nettamente la politica di bilancio dalla politica monetaria, liberando le banche centrali dall’obbligo di finanziare i deficit pubblici e dotandole di gradi più o meno ampi si autonomia nell’ambito di mandati precisi e stabiliti per legge.
Perché l’Italia non potrà vincere la sfida con l’Europa
In conclusione, vi sono due ordini di motivi, entrambi molti solidi, per i quali nell’Eurozona vige il divieto di monetizzare i debiti pubblici e la Bce non può finanziare uno stato membro, né, a maggior ragione, intervenire per azzerare i differenziali di interesse fra paesi. Il primo ha a che fare con un ineliminabile principio costitutivo di un’unione fra stati: ognuno deve essere responsabile del proprio bilancio. La violazione di questo principio crea un problema di azzardo morale di entità tale da rendere sostanzialmente impossibile la convivenza all’interno dell’unione. Il secondo motivo è che non è accettabile che i problemi di bilancio di qualcuno possano condizionare la politica monetaria nell’intera unione.
Per questi motivi, la maggioranza degli europei considera la BCE come un’istituzione che deve mantenere le attuali caratteristiche di indipendenza e deve essere difesa dalle prevedibili tentazioni di interferenza della politica. E per questo non accetta che un paese come l’Italia dichiari di non volersi attenere alle regole di bilancio concordate da tutti gli Stati Membri e al tempo stesso pretenda che la BCE risolva il problema dello spread elevato che da tali scelte politiche discende. La sfida che, più o meno consapevolmente, l’Italia sta portando nel cuore dell’Europa è una sfida che attiene ai principi fondamentali su cui è costruita l’unione monetaria[14]. Ed una sfida che non può vincere - a meno che l’esito sia la dissoluzione dell’unione monetaria, il che porrebbe problemi di tutt’altra natura[15].
[1] “Se i poteri di intervento [della BCE] contro la speculazione fossero veramente pieni, gli spread tra rendimenti dei titoli sovrani si dovrebbero azzerare”. Tratto da: Una politeia per un’Europa diversa, più forte e più equa di Paolo Savona, Ministro Affari Europei, 12 settembre 2018.
[2] Si veda il comunicato della BCE del 6 settembre 2012.
[3] Si veda la sentenza del 16. 6. 2015 della Corte di Giustizia Europea – Causa C-62/14 Gauweiler and Others v Deutscher Bundestag.
[4] Il che sarebbe in violazione dell’art. 123 del TFUE che vieta il finanziamento monetario dei disavanzi.
[5] Come argomentiamo più avanti, un intervento limitato nel tempo può essere giustificato quando vi sia un problema liquidità e non di solvibilità.
[6] M. Minenna: Eurozone: original flaws, present problems and challenges for the future, Sant’Anna Lem Working Papers Series, May 2018. Si noti la differenza fondamentale fra i titoli con clausola di risk sharing e gli eurobonds. I primi sarebbero emessi dai singoli stati, mentre gli eurobonds sarebbero emessi dell’Unione.
[7] Si veda il comunicato della BCE del 6 settembre 2012: “The liquidity created through Outright Monetary Transactions will be fully sterilized”.
[8] Si veda ad esempio: Pierre Pâris and Charles Wyplosz, The Padre Plan, Voxeu.org, 28 January 2014
[9] La distinzione fra problemi di liquidità (che giustificano l’intervento della banca centrale) e problemi di solvibilità è contenuta anche nel documento di Paolo Savona, anche se non è chiaro cosa egli proponga per mantenere gli spread a zero nel caso in cui vi siano ragionevoli dubbi sulla solvibilità di uno stato.
[10] Questo argomento è sviluppato in Paul De Grauwe, The European Central Bank as Lender of Last Resort in the Government Bond Markets, CESifo Economic Studies, Vol. 59, 3/2013, 520–535.
[11] Peraltro, a ben guardare, anche l’oro si scambia tipicamente a dei prezzi che non hanno quasi nessuna correlazione con i suoi utilizzi industriali. Si veda: Salvatore Rossi, Oro, Il Mulino, 2018.
[12] Maurice Obstfeld and Kenneth Rogoff, Revisiting Speculative Hyperinflations in Monetary Models, CEPR Discussion Paper No. DP12051, May 2017.
[13] Per una discussione del caso giapponese e delle sua peculiarità si rimanda a Kazuo Ueda, The Effectiveness of Non-traditional Monetary Policy Measures: The Case of the Bank of Japan, October 2011, http://www.cirje.e.u-tokyo.ac.jp/research/03research02dp.htm
[14] Sul punto si veda Carlo Cottarelli, Non è vero che l'Italia è troppo grande per fallire , La Stampa, 27 ottobre 2018
[15] Si veda Lorenzo Codogno e Giampaolo Galli: “Perché è uno scenario catastrofico per il lavoro e il risparmio” in: “Cosa succede se usciamo dall’euro?” a cura di Carlo Stagnaro, IBL libri, settembre 2018.