Università Cattolica del Sacro Cuore

Di seguito pubblichiamo il discorso di prolusione del Direttore Carlo Cottarelli in occasione dell'apertura dell'anno accademico presso l'università LIUC.

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Miopia e ipermetropia: il giusto orizzonte temporale nella soluzione dei problemi economici

Eccellenza reverendissima, magnifici rettori, amplissimi direttori delle scuole, stimate autorità accademiche, civili e militari, cari professori, ricercatori e studenti, gentili signore e signori,

È per me un grande onore essere qui con voi oggi per l’inaugurazione di questo anno accademico. Il tema di cui tratterò oggi—il potenziale conflitto tra obiettivi di breve termine e obiettivi di lungo termine e i costi di una visione miopica, troppo concentrata sul breve termine rispetto al lungo termine—ha una valenza di carattere generale, riguarda la vita di tutti i giorni, le grandi e piccole scelte che devono essere fatte da tutti. Il mio vantaggio comparato è però nel trattare il tema del breve e del lungo termine dal punto di vista economico ed è quello che farò oggi.

Credo sia un tema importante da trattare anche perché mi sembra che, nel mondo e forse soprattutto nel nostro paese, ci sia una crescente tendenza a guardare troppo al breve termine.

Non ci sono motivi economici razionali per questa crescente tendenza a focalizzarsi sul breve termine. In un mondo di tassi di interesse bassi, come quello in cui viviamo, si dovrebbe anzi pensare che gli eventi in un futuro anche lontano debbano avere un peso maggiore nelle scelte che si fanno oggi perché il valore attuale di benefici o costi futuri è più elevato se il tasso di sconto intertemporale è più basso. Eppure sono tanti i segni di una minore propensione, o per lo meno di una insufficiente propensione, a guardare in là nel tempo. Considererò, in particolare quattro aree:

  • La prima è quella che sta attirando più attenzione mediatica in tempi recenti: mi riferisco al problema del riscaldamento globale.
  • La seconda riguarda la ricerca del profitto di breve termine come unico parametro per la gestione delle imprese.
  • La terza, particolarmente rilevante in Italia, riguarda il crollo demografico, la progressiva discesa del numero dei nati.
  • La quarta riguarda gli obiettivi di crescita economica di breve periodo e di lungo periodo nella gestione delle politiche macroeconomiche.

Il tema comune di questi quattro aspetti è quello della sostenibilità. Comportamenti e politiche che sembrano ottimali nel breve periodo si rivelano insostenibili, o hanno conseguenze pericolose, nel lungo periodo.

Prima di proseguire vorrei però sottolineare che certi comportamenti possono effettivamente arrecare vantaggi nell’immediato. Discostarci da questi comportamenti per pensare al lungo periodo può comportare costi economici, anche significativi. Chi è orientato a pensare al lungo periodo tende spesso a negare questi costi di breve periodo. Anche questo è un errore da evitare se si vuole essere credibili. Tornerò su quest’ultimo punto alla fine della mia prolusione.

Il riscaldamento globale

I termini del problema sono ormai noti. Senza azioni decise, la temperatura del pianeta è prevista aumentare di 4 gradi rispetto ai livelli pre-industriali entro la fine di questo secolo (già c’è stato un aumento di un grado). Diversi studi indicano che un aumento di questa entità porterebbe a un calo permanente del nostro reddito di lungo periodo di almeno il 3,5 per cento. Ma la preoccupazione principale sono i cosiddetti tail risks, il rischio di scenari la cui probabilità è difficile da stimare ma che potrebbero causare ben maggiori danni. Il World Economic Forum attualmente considera i cambiamenti climatici come il più elevato rischio per il pianeta. Inoltre i danni per alcune regioni sarebbero molto più forti, in alcuni casi devastanti. E gli effetti diventerebbero più seri nel XXII secolo.

Dobbiamo pensare anche ai secoli futuri? Qui si capisce un’importante difficoltà che affrontiamo quando si parla di breve e lungo periodo. Le conseguenze dannose dei nostri comportamenti talvolta si manifestano più chiaramente solo col passare di parecchio tempo. Nel caso del riscaldamento globale le conseguenze diventeranno molto severe per i nostri nipoti, o per i nipoti dei nostri nipoti. E perché agire ora quando, più in là si va nel tempo, più aumenta, come naturale, l’incertezza? Si può sempre sperare che il progresso tecnico risolva nel futuro la situazione: perché dovrei cambiare oggi i miei comportamenti se posso sperare che un giorno esisterà una tecnologia per assorbire a un costo ragionevole il diossido di carbonio nell’aria?

E nel frattempo non si fa nulla. Dal punto di vista economico il dato più lampante riguarda i sussidi al consumo di combustibili fossili nei diversi paesi del mondo. Il Fondo Monetario Internazionale ha calcolato che i sussidi ai combustibili fossili, definiti come la differenza tra il prezzo giustificato da costi di estrazione, di trasporto e costi ambientali ammontavano a oltre 5 trilioni di dollari nel 2017 (6,3 per cento del Pil mondiale), con la Cina, gli Stati Uniti e la Russia tra i primi paesi in termini di sussidi, compreso i sussidi tramite tassazione inferiore al livello ottimale. Sempre il Fondo Monetario calcola che se questi sussidi fossero eliminati le emissioni calerebbero di quasi il 30 per cento e le morti da inquinamento atmosferico scenderebbero del 46 per cento.

Sarebbero risultati eccezionali ma occorre capire che comportano un costo nell’immediato, prezzi più alti per l’energia e minori consumi. Siamo disposti ad affrontare questi costi? Al momento sembra che, in termini di azioni concrete, non ci sia una seria volontà di agire. Occorre superare questa miopia. Occorre essere responsabili. Occorre mostrare un altruismo nei confronti delle generazioni future, quelle che non conosceremo. Risolvere il problema richiede però non slogan ma un cambiamento dei nostri comportamenti, richiede rinunciare a qualcosa oggi. Spero che sapremo farlo.

La ricerca del profitto di breve termine

Ha attratto notevole attenzione la dichiarazione fatta qualche settimana fa dal Business Roundtable, il gruppo di manager di alto livello provenienti da quasi 200 grandi imprese americane, dichiarazione in cui si sosteneva la necessità di dare nuovi scopi all’attività d’impresa. La funzione di un’impresa non può più essere soltanto servire i propri azionisti massimizzando il profitto. Occorre invece mirare anche a investire nei propri dipendenti, a dare valore ai consumatori, a trattare in modo etico con i fornitori e a sostenere le comunità esterne.

La mia prima reazione nel leggere questa dichiarazione è stata quella di chiedermi se davvero le cose cambieranno rispetto alla situazione attuale in cui la massimizzazione del profitto è in effetti considerato l’unico obiettivo giustificabile per una impresa in una economia capitalista. Lo vedremo nei prossimi anni.

Ma al di là di questo interrogativo credo sia importante sottolineare come la contraddizione tra massimizzazione del profitto e altri obiettivi esista solo nel breve periodo, mentre nel lungo periodo ci sono buoni motivi per pensare che massimizzazione del profitto e welfare dei dipendenti dell’impresa e vantaggi per la società in generale vadano mano nella mano. Un ambiente lavorativo non conflittuale, un ambiente in cui il lavoratore si sente apprezzato per quello che fa e premiato adeguatamente è un ambiente in cui il lavoratore è più produttivo. Lo stesso vale per la relazione tra impresa e società: un’impresa che è vista fornire un valore alla società nel suo complesso, un’impresa che rispetta i valori condivisi dalla società e che rispetta l’ambiente è un’impresa verso cui i potenziali consumatori si rivolgono più volentieri e che quindi cresce più rapidamente e con maggiori profitti. È solo in una visione miopica e di breve periodo che può emergere un conflitto. 

Un tema correlato è quello del legame tra distribuzione del reddito tra capitale e lavoro e crescita economica. Studi del Fondo Monetario Internazionale (a partire da quello di Jonathan Ostry, Andrew Berg e Charalambos Tsangarides pubblicato nell’aprile 2014) hanno concluso che paesi con una distribuzione del reddito più equa sono paesi che tendono a crescere più rapidamente nel lungo periodo.

Il crollo demografico

Tra i fenomeni più importanti nello sviluppo economico e sociale del nostro paese nell’ultimo mezzo secolo c’è senza dubbio il crollo demografico. L’anno scorso i nati in Italia sono stati 449.000, il livello più basso dall’unità d’Italia nel 1861. Erano quasi un milione nel 1969. Il crollo demografico che osserviamo oggi è però l’effetto di quanto accadde tra l’inizio degli anni ’70 e la metà degli anni ’80. È in questo periodo che il tasso di fertilità, ossia il numero medio di figli per donna, scende da valori intorno a 2,5 a valori di circa 1,4. È quello il periodo decisivo. Da allora non molto è cambiato. Il tasso di fertilità resta più o meno vicino a 1,4 dalla metà degli anni ’80 a oggi, riducendosi solo di poco negli ultimi 10 anni per effetto della crisi economica. Siamo oggi a 1,32, non molto al di sotto del valore della metà degli anni ’80. Perché allora il numero di nati continua a scendere? Per l’onda lunga del calo del tasso di fertilità: se 20 anni fa c’erano meno nascite, dopo vent’anni ci saranno meno persone in grado a loro volta di fare figli. Un tasso di fertilità inferiore a 2 comporta quindi un progressivo declino delle nascite.

Il crollo del tasso di fertilità negli anni ’70 e nei primi anni ’80 non fu probabilmente dovuto a cause economiche (il reddito pro capite italiano cresceva ancora rapidamente in quel periodo), ma, piuttosto, a profondi cambiamenti che toccavano la società e i tradizionali rapporti familiari. Non spetta a me approfondire questo tema che lascio volentieri agli esperti di sociologia. Ma non credo si possa negare che il fenomeno del crollo del tasso di fertilità, e il suo mancato recupero successivamente, segnali una ridotta propensione a sacrificare qualcosa nel breve periodo per assicurare un futuro migliore.

Il contrasto tra il breve periodo e il lungo periodo in tema di natalità è evidente se si guardano le conseguenze del calo delle nascite per il sistema pensionistico. Gli anziani, definiti come le persone che smettono di lavorare avendo raggiunto una certa età, sono necessariamente alimentati da chi lavora. Fino all’introduzione di programmi di sicurezza sociale sul finire del diciannovesimo secolo, la sopravvivenza degli anziani era possibile grazie a un patto intergenerazionale: i genitori crescevano i figli e li nutrivano; i figli, da adulti, alimentavano gli anziani non più in grado di lavorare. Nel mondo moderno il patto intergenerazionale è meno implicito (le pensioni vengono viste come “il rendimento” dei contributi sociali versati), ma la realtà non è cambiata molto. È il lavoro dei giovani che consente agli anziani di ricevere le risorse con cui vivere. Ma se gli adulti preferiscono non generare figli, beneficiando in tal modo di maggiori risorse nel breve periodo per i propri consumi, chi darà loro da mangiare nel lungo periodo, quando raggiungeranno l’età di pensionamento? Attualmente, in Italia per ogni anziano (definito come persona con più di 64 anni) si sono quasi tre persone in età lavorativa (tra i 15 e i 64 anni). L’Istat prevede che nel 2065 per ogni anziano ci sarà solo poco più di una persona e mezza in età lavorativa, come riflesso sia dell’aumento della aspettativa di vita, sia del calo delle nascite. Il futuro da anziani dei lavoratori attuali è quindi a rischio se non riusciamo a guardare al di là del breve periodo.

La soluzione del problema del calo delle nascite per l’economia in generale e per il sistema pensionistico in particolare non può essere lasciato semplicemente all’iniziativa individuale. Le politiche della natalità finanziate dalla spesa pubblica sono importanti nelle società moderne e hanno funzionato in alcuni paesi a risollevare il tasso di fertilità. Ma quelle politiche, comunque, riflettono la volontà di rinunciare a qualcosa nel breve periodo, pagando più tasse, riducendo altre spese pubbliche, o prolungando l’età lavorativa per migliorare le prospettive di lungo periodo. Anche qui risolvere il problema richiede responsabilità.

La crescita economica

Uno dei temi principali della macroeconomia è la misura in cui lo stato debba intervenire per sostenere l’attività economica nel breve periodo in presenza di una carenza di domanda rispetto alle capacità produttive dell’economia. In realtà, dopo l’esperienza degli anni ’30 e la pubblicazione della Teoria Generale dell’Occupazione, Interesse e Moneta di Keynes è opinione quasi comune che sia appropriato intervenire attraverso stimoli monetari o fiscali per evitare rallentamenti della domanda e aumenti della disoccupazione. L’attivismo delle politiche monetarie è ormai accettato da decenni. Dopo la crisi globale del 2008-09 anche l’attivismo delle politiche fiscali è ora considerato molto più accettabile.

Questo non vuol dire dimenticarsi delle conseguenze di lungo termine delle politiche economiche correnti. Il celebre aforisma di Keynes secondo cui “Nel lungo periodo saremo tutti morti” (tratta dal suo Tract on Monetary Reform del 1923) non deve certo essere interpretato come indicativo di un disinteresse di Keynes per il lungo periodo. Keynes semplicemente dice che non possiamo ignorare i problemi che stiamo vivendo solo per la speranza che passino da soli nel tempo. Nelle sue parole:

In the long run we are all dead. Economists set themselves too easy, too useless a task if in tempestuous seasons they can only tell us that when the storm is past the ocean is flat again.

Fra l’altro è ormai riconosciuto che squilibri temporanei possono avere conseguenze di lungo periodo. È la cosiddetta “isteresi”: se i lavoratori rimangono disoccupati per troppo tempo, il loro capitale umano viene ridotto e non riescono a recuperalo neppure nel lungo periodo. Il breve periodo è quindi importante in macroeconomia.

Detto questo, non si può cadere nell’eccesso opposto e dimenticarsi dell’effetto che le nostre azioni attuali di politica macroeconomica possono avere nel lungo periodo. Allo stesso modo, non si può pensare che le condizioni che prevalgono nel breve periodo debbano necessariamente estendersi al lungo periodo. Prima del 2008-09 si era diffusa l’idea, sulla base degli sviluppi negli anni precedenti, che fosse iniziata una nuova era, quella della great moderation, in cui i cicli economici sarebbero quasi scomparsi. Peccato che nel 2008-09 il mondo sia stato colpito dalla più forte crisi economica dagli anni ’30. Ora una buona parte degli economisti ritiene che l’economia mondiale sia entrata in un’era in cui i tassi di interesse saranno permanentemente più bassi del passato, un’era in cui, quindi, non ci dovremmo preoccupare troppo dell’accumulo di debito, incluso il debito pubblico, perché il problema della sostenibilità del debito è stato risolto. Né dobbiamo preoccuparci più dell’inflazione, che resterà per sempre bassa. Da qui anche la possibilità di usare, più che in passato, il deficit pubblico e la politica monetaria per stimolare l’economia, non solo in presenza di serie recessioni, come quella che spinse Keynes a scrivere la Teoria Generale, ma anche di modesti rallentamenti della crescita economica, di una crescita che appaia insoddisfacente rispetto ai nostri desideri. Prendiamo gli Stati Uniti: il Fondo Monetario Internazionale prevede per quest’anno una crescita del 2,4 per cento, in discesa rispetto al 2,9 per cento dell’anno scorso, ma pur sempre una crescita ampiamente positiva. Il tasso di disoccupazione è ai minimi storici. Eppure molti economisti americani sono tornati a parlare di recente della necessità di una Helicopter drop of money, aumenti di deficit pubblico finanziati stampando moneta.

Temo che si stia esagerando. Si è naturalmente tentati dal pensare che il lungo periodo, che non si osserva, debba assomigliare al breve periodo, che si osserva. Ma principi di gestione prudenziale della politica economica impongono di tener presente che le condizioni attuali possono non durare in eterno, soprattutto quando quelle condizioni attuali sono del tutto nuove. L’idea che i tassi di interesse sul debito pubblico restino negativi o anche solo che il differenziale tra tasso di interesse e tasso di crescita resti negativo nei prossimi decenni è una ipotesi forte, che proietta al futuro una situazione che abbiamo sperimentato solo per pochi anni e che, nel passato, non era realizzata, a meno di andare a prendere periodi o paesi in cui i tassi di interesse erano tenuti bassi da fenomeni di repressione finanziaria. L’ipotesi di un differenziale tra tasso di interesse e tasso di crescita permanentemente negativo non dovrebbe quindi guidare le decisioni di politica economica, come suggerito invece da diversi economisti negli ultimi anni.

Pensieri conclusivi

Nel confrontare vantaggi e svantaggi nel breve e nel lungo periodo occorre quindi un po’ di equilibrio. Come ho notato all’inizio, mi sembra che al momento si stia cedendo alla tentazione di non pensare abbastanza al futuro, ai nostri figli, ai nostri nipoti. Oppure si tende a far credere che preservare gli interessi delle generazioni future richieda semplicemente inventiva e determinazione, senza dover rinunciare a nulla nel breve periodo. Si cerca di convincere e di autoconvincersi che esistano sempre approcci win-win in cui tutti ci guadagnano e a nulla si deve rinunciare nel breve periodo. Purtroppo non è così. È invece necessario alimentare la consapevolezza che per garantire vantaggi nel lungo periodo è necessario spesso rinunciare a qualcosa nell’immediato. Sarà comunque la soluzione migliore se abbiamo interesse a preservare la sostenibilità economica e, più in generale, la sostenibilità del nostro pianeta.