Università Cattolica del Sacro Cuore

Commento alla Nota di Aggiornamento del Documento di Economia e Finananza 2018 

di Osservatorio CPI

5 ottobre 2018

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  • Nella Nota di Aggiornamento al DEF si prevede che il tasso di crescita del Pil aumenti dall’1,2 per cento stimato per il 2018 all’1,5 nel 2019. Ciò avverrebbe in virtù di una politica di sostegno della domanda che si traduce in un aumento del deficit dall’1,8 per cento del Pil stimato per il 2018 al 2,4 nel 2019. Si tratta di un obiettivo difficile da raggiungere (anche se non impossibile), alla luce del rallentamento in atto nell’economia internazionale, che è anche più marcato nell’economia italiana. Occorre tenere conto che sul comportamento delle imprese e dei consumatori italiani pesano in negativo quegli stessi fattori di incertezza che hanno portato all’aumento dello spread che si è registrato sino ad oggi. La stima per il Pil appare dunque scontare la rapida eliminazione di quei fattori di incertezza e un calo dello spread (vedi sotto).
  • Negli anni successivi al 2019, il tasso di crescita del Pil si mantiene elevato (1,6 per cento nel 2020 e 1,4 nel 2021), malgrado il Pil potenziale non superi mai, nelle stime del governo, l’1 per cento all’anno, cioè il suo valore di lungo periodo (Tavola III.3 a pag. 44). Ciò significa che il governo ritiene che le riforme che vengono oggi prospettate non avranno effetti sul potenziale di crescita dell’economia, quantomeno nell’orizzonte del prossimo triennio. In questo quadro, e dato che dal lato della domanda non vengono nuovi stimoli espansivi dopo il 2019 (anzi, il disavanzo pubblico diminuisce negli anni successivi), non è chiaro cosa mantenga elevati i tassi di crescita del Pil nel 2020 e nel 2021, se non possibili effetti ritardati della espansione del 2019. Livelli del Pil più bassi di quelli previsti potrebbero alzare ulteriormente il rapporto tra deficit e Pil dei prossimi anni e rimandare nuovamente la riduzione del rapporto debito-Pil.
  • Per il deflatore del Pil è prevista una crescita pari all’1,6 per cento nel 2019, all’1,9 nel 2020 e all’1,7 nel 2021. Si tratta di previsioni che si collocano un po’ al di sopra di quelle di consenso. Ad esempio Banca d’Italia prevede un deflatore del Pil in media dell’1,5 per il 2019 e il 2020. Anche in questo caso, livelli di inflazione più bassi di quelli previsti causano un aumento del rapporto deficit-Pil e rallentamenti della riduzione del rapporto debito-Pil. Per esempio, se nel 2019 il tasso di crescita reale fosse di 1 punto percentuale invece che dell’1,5 e il deflatore del Pil di 1,3 punti, lo stesso livello del 2018, anziché del 1,6, il rapporto debito-Pil sarebbe l’1,4 per cento più alto rispetto alle previsioni per lo stesso anno e sostanzialmente stabile rispetto al 2018.[1]
  • La spesa prevista per interessi sembra incorporare l'ipotesi che lo spread scenda rispetto ai valori attuali. Se ciò non avvenisse tale spesa e il deficit risulterebbero sottostimati di circa 2 miliardi.
  • Nel quadro programmatico si prevede un deficit al 2,4 per cento del Pil nel 2019, al 2,1 nel 2020 e all’1,8 nel 2021, accompagnato da una riduzione del rapporto debito-Pil dal 130,0 del 2019, al 128,1 del 2020 e al 126,7 del 2021. Non è chiaro che cosa consenta di ridurre il disavanzo negli anni successivi, come invece indicato nel documento, anche alla luce delle dichiarazioni secondo cui il contratto di governo verrebbe attuato gradualmente, il che suggerisce che negli anni successivi al 2019 nuove misure espansive si aggiungeranno a quelle già varate nella manovra di bilancio per il 2019. Nella nota si fa riferimento alla disattivazione solo parziale delle clausole di salvaguardia IVA per il 2020 e il 2021: sarebbe importante che il governo chiarisse quanto dette clausole contribuiscano alla discesa del deficit nel 2020 e nel 2021.
  • In ogni caso, si può osservare sin da ora che, per la prima volta, non è contemplato il pareggio di bilancio nell’orizzonte di previsione. È opportuno ricordare che il raggiungimento del pareggio di bilancio è previsto dalla Costituzione all’art. 81, che stabilisce che il ricorso all'indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali. Le motivazioni addotte dal governo nella Relazione al Parlamento (“tassi di crescita tendenziali inaccettabilmente bassi”) non sembrano rientrare nelle fattispecie previste dalla Costituzione, anche alla luce della stima di una crescita potenziale vicina a quella tendenziale (che quindi non appare particolarmente bassa) e del tendenziale staticità o declino della popolazione italiana.
  • Per quanto riguarda i rapporti con l’Unione Europea, è la stessa Nota di aggiornamento a segnalare che si è in presenza di una deviazione significativa. Come noto, ciò che conta per le regole europee è il bilancio strutturale, ossia al netto dei fattori ciclici e delle una tantum. Questa variabile peggiora da un deficit di 0,9 punti di Pil nel 2018 a 1,7 nel 2019 e si mantiene su questo valore per l’intero triennio. Ciò comporta una deviazione (che non viene corretta negli anni successivi) di ben 1,7 punti percentuali rispetto al miglioramento del +0,6 per cento che sarebbe richiesto (Tabella III.6 a pag. 49). Si tenga anche conto del fatto che la Commissione non include nelle proprie proiezioni l'effetto delle clausole di salvaguardia per il 2020 e 2021, il che comporta un aumento del deficit strutturale. Appare quindi pressoché certo che la Commissione Europea chieda una variazione al bilancio 2019. Ciò dovrebbe avvenire attorno alla fine del mese.
  • Per quanto riguarda la manovra, le previsioni di aumento del deficit non sono da sole sufficienti per coprire le misure presentate dal governo (l’introduzione del reddito di cittadinanza, la riforma dei centri per l’impiego e le prime modifiche alla Legge Fornero e altre). Il costo delle nuove misure è di circa 20 miliardi. Di queste, l’aumento del deficit al 2,4 per cento di Pil consente di recuperare circa 5 miliardi. Altri 10 miliardi deriverebbero dall’assorbimento del Reddito di Inclusione nel Reddito di cittadinanza, dall’eliminazione dell’ACE (aiuto alla crescita e dalla mancata introduzione dell’IRI. Resterebbero quindi 5 miliardi da trovare tramite ulteriori aumenti di gettito provenienti da “modifiche di regimi agevolativi, detrazioni fiscali e percentuali di acconto d’imposta” (pagina 41).

[1] Questo calcolo tiene conto della perdita di entrate derivante dalla minore crescita

 

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