Università Cattolica del Sacro Cuore

Asili nido: a che punto siamo e quante risorse servirebbero per potenziarli

di Edoardo Frattola

8 luglio 2020

L’offerta di posti in asili nido in Italia è ancora inferiore al 25 per cento dei potenziali utenti, bassa se confrontata con quella dei principali paesi europei. In aggiunta a spese di investimento, la spesa corrente dei comuni dovrebbe aumentare di circa 1 miliardo all’anno per raggiungere l’obiettivo europeo di un tasso di copertura del 33 per cento. Al tempo stesso, il numero ancora limitato di bambini che frequentano il nido in Italia sembra dipendere in modo rilevante, sulla base di sondaggi, anche da ragioni culturali, benché tali fattori tendano a diventare meno importanti dopo il primo anno di età del bambino.

* La nota è stata ripresa da Repubblica in questo articolo dell'8 luglio 2020.

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Nel 2019 il numero di nascite in Italia ha toccato un nuovo minimo (435 mila). Tra le cause della bassa natalità c’è la difficoltà di conciliare vita lavorativa e familiare: l’anno scorso oltre 25 mila genitori (quasi tutte madri) con figli minori di 3 anni si sono licenziati per impossibilità di conciliare il lavoro con la cura dei figli.[1]

Il sistema italiano di sostegno alla natalità è frammentato in tante piccole misure di importo e durata limitati ed è quindi poco efficace.[2] Il governo ha perciò approvato un disegno di legge delega (il cosiddetto “Family Act”) volto a riorganizzare e rafforzare le politiche familiari del nostro paese.[3] Il testo è molto vago, ma accanto all’introduzione di un “assegno universale” per tutti i figli minorenni si prevede anche un potenziamento degli asili nido per favorire la conciliazione tra vita familiare e lavorativa.[4] Ma qual è la situazione degli asili nido in Italia? E quante risorse potrebbero servire per questo piano di potenziamento?

L’offerta di asili nido in Italia

Nell’anno scolastico 2017/2018 i posti a disposizione negli asili nido erano circa 355 mila, di cui il 51 per cento pubblici e il 49 per cento privati. Il tasso di copertura della fascia 0-2 anni è pari al 24,7 per cento, ben al di sotto di quello che l’UE aveva raccomandato di raggiungere entro il 2010 (33 per cento).[5]

Inoltre, la media nazionale nasconde una forte eterogeneità regionale (Fig. 1). Infatti, mentre le regioni del Centro-Nord e la Sardegna raggiungono in media valori attorno al 30 per cento e in alcuni casi (Valle d’Aosta, Umbria, Emilia-Romagna, Toscana) superano l’obiettivo europeo, al Sud e in Sicilia il tasso medio di copertura crolla fino a poco più del 10 per cento. Significativa è anche la differenza tra comuni capoluogo di provincia (33 per cento) e altri (21 per cento).

Quanto spendono i comuni e le famiglie?

Nel 2017 i comuni, che sono responsabili per questo settore, hanno speso 1,3 miliardi per i nidi pubblici (con gestione diretta o affidata a terzi), a cui vanno aggiunti circa 200 milioni per sostenere le strutture private, per un totale di 1,5 miliardi (lo 0,08 per cento del Pil). Al netto dei contributi rimborsati dalle famiglie, la spesa effettiva scende a 1,2 miliardi o 6.000 euro per ogni bambino iscritto.

Più difficile è invece stabilire con esattezza quanto spendano in media le famiglie per la retta mensile del nido. La fonte più attendibile è l’Indagine sulle Spese delle Famiglie dell’Istat, secondo cui la spesa media annuale per famiglia per i servizi per la prima infanzia (sia pubblici sia privati) nel 2017 è di 1.996 euro, ovvero 180 euro al mese considerando 11 mesi di servizio all’anno. Queste cifre sono vicine a quelle ricavabili dai bilanci comunali, che nel 2017 danno una spesa per famiglia di 2.009 euro per i nidi pubblici a gestione diretta; tuttavia, esse non tengono conto del numero di figli iscritti al nido nello stesso anno.

Le più elevate cifre fornite dall’Osservatorio Prezzi e Tariffe di Cittadinanzattiva, che hanno ricevuto molta attenzione mediatica, danno invece una spesa media di circa 300 euro mensili per una famiglia con un figlio al nido nell’anno scolastico 2019/2020.[6] Questa differenza è dovuta al fatto che l’indagine di Cittadinanzattiva considera: (i) solo le rette dei comuni capoluogo di provincia, che potrebbero avere tariffe più alte rispetto ai comuni più piccoli; (ii) le spese di una “famiglia tipo” composta da due genitori e un bambino sotto i 3 anni, con un ISEE pari a 19.900 euro, ignorando qualunque tipo di esenzione o agevolazione che molti comuni offrono alle famiglie con reddito inferiore o a quelle più numerose.

Accanto alle agevolazioni comunali, inoltre, lo Stato contribuisce al pagamento delle rette con il “Bonus nido”. Da quest’anno, il valore massimo del bonus per ogni figlio iscritto al nido è aumentato da 1.500 a 3.000 euro annui (273 al mese per 11 mesi) per le famiglie con ISEE inferiore a 25 mila euro e a 2.500 euro annui (227 al mese) per le famiglie con ISEE tra 25 mila e 40 mila euro; per tutte le altre famiglie, il bonus è rimasto di 1.500 euro annui.[7] Considerando per esempio le rette dei nidi pubblici del Comune di Roma, il nuovo “Bonus nido” è sufficiente per azzerare i costi per tutte le famiglie con ISEE inferiore a 25 mila euro; nella fascia 25-40 mila la retta mensile al netto del bonus va dai 40 ai 230 euro, mentre per le famiglie con ISEE superiore ai 40 mila euro il costo netto mensile è di 335 euro.[8]

Solo una quota minoritaria (seppur non trascurabile) di famiglie, in effetti, sembra ritenere troppo elevate le rette del nido: secondo un recente rapporto realizzato dal Dipartimento per le Politiche della Famiglia, dall’Istat e dall’Università Ca’ Foscari, infatti, l’11 per cento delle famiglie che non hanno iscritto il proprio figlio al nido dichiara di averlo fatto per un problema di costi.[9] Ancora più limitata (5 per cento circa) sembra essere la quota di famiglie colpite dal “razionamento” dell’offerta, cioè che dichiarano come motivazione la lontananza eccessiva del nido, il rifiuto della domanda presentata o gli orari troppo scomodi. Nel complesso, si arriva ad un 16 per cento circa di “domanda potenziale” che non viene soddisfatta per ragioni indipendenti dalla volontà della famiglia. Ben più rilevante è invece la quota di famiglie che dichiarano di non aver iscritto il proprio figlio al nido perché c’è un familiare che se ne può occupare o non si vuole delegare ad altri il proprio compito educativo (38,5 per cento), oppure perché si ritiene che il bambino sia ancora troppo piccolo o si teme per la sua salute (43 per cento). Quest’ultima motivazione è particolarmente forte per i bambini sotto 1 anno, dove infatti il tasso di non iscrizione al nido tocca il 93 per cento (anche grazie agli strumenti di conciliazione a disposizione delle madri, come il permesso per l’allattamento o la maternità facoltativa); all’aumentare dell’età crescono invece sia la percentuale di bambini iscritti, sia la domanda potenziale non soddisfatta.

Il fatto che la mancata iscrizione al nido dipenda soprattutto dalle preferenze delle famiglie non è una novità, come documentato anche dalle precedenti edizioni dell’Indagine Multiscopo sulle Famiglie dell’Istat e da Zollino (2008), che stimava che solo il 23 per cento delle famiglie con bambini sotto i 3 anni non avesse iscritto i figli al nido per ragioni indipendenti dalla propria volontà (assenza di posti, lontananza da casa, rapporto qualità-prezzo non adeguato).[10]

Alla luce di questi dati, il numero ancora limitato di bambini che frequentano l’asilo nido in Italia sembra dipendere non solo da mancanze dal lato dell’offerta (che possono essere superate investendo più risorse pubbliche), ma anche da ragioni culturali dal lato della domanda, sicuramente più difficili da modificare. Al crescere dell’età del bambino, però, questi fattori culturali tendono a diventare meno importanti.

Quante risorse servirebbero per potenziare i nidi?

Potenziare l’offerta di asili nido significa investire maggiori risorse per aumentare i posti a disposizione ed eventualmente per ridurre le rette pagate dalle famiglie. Quante risorse servirebbero per portare il tasso di copertura della fascia 0-2 anni al 33 per cento (come raccomandato dalle istituzioni europee) o al 60 per cento (come suggerito dal Piano Colao)?

Ipotizziamo di mantenere costante la quota di bambini coperta da strutture private, attualmente pari al 12,1 per cento dei potenziali utenti, così come il costo pro capite sostenuto dai comuni per le strutture pubbliche a gestione diretta.[11] Oltre agli investimenti necessari per costruire nuove strutture o ampliare quelle esistenti, la spesa corrente aggiuntiva che i comuni dovrebbero sostenere ogni anno per garantire un tasso di copertura complessivo del 33 per cento sarebbe di circa 1 miliardo; per raggiungere il 60 per cento, potrebbero servire invece circa 4,3 miliardi in più.

Per quanto riguarda le spese di investimento, l’Ufficio Valutazione Impatto del Senato stima un costo una tantum di 16.000 euro per ogni posto aggiuntivo. Nel nostro caso, vorrebbe dire un investimento di 1,9 miliardi per raggiungere la copertura del 33 per cento e di 8,1 miliardi per la copertura del 60 per cento. L’ammortamento di questi investimenti, pari al 3 per cento annuo per gli edifici, ammonterebbe rispettivamente a circa 60 e 240 milioni all’anno, da aggiungere alla spesa corrente vista sopra.

Queste stime soffrono chiaramente di una certa variabilità: se i comuni abbassassero anche le rette, i costi sarebbero più elevati; viceversa, se i comuni affidassero la gestione delle nuove strutture a enti terzi, la spesa sarebbe inferiore. In ogni caso, si tratta di cifre relativamente contenute.

Un confronto internazionale

Come ricordato, oggi l’Italia spende lo 0,08 per cento di Pil per gli asili nido. Quanto spendono gli altri paesi? Nel 2015 l’Italia era all’undicesimo posto su 14 paesi europei considerati in un rapporto OCSE.[12] In particolare, la Germania spendeva più del doppio in rapporto al Pil, la Francia quasi 8 volte tanto e la Svezia addirittura 13 volte tanto (Fig. 2). La situazione rimane simile anche guardando alla spesa pro capite per ogni bambino al di sotto dei 3 anni: nel 2015 la Svezia spendeva oltre 14.000 dollari (a parità di potere d’acquisto) per ogni bambino tra 0 e 2 anni, la Francia oltre 7.000, la Germania 3.600 e l’Italia soltanto 1.200.

L’Italia è più indietro rispetto ai principali paesi europei anche in termini di bambini iscritti al nido o ad altre strutture per l’infanzia (Fig. 3). Nel 2018 la percentuale di bambini sotto i 3 anni iscritti a un servizio di cura o educativo “formale” era di poco superiore al 33 per cento nei 27 Stati UE: in media, dunque, l’obiettivo che l’UE si era prefissata è stato raggiunto. C’è però una forte eterogeneità nella diffusione degli asili nido. L’Italia è al diciottesimo posto, essendo seguita solo dall’Austria e dalla maggior parte dei paesi dell’Est Europa, con percentuali inferiori al 20 per cento. All’estremo opposto, non solo la Francia e i paesi del Nord, ma anche alcuni del Sud come Spagna e Portogallo raggiungono il 50 per cento di bambini iscritti. A metà strada si trova la Germania, attorno al 30 per cento.

Conclusioni

L’Italia è sotto la media europea sia in termini di spesa, sia in termini di utenza. Per raggiungere il target europeo di un tasso di copertura del 33 per cento per i bambini minori di 3 anni, servirebbe una spesa corrente aggiuntiva attorno a 1 miliardo l’anno. Le corrispondenti spese d’investimento una tantum di 1,9 miliardi potrebbero invece essere coperte dalle risorse che arriveranno dal piano Next Generation EU. Al tempo stesso, il numero ancora basso di bambini iscritti al nido sembrerebbe dipendere, in modo rilevante, non solo dall’offerta limitata di posti o dal costo delle rette, ma anche dalle scelte delle famiglie, più difficili da modificare in tempi brevi. L’importanza di questi fattori culturali tende però a scendere al crescere dell’età del bambino.


[3] Per una sintesi degli obiettivi e degli strumenti previsti dal Family Act, vedi https://www.lavoce.info/archives/67867/family-act-un-punto-di-partenza/.

[4] In particolare, sul tema degli asili nido il testo dice che il governo è delegato ad adottare entro 12 mesi un decreto che abbia come obiettivo, tra le altre cose, quello di “garantire, su tutto il territorio nazionale, l’istituzione e il sostegno dei servizi socio-educativi per l’infanzia” e di “sostenere le famiglie […] con contributi che possono coprire anche l’intero ammontare delle rette relative alla frequenza di asili nido”.

[5] In questa nota il termine “asili nido” comprende anche gli altri servizi per la prima infanzia (nidi aziendali, “sezioni primavera” all’interno di scuole dell’infanzia, “spazi gioco”, ecc.); i posti offerti negli asili nido in senso stretto ammontano all’80 per cento del totale. Vedi https://www.istat.it/it/files//2019/12/Report-asili-nido-2017-2018.pdf.

[7] Il contributo mensile erogato dall’INPS non può eccedere la spesa sostenuta dalla famiglia per il pagamento della retta mensile del nido. Nel 2018, quando l’importo massimo del bonus era di 1.000 euro annui indipendentemente dal reddito familiare, il bonus è andato a 121 mila famiglie, per una spesa di 78 milioni.

[8] Per i dati sulle rette del Comune di Roma in funzione dell’ISEE, vedi http://www.oecd.org/els/soc/TaxBEN-Italy-2019.pdf.

[10] Zollino, F. (2008), “Il difficile accesso ai servizi di istruzione per la prima infanzia in Italia: i fattori di offerta e di domanda”, Banca d’Italia Occasional Paper n.30.

[11] La stessa metodologia di stima è stata utilizzata dall’Ufficio Valutazione Impatto del Senato in questo studio del 2018: http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/01077563.pdf.

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