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La sfida europea della competitività

03 maggio 2024

Intermedio

La sfida europea della competitività

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Le condizioni che hanno favorito lo sviluppo dell’Unione europea negli ultimi decenni sono sempre più incerte. L’UE si trova, infatti, ad affrontare sfide quali la transizione ecologica e l’invecchiamento della popolazione in uno scenario caratterizzato da inefficienze che limitano la capacità dei Paesi europei di competere con le altre grandi potenze come gli Stati Uniti. Per queste ragioni, la presidente della Commissione europea uscente ha richiesto a due ex presidenti del Consiglio dei ministri italiani di predisporre due rapporti su come migliorare le prospettive di crescita europee. Nei due rapporti si affrontano i temi della competitività delle economie europee. In questa nota proponiamo un’analisi della dinamica recente della produttività nell’UE in confronto agli Stati Uniti, mostrando come a partire dalla crisi del 2008, sfociata poi nella crisi del debito europeo, i Paesi UE non siano riusciti a tenere il passo con gli Stati Uniti in termini di produttività e, dunque, di reddito.

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La Presidente della Commissione europea uscente, Ursula Von der Leyen, ha incaricato due autorevoli personalità italiane, entrambi ex Presidenti del Consiglio dei ministri, Enrico Letta e Mario Draghi, di predisporre due rapporti sull’economia europea, uno con proposte di rafforzamento del mercato unico europeo e l’altro più generale sulle condizioni di competitività dell’economia europea. Il primo rapporto, quello sul mercato unico, è già stato presentato ad aprile 2024.[1] Il secondo è atteso per luglio 2024, dopo le elezioni europee, benché varie anticipazioni siano già state riportate dai media.[2]

Entrambi i rapporti, non a caso commissionati in chiusura del percorso dell’attuale Commissione, dovrebbero servire come guida per le politiche da attuare in futuro da parte della prossima Commissione e del nuovo Parlamento europeo. Ed entrambi questi documenti, almeno alla luce delle dichiarazioni riportate dalla stampa, chiedono modifiche radicali all’attuale funzionamento dell’Unione europea, con uno sforzo molto maggiore di integrazione, sostenuto anche da ingenti finanziamenti comuni, su una serie di settori come la finanza, l’energia, la difesa, la transizione energetica e digitale, la politica industriale e così via.

Il sottotesto di entrambi i rapporti è che, se non si adotteranno queste politiche comuni, è difficile che l’economia europea possa continuare in prospettiva a rimanere competitiva ed a garantire i livelli di benessere del passato ai propri cittadini, rischiando di rimanere indietro rispetto ai grandi player mondiali, a cominciare dagli Stati Uniti, che pure hanno un assetto istituzionale e politico non molto diverso da quello europeo, ossia basato su un’economia di mercato e una democrazia liberale.

In questa nota cerchiamo di analizzare il problema della competitività dell’economia europea e comprendere se, effettivamente, sia un’urgenza che la prossima Commissione europea e il prossimo Parlamento europeo devono mettere in agenda fin dall’inizio del mandato.

La crescita del reddito

La Fig. 1 illustra l’evoluzione del Pil pro capite (reale, a prezzi del 2015 e a parità di potere d’acquisto) nei 12 Paesi europei “core” dell’UE negli ultimi 40 anni, dal 1980 al 2022, ultimo dato disponibile.[3] Questa misura tiene conto dell’evoluzione differenziata della popolazione nelle due aree, dato che la dinamica demografica (grazie anche ad una maggiore immigrazione, ma anche a un tasso di natalità maggiore di quello europeo) è stata nel periodo più favorevole negli USA che nei Paesi europei “core”.

Quel che è evidente è una progressiva incapacità dei Paesi europei di mantenere il reddito al passo con quello americano. Se all’inizio del periodo, il reddito medio europeo era attorno al 80 per cento di quello americano, alla fine del periodo si arriva al 70 per cento. Colpisce ancora di più la dinamica italiana, che da un valore del reddito medio nel 1980 attorno al 85 per cento nel di quello statunitense (e un po’ superiore a quello medio europeo) nel 1980, si è ridotto a poco meno del 65 per cento nel 2022.

Come racconta il caso italiano, la media potrebbe essere fuorviante e nascondere dinamiche diverse tra i diversi Paesi europei. Per questa ragione, la Tav. 1 riporta i tassi di crescita del Pil pro capite per diversi periodi e per i principali Paesi. In questa tabella, per confronto, aggiungiamo anche il Regno Unito, benché non faccia più parte dell’UE a partire dal referendum del 2016, in quanto può essere considerato un caso a metà, ovvero un Paese europeo ma con istituzioni politiche e di mercato più simili agli Stati Uniti che a un Paese europeo continentale.

Dal 1980 al 2000 si osserva una dinamica differenziata: i Paesi europei nel loro complesso hanno quasi tenuto il passo con l’economia americana e anche l’economia italiana è cresciuta in linea con quella media europea. Dal 2000 al 2008 le dinamiche cominciano a differenziarsi. L’economia europea, al netto dell’Italia, tiene il passo con quella americana in termini di tassi di crescita medi annui, in parte trainata dall’economia tedesca. Crolla invece quella italiana, che cresce meno di un terzo di quella europea, e mostra difficoltà crescenti anche l’economia francese, la seconda economia dell’area euro, che cresce del 30 per cento in meno di quella media europea. Migliori performance presentano invece la Spagna (che parte, tuttavia, da un livello di reddito pro capite molto più basso degli altri Paesi e in cui dunque si innesta anche un processo di convergenza verso le economie mature) e il Regno Unito, che sia nel primo che nel secondo periodo presenta tassi di crescita medi del Pil pro capite superiori agli Stati Uniti.

La divergenza si accentua nell’ultimo periodo, cioè dalla crisi finanziaria in poi. In questo periodo, la quasi totalità dei Paesi europei crescono meno degli Stati Uniti, con una crescita media dell’area euro che è meno della metà di quella statunitense e con divergenze interne ancora più marcate. I Paesi dell’Europa meridionale, che si confrontano anche con la crisi dell’euro e che devono dunque anche introdurre gravosi processi interni di aggiustamento fiscale, perdono terreno rispetto agli altri. In Italia, nonostante la buona performance post-pandemica, la crescita media annua pro capite nel quindicennio 2008-2023, è nulla. La Spagna cresce, ma solo dello 0,2 per cento medio annuo, e anche la Francia cresce in media meno della metà degli Stati Uniti, più o meno come il Regno Unito. Fanno meglio i Paesi del Nord, in particolare la Germania, che sviluppa ulteriormente la sua propensione all’esportazione e che gode anche di un effetto di flight to quality con i capitali che in uscita dai Paesi dell’euro in difficoltà si spostano sul mercato tedesco, così finanziando lo sviluppo di questa economia. Tuttavia, anche il reddito pro capite tedesco in questo periodo cresce di circa il 30 per cento in meno di quello statunitense.

La produttività

Il reddito prodotto da un Paese è determinato in ultima analisi da quanta gente lavora e da quanto ogni lavoratore produce in termini di reddito, che a sua volta dipende dalla dotazione di capitale e dalla tecnologia impiegata nei processi produttivi. Per capire cosa ci sia dietro i dati sulla crescita del reddito prima illustrati, è necessario focalizzare l’attenzione sulle misure di produttività.[4] Cominciamo dall’evoluzione della produttività oraria, cioè il valore aggiunto prodotto da un’ora di lavoro, in modo da tener conto anche del fatto che le ore lavorate nei diversi Paesi sono differenti e che, in particolare, negli Stati Uniti si lavora in media di più che in Europa.[5] I dati riportati nella Fig. 2 correggono anche per le variazioni nel tasso di cambio dollaro-euro e per l’inflazione, in modo da avere un confronto corretto.

Dopo un iniziale processo di convergenza della produttività oraria media europea verso quella americana fino a circa il 2000 (cioè, nello stesso periodo in cui la crescita del reddito pro capite europeo tiene il passo con quella americana), si osserva una lieve riduzione negli anni successivi.[6] Se la produttività oraria media europea era circa il 70 per cento di quella americana nel 1980, questa sale fino al 90 per cento nel 2000, per poi stabilizzarsi nei vent’anni successivi attorno all’85 per cento di quella americana.

Preoccupante il dato italiano che dopo la convergenza al dato americano seguendo la media europea, sperimenta una riduzione della produttività oraria fino ai primi anni Duemila per poi assestarsi su un livello inferiore a quello medio europeo. È anche interessante osservare, senza avanzare in questo contesto ipotesi esplicative, che la caduta della produttività oraria in Italia si concentra nel periodo 1998-2004, un periodo caratterizzato da una forte caduta dei tassi di interesse (a seguito dell’entrata nell’euro) che al contrario avrebbe dovuto stimolare gli investimenti e dunque la crescita dalla produttività. Ad ogni modo, a seguito di questo percorso, alla fine del periodo, nel 2019, ogni ora lavorata in Italia produce in media dieci punti in meno di valore aggiunto della media europea.

La Tav. 2 scompone il dato medio tra i diversi Paesi europei. Si osserva in primo luogo una crescita sostenuta della produttività oraria del lavoro in tutti i Paesi europei nel periodo 1980-2000 (particolarmente in Germania), maggiore che negli Stati Uniti, un dato che spiega la convergenza prima osservata nella Fig. 2. Ancora nel 2000-2008 i Paesi europei tengono più o meno il passo con la crescita della produttività americana, con la Germania che di nuovo presenta la dinamica più favorevole. In questo periodo il problema è l’Italia, che vede la crescita della produttività oraria ridursi drasticamente, a circa un terzo di quella media europea. Si nota invece una inversione nell’ultimo periodo: a fronte di un rallentamento generale della crescita della produttività oraria in tutti i Paesi (anche negli Stati Uniti si dimezza nell’ultimo periodo rispetto a quelli precedenti), i Paesi europei restano comunque mediamente indietro, con questa volta la Germania fanalino di coda.

La produttività oraria, per quanto importante, è però una misura insufficiente della competitività di una economia. Altrettanto importante è la produttività totale dei fattori (il “residuo” di Robert Solow o la Total Factor Productivity, TFP in base all’acronimo inglese), che misura la crescita del prodotto che non viene spiegata dall’impiego dei fattori produttivi, capitale e lavoro.[7] Concettualmente, la TFP è una misura dell’efficienza globale dell’economia nel produrre reddito dato l’impiego dei fattori produttivi, per effetto di una miglior tecnologia e di una migliore capacità di utilizzare i fattori produttivi. Per esempio, se la crescita della TFP è negativa, può benissimo accadere che un Paese finisca con il produrre di meno nonostante l’impiego dei fattori produttivi rimanga costante o aumenti; viceversa nel caso di una crescita positiva della TFP.

La Fig. 3 riporta il confronto nella crescita della TFP tra Stati Uniti e Paesi europei (ancora una volta  a parità di potere di acquisto e in termini reali), mostrando, in dettaglio, anche il caso italiano. La figura richiede pochi commenti. La TFP è cresciuta negli Stati Uniti e in Europa nella stessa misura fino a circa il 1995; dopodiché si è registrato un divario crescente, con la TFP che è rimasta costante in Europa mentre ha continuato a crescere negli Stati Uniti, con solo un lieve rallentamento durante la crisi finanziaria. Questo significa che nell’ultimo anno di osservazione, a parità di fattori produttivi impiegati, capitale e lavoro, l’economia statunitense è in grado di produrre il 30 per cento in più di quanto produceva nel 1980, mentre l’economia europea produce solo il 10 per cento in più. Di nuovo, deprimente il caso italiano, dove la TFP, dopo essere rimasta costante nel ventennio che precede il 2000, ha iniziato un percorso decrescente negli anni successivi. Nel 2019, a parità di fattori impiegati, l’economia italiana è in grado di produrre l’11 per cento in meno di quanto producesse nel 1980.

La Tav. 3 scompone la crescita della TFP in diversi periodi, mostrando un’ottima performance dell’economia tedesca nel periodo 1980-2000, superiore al dato americano. Nel 2000-2008, i Paesi europei arrancano, con la sola Germania (e il Regno Unito) che rimane vicina, seppur inferiore, alla crescita della TFP americana. Nell’ultimo periodo, cioè nei quindici anni che seguono la crisi finanziaria, non c’è partita, con la crescita annua della TFP che è zero in tutti i Paesi europei (o addirittura negativa in Italia), eccetto che per la Germania, dove la TFP ancora cresce ma molto più debolmente rispetto agli USA.

Conclusioni

Non ci addentriamo qui sulle cause del ritardo europeo e soprattutto italiano. Su questo esiste già un’enorme letteratura, non sempre in accordo nella individuazione delle cause e nella conseguente proposizione dei rimedi.[8] La conclusione del confronto però è che, come europei, c’è sicuramente da preoccuparsi. Anche per un’altra ragione. I dati qui riportati fanno riferimento al passato; e in questo passato, per quanto il disallineamento tra l’economia statunitense e quella europea negli ultimi vent’anni sia evidente, gli europei (o almeno alcuni di questi) non se la sono cavata troppo male. È vero, l’economia europea è diventata in media meno competitiva rispetto a quella americana (i venti punti in meno di crescita della TFP), e il reddito europeo pro capite si è ridotto rispetto a quello americano. Ma alcuni Paesi, come la Germania e in generale i Paesi nordici, hanno fatto un po’ meglio della media europea, mentre altri (l’Italia soprattutto) hanno fatto decisamente peggio.

Il problema è se questo percorso sia ancora sostenibile in futuro. Alcune delle condizioni che hanno consentito ai Paesi europei di crescere, sia pure in media debolmente, negli ultimi vent’anni (l’apertura dei mercati internazionali con la possibilità di esportare liberamente nelle economie emergenti dell’Asia, l’energia a basso costo dal mercato russo, la spesa per la difesa delegata agli Stati Uniti ecc.) sono tutte rimesse fortemente in discussione dal nuovo scenario geopolitico. In più, l’Europa sembra essere rimasta indietro in tutte le tecnologie del futuro, che si tratti dello sviluppo dell’intelligenza artificiale o del computer quantistico.[9] Anche perché queste tecnologie richiedono enormi investimenti e lo sfruttamento di economie di scala che le imprese europee, mediamente piccole rispetto ai colossi cinesi e americani, e i mercati europei, ancora pesantemente segmentati (a cominciare da quelli bancari e finanziari), non sono in grado di sostenere. Il rischio è quello di veder allargarsi ulteriormente la differenza rispetto agli Stati Uniti (e non solo) in termini di produttività e dunque di reddito. C’è dunque davvero da sperare che i due rapporti richiesti dalla attuale Presidente della Commissione offrano suggerimenti importanti per rafforzare la competitività europea; ce n’è chiaramente bisogno.


[1] Vedi il rapporto di Enrico Letta: “Much more than a market”.

[2] B. Romano, “Draghi: l’Europa deve reinventarsi per rispondere alle sfide di Usa e Cina”, Il Sole 24 Ore, 16 aprile 2024.

[3] I Paesi europei che consideriamo sono quelli che hanno adottato l’euro fin dall’inizio, a testimonianza di un maggior grado di integrazione: Austria, Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo e Spagna. Aggiungere gli altri 15 Paesi UE, oppure anche solo gli altri 8 che hanno adottato l’euro successivamente, falserebbe un po’ il confronto, in quanto questi Paesi, una volta entrati a far parte della UE, hanno avuto un processo di convergenza molto accelerato. In ogni caso, anche aggiungendoli non si modificherebbero molto le conclusioni.

[4] Il reddito prodotto all’interno di un Paese non necessariamente coincide con il Pil, visto che questo include anche i ritorni dagli investimenti esteri e nella versione che noi consideriamo (a prezzi di mercato) anche di imposte indirette e contributi. Ma è comunque una buona approssimazione.

[5] Per avere un’idea riguardo alle ore lavorate tra UE e Stati Uniti vedi “Employment - Hours worked”, OECD.

[6] Il periodo considerato per la produttività è un po’ inferiore a quello del reddito perché le statistiche sulla produttività sono disponibili con maggior ritardo di quelle sul reddito.

[7] Il riferimento canonico è a R. Solow, “Technical Change and the Aggregate Production Function”, Review of Economics and Statistics, 1957.

[8] La letteratura è piuttosto variegata; al riguardo si possono vedere, per esempio: G. Duernecker, M. Sanchez-Martinez, “Structural Change and Productivity Growth in Europe – Past, Present and Future”, European Economic Review, 151, 2023; C. Buiatti, J.B. Duarte, L.F. Saenz, “Europe Falling Behind: Structural Transformation and Labor Productiity Growth Differences Between Europe and the U.S.”, 2023; C. Giordano, G. Toniolo, F. Zollino, “Long-run trends in Italian Productivity”, Questioni di Economia e Finanza (Occasional Papers), 406, 2017; M. Bugamelli, F. Lotti, M. Amici, E. Ciapanna, F. Colonna, F. D’Amuri, S. Giacomelli, A. Linarello, F. Manaresi, G. Palumbo, F. Scoccianti, E. Sette, “Productivity growth in Italy: a tale of slow motion change”, Questioni di Economia e Finanza (Occasional Papers), 422, 2018; R. Greco, “A structural analysis of productivity in Italy: A cross-industry, cross-country perspective”, Questioni di Economia e Finanza (Occasional Papers), 825, 2023.

[9] Buti calcola che sulle 10 tecnologie più rilevanti del futuro, l’Europa sia presente in modo significativo in solo 2 di queste; K. Biondi, “Un manifesto per l’Europa alla ricerca di un’anima politica”, Secondo Tempo, 15 dicembre 2023.

Un articolo di

Massimo Bordignon, Francesco Scinetti, Gilberto Turati, Leoluca Virgadamo

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