Università Cattolica del Sacro Cuore

Cuneo fiscale e pressione fiscale: un confronto con l’Eurozona

di Luca Gerotto e Pietro Mistura

27 gennaio 2020

La Legge di Bilancio 2020 ha destinato tre miliardi alla riduzione del cuneo fiscale per i lavoratori dipendenti. In questa nota confrontiamo l’attuale cuneo fiscale, e più in generale la pressione fiscale, con quello degli altri paesi dell’Area Euro, concludendo che il nostro cuneo, benché non sia il più alto in assoluto, è comunque più elevato della media ed è quindi utile cercare di ridurlo. Al contempo, però, per avvicinare davvero la media europea servirebbero quattro o cinque volte le risorse finora allocate.

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Da tempo nel dibattito economico e politico si sottolinea la necessità di ridurre la pressione fiscale su imprese e famiglie. Nello specifico, la Legge di Bilancio 2020 interviene sul cuneo fiscale, cioè sul divario fra quanto un lavoratore costa al datore di lavoro e il netto percepito in busta paga, predisponendo un apposito fondo da 3 miliardi per il 2020 “per la riduzione del carico fiscale sui lavoratori dipendenti”.[1] Abbassare il cuneo fiscale porta con sé alcuni vantaggi, in particolare permette di ridurre il costo del lavoro per le imprese, aumentandone la competitività, e/o consente ai lavoratori di percepire un reddito maggiore, incentivandone anche la partecipazione al mercato del lavoro.[2] I più recenti interventi per l’abbattimento del cuneo fiscale sono stati indirizzati verso lavoratori con retribuzioni basse, i quali hanno un’alta propensione al consumo e teoricamente, a seguito di un aumento del salario netto, dovrebbero aumentare i propri consumi.[3] Ma questo cuneo fiscale, e più in generale la pressione fiscale, in Italia sono più alti o più bassi rispetto a quelli dei paesi europei? Per rispondere, facciamo riferimento alle statistiche calcolate da alcuni istituti internazionali, quali la Commissione Europea e l’OCSE.

Prima di affrontare questa analisi, è utile notare come la pressione fiscale in Italia si sia ridotta nel corso degli ultimi anni (vedi Tavola 1); la riduzione è ancor più evidente se si considera anche il “Bonus 80 Euro” introdotto dal governo Renzi nel 2014, che formalmente non rientra nel computo della pressione fiscale in quanto realizzato attraverso un meccanismo considerato, sulla base di definizioni statistiche, come un trasferimento dallo Stato e quindi una spesa, ma che è, di fatto, una riduzione delle tasse sui redditi bassi.[4],[5]

Nel complesso, a prima vista, la pressione fiscale in Italia non sembra essere particolarmente più alta rispetto alla media ponderata (in base alla dimensione del Pil) dei partner della zona Euro. La pressione fiscale in Italia è di 0,8 punti percentuali più alta della media ponderata dell’Eurozona (Tavola 2). La differenza si riduce ulteriormente se consideriamo l’effetto del Bonus 80 Euro – che, nella Tavola 1, avevamo visto essere pari a circa 0,5 punti di Pil. Tuttavia, la media ponderata è tenuta alta dal forte peso della Francia, che ha un livello di tassazione molto alto, e, in parte, dalla Germania. Se si prende invece come riferimento la media semplice dei paesi dell’Area, il divario con l’Italia diventa molto più marcato: 1,9 punti al di sopra della media semplice dei dieci maggiori paesi dell’Area[6] e addirittura cinque punti al di sopra della media semplice di tutti i paesi dell’Area Euro.

Si noti che l’Italia appare anomala anche tenendo conto del diverso livello di reddito pro capite dei vari paesi. Solitamente paesi con un reddito pro capite più elevato hanno livelli di tassazione maggiore. Come indicato dalla Figura 1, l’Italia eccede la linea che descrive la relazione tra pressione fiscale e reddito pro capite di 3,9 punti percentuali.

Passiamo al confronto sul cuneo fiscale. Nella Tavola 3 e nelle figure successive il confronto viene fatto per tipologia di percettore: ad esempio, qual è il cuneo su un lavoratore single e quale su un lavoratore con coniuge e figli a carico. Nel complesso, in Italia il cuneo fiscale è più alto che nell’Area Euro per tutti i lavoratori tranne i single a basso reddito, per i quali il cuneo fiscale è in linea con l’Area Euro e risulterebbe addirittura inferiore includendo il Bonus 80 Euro. Viceversa, i lavoratori con familiari a carico hanno un cuneo fiscale superiore: il cuneo fiscale per l’unico percettore di un nucleo familiare monoreddito è di 3,5 punti percentuali superiore a quello medio dell’Eurozona, mentre lo stesso lavoratore senza familiari a carico avrebbe un cuneo fiscale “solo” 1,9 punti superiore alla media della zona Euro.[7] Il divario si allarga ulteriormente se consideriamo una media semplice dei dieci maggiori paesi dell’Area Euro: il cuneo per un lavoratore che guadagna il salario medio e ha tre familiari a carico è di 5,4 punti più alto della media di questi paesi. Questo suggerisce che la priorità nel ridurre il cuneo fiscale dovrebbe essere data ai lavoratori dipendenti con familiari a carico.

Nel dettaglio, nella Figura 2 viene riportato il cuneo fiscale per un lavoratore single che percepisce il salario medio; l’Italia si colloca al terzo posto di questa classifica con un cuneo fiscale pari a 47,9 per cento, superata soltanto da Belgio e Germania con, rispettivamente, 52,7 e 49,5 per cento. Anche con riguardo al cuneo fiscale calcolato per un lavoratore che percepisce il salario medio e ha coniuge e due figli a carico (Figura 3) l’Italia si colloca fra i paesi a maggior imposizione fiscale, avendo il secondo cuneo più alto dell’Eurozona (39,1 per cento) alle spalle della sola Francia (39,4 per cento). Nella Figura 4 viene riportato il cuneo fiscale per un lavoratore con salario medio avente due figli a carico, come il caso riportato nella Figura 3, ma ipotizzando stavolta che anche il coniuge lavori (con salario pari al 67 per cento del salario medio): l’Italia presenta il quarto cuneo fiscale più alto dell’Eurozona con il 41,7 per cento, più alto rispetto al caso di famiglia monoreddito a causa del minor impatto dei benefici fiscali; in particolare il coniuge, percependo esso stesso un reddito da lavoro, non è in questo caso considerato a carico. Infine, nella Figura 5 è riportato il cuneo fiscale per un lavoratore single che percepisce il 67 per cento del salario medio, cioè un reddito relativamente basso. Fra i casi che consideriamo, è l’unico nel quale il cuneo fiscale in Italia è inferiore a quello che grava su lavoratori simili nell’Eurozona. In questo caso l’Italia presenta un cuneo fiscale pari al 40,8 per cento, inferiore a quello di Germania e Francia pari, rispettivamente, al 45,4 e al 43,0 per cento; nel nostro paese la differenza tra il cuneo fiscale gravante sul reddito medio e su di un reddito basso è di 7,1 punti percentuali, differenza dovuta come detto anche alle recenti misure di abbattimento del cuneo.

Un’ulteriore analisi riguarda la correlazione fra il reddito pro capite ed il cuneo fiscale. Dalla Figura 6 alla Figura 9 riportiamo il cuneo fiscale per le varie tipologie di percettore unitamente al reddito disponibile lordo pro capite per ciascun paese.[8] Come per la Figura 1, in tutti e quattro i casi l’Italia eccede la linea retta che descrive la relazione tra pressione fiscale e reddito pro capite; questa deviazione in eccesso va da un minimo di 1,6 punti, per i single a reddito a basso, fino a cinque punti, per i lavoratori con reddito medio e coniuge e due figli a carico.

Per concludere: quante risorse sarebbero necessarie per portare il cuneo fiscale per i lavoratori dipendenti presente in Italia al livello di quello dell’Eurozona? I dati disponibili non permettono di fare una stima puntuale in quanto, come già evidenziato, non esiste al momento un indicatore che rappresenti il cuneo fiscale “medio” nei vari paesi, ma esistono diverse misure del cuneo fiscale per diverse tipologie di lavoratore. Possiamo, partendo da queste ultime misure, applicare alcune semplificazioni per provare a fare una stima di massima.

Ciò premesso, prendendo i dati dalla Tavola 3 e ponderando le quattro tipologie di percettore secondo la loro effettiva presenza nella popolazione,[9] otteniamo un valore “medio” del cuneo fiscale in Italia pari al 43,85 per cento, un divario “medio” dall’Eurozona dell’1,78 per cento, e del 4,49 per cento dai dieci maggiori paesi. In valore assoluto, nel 2018 i lavoratori dipendenti hanno versato circa 224 miliardi fra IRPEF (incluse le addizionali regionali e comunali) e contributi sociali obbligatori, inclusa la quota spettante ai datori di lavoro.[10] Ipotizzando quindi che il 43,85 per cento del costo complessivo del lavoro dei lavoratori dipendenti in Italia sia pari a 224 miliardi, allora tale costo del lavoro è pari a circa 510 miliardi: 224 miliardi fra IRPEF e contributi sociali diviso, appunto, 43,85 punti di cuneo (224/0,4385=510). Ridurre tale costo complessivo di 1,78 punti percentuali dovrebbe costare quindi almeno 9 miliardi (510*0,0178), cioè poco meno del doppio di quanto stanziato per il 2021, quando il taglio previsto per quest’anno andrà a regime sui 12 mesi. Ridurlo di 4,49 punti percentuali per portarlo alla media semplice dei primi dieci paesi dell’Area (cosa forse più rilevante per l’investitore marginale che deve decidere dove localizzare la propria attività d’impresa) costerebbe ben 23 miliardi (510*0,0449).

 

[1] Più formalmente, Il cuneo fiscale viene definito come la differenza tra il costo del lavoro per il datore di lavoro e il salario netto percepito dal lavoratore, includendo qualunque beneficio monetario dovuto a programmi di assistenza statale, sul reddito da lavoro.

[2] Nel breve termine, il taglio del cuneo può andare esclusivamente a vantaggio dei lavoratori, delle imprese o una via di mezzo, a seconda della maniera in cui è disegnato. Nel medio termine, l’effettiva ripartizione del taglio del cuneo dipende più dalla contrattazione fra le parti che dalle prescrizioni normative.

[3] Si veda l’articolo de lavoce.info dell’11 marzo 2014.

[4] Si veda la nota dell’Osservatorio CPI “Quali coperture per la legge di bilancio” del 7 ottobre 2019.

[5] Il costo di questa misura ammonta a 9,4 miliardi di euro l’anno e consiste in un credito Irpef riconosciuto dal datore di lavoro al lavoratore dipendente e assimilato direttamente in busta paga; spetta ai lavoratori che percepiscono un reddito complessivo inferiore ai 26.600 euro e superiore a 8.174 euro (la cosiddetta “no tax area”) e ammonta a 960 euro annuali (80 euro al mese) con una leggera differenza decrementale per coloro che hanno un reddito compreso tra i 24.600 e i 26.600 euro.

[6] Austria, Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Olanda, Portogallo, Spagna.

[7] Di particolare rilevanza il caso del Belgio che presenta il cuneo più elevato sui lavoratori single, mentre sui lavoratori con tre familiari a carico scende al 37,3 per cento, 15,4 punti percentuali in meno.

[8] Sono esclusi Irlanda e Lussemburgo, che hanno valori anomali.

[9] Elaborando i dati dell’Indagine sui Bilanci delle Famiglie Italiane del 2016, possiamo notare come, fra i nuclei familiari in cui è presente almeno un lavoratore dipendente, il 20 per cento sono nuclei formati da un’unica persona, il 6 per cento sono nuclei formati da quattro persone con un solo percettore di reddito ed il 10 per cento sono nuclei formati da quattro persone con due percettori di reddito. Inoltre, fra i nuclei formati da un’unica persona quelli con reddito più o meno attorno alla media sono il doppio di quelli con reddito più o meno attorno ai due terzi della media. A partire da questi rilievi, abbiamo attribuito un peso del 38 per cento al single con reddito medio, del 17 per cento al nucleo monoreddito formato da quattro persone, del 27 per cento al nucleo formato da quattro persone di cui due percettrici di reddito, e del 18 per cento al single con reddito pari a due terzi della media.

[10] L’IRPEF, incluse le addizionali locali, è pari 189 miliardi, e secondo uno studio di itinerari previdenziali circa il 50 per cento dell’IRPEF (escluse addizionali locali) è versata dai lavoratori dipendenti: https://www.itinerariprevidenziali.it/site/home/biblioteca/pubblicazioni/dichiarazioni-dei-redditi-ai-fini-irpef-2017.html. Gli stessi lavoratori dipendenti hanno versato circa 43 miliardi di contributi sociali, cui va aggiunto un valore doppio per i datori di lavoro.

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